Francesca Santucci
NOTA SULLE “NOTERELLE NAPOLETANE” DI RAFFAELE DE LEO
Raffaele De Leo, Noterelle Napoletane, a cura di M. De Leo,
Giacomo Paolino Editore, 2011, pp. 92, euro 10
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LIBRERIA PAOLINO – Ascea Marina (SA)
Renderà molto felici nello specifico i cultori della sana napoletanità, ed in generale gli appassionati delle tradizioni locali meridionali, “Noterelle napoletane dai principi del XX secolo”, pubblicazione edita da Giacomo Paolino editore, curata dalla scrittrice e traduttrice Maddalena De Leo, in cui sapientemente ha radunato gli scritti di suo nonno Raffaele (che non ha mai conosciuto perché mancato prima che lei nascesse, ma la cui presenza ugualmente sin da bambina ha fortemente percepito), rispettandone il desiderio:
“Per far piacere a mio figlio Arnaldo: Cura che questi scritti, a me tanto cari, non vadano dispersi. E quando io non sarò più ed avrai dei figli, apprendi loro leggendoli del cuore del nonno.
Ottobre 1952”.
Uomo sensibile, autore di versi nostalgici e delicati dal sapore crepuscolare, ma anche di commoventi prose ispirate dagli eventi tragici del primo conflitto mondiale (che si trovò costretto a vivere in prima persona, da soldato, al gelo, del clima e dell’anima, delle Dolomiti, strappato al calore della sua città, agli affetti e alle certezze della vita spensierata), scrittore d’indubbio e riconosciuto valore (tant’è che nel settembre del 1918 un suo racconto breve, Mezzanotte, pure presente nella terza parte di questa pubblicazione, che si divide in “Napoli dai principi del Novecento”, “Episodi di vita vissuta” e “Pagine sparse”, venne premiato con ben cinquecento lire dalla rivista “L’Ardengo” di Milano), Raffaele De Leo, che a Napoli trascorse l’età giovanile nei primi del Novecento, elaborò anche pagine dedicata alla città partenopea e ai suoi abitanti.
Con sguardo attento e bonario osservò e con acutezza ed arguzia annotò le sue impressioni, ritraendo, proprio come un pittore realista, ma sempre col sorriso sulle labbra, facce, fatti, situazioni, che con piacere ri/scopriamo, di una Napoli che non è più (la Napoli che, parlandone con nostalgia, nel 1920 Ernesto Murolo definiva “Napule ca se ne va”) e che rivive oggi solo nelle sbiadite memorie dei (pochi) superstiti di quell’antica generazione e dei narratori di allora.
Pagine di costume, di tradizioni, di usanze, di folklore (le canzoni, le feste di Sant’Antonio, di San Giuseppe, Piedigrotta, i teatri, i caffè, le osterie dell’epoca) sono sapientemente intessute da Raffaele De Leo, animate da una folla di personaggi popolari, chiassosi, festanti, tipici dell’epoca, dai mille disparati mestieri (i cucchiere affitte, i vetturini, i venditori ambulanti come i pulizza recchie e i pulizza onghie, i pulisci orecchie e pulisci unghie, i pubblici scrivani “allitterati”, cioè che sapevano, appunto, scrivere, e poi la capera, ‘o sapunaro, etc…) purtroppo andati perduti, le più diverse creature e accadimenti rivivono attraverso la penna dell’autore come vividi quadretti di Vincenzo Migliaro, il pittore che meglio di ogni altro seppe cogliere l’anima napoletana nei suoi più reali aspetti.
Un piccolo prezioso librino, dunque, nel quale la napoletanità si riflette in mille colori, attraverso caleidoscopici bozzetti di situazioni e tipi che raccontano l’arguzia, la vivacità del linguaggio, dei gesti, dei comportamenti, del colorito, ingegnoso, generoso popolo napoletano, noterelle leggère da léggere tenendo bene in ascolto il cuore, per apprendere, come desiderava Raffaele de Leo, uomo/scrittore d’altri tempi, del suo cuore e per conoscere una Napoli di ieri che non abbiamo conosciuto, ma la cui eco ancora riverbera oltre il tempo nei suoi soavi racconti.
[…] La regolare ed ideale possibilità di trasporto era la cosiddetta ‘carruzzella affitte‘ (corsa intera dodici soldi, mezza corsa sei) tariffa ad itinerario stabilito dal Comune che le poche guardie municipali, contrassegnate dal numero sul colletto della giubba, facevano a richiesta rispettare. Ciò quando i poco scrupolosi vetturini, classe malfamata, cercavano di frodare. Questi famosi ‘cucchier’ affitte‘, inurbani quasi sempre nei modi che, come si diceva, ‘tè pigliavene e’o eccellenza e tè lassaveno co’ chi t’è muorte quando la mancia non era generosa erano presi per esempio di gente villana e priva di educazione: ‘Me pare che tè cumpuorte comm ‘a ‘nu cucchiere affitte. Per la periferia funzionavano le Castiellammare, più sgangherate e meno comode e con i vetturini bisognava venire a patti. Il servizio di lusso, con cavalli trottatori, vetture agghindate e cocchieri più civili, che servivano le coppie di innamorati per la rituale passeggiata di via Ghiaia ed i forestieri, si univa alle cosiddette Vittorie, vetture ampie a due mantici riversabili, tramate da due cavalli e con il cocchiere in tuba e palamidone. […]
5. Usi e costumi superstiti
Delle più antiche usanze e dei costumi, che vanno scomparendo attraverso i tempi, nei miei ricordi dei princìpi del secolo ne sopravvivono ancora molti, alcuni dei quali resistono fino ad oggi, aventi ancora l’impronta del passato. E solo chi ne ha fatto oggetto di osservazione appassionata può notare quale e quanta risulta la differenza con quelli odierni.
Il popolo napoletano non aveva ancora perduto quelle caratteristiche che lo avevano distinto nel tempo, se pure scrittori stranieri e fìgli degeneri in malafede lo avevano tante volte denigrato. Cantava come non canta più le sue canzoni, le sue voci e le stese melodiose, celebrava le sue feste che si succedevano in ordine cronologico con più passione e comprensione, tripudiava e gozzovigliava nelle volute ricorrenze, perché il napoletano pure essendo tenuto falsamente in conto di crapulone ed orgiastico era, come è tuttora, quel buongustaio che amava la sua cucina ed i mancando loro uno dei capi di paragone per non aver visto come io vidi.
Nelle canzoni c’era più sentimento e più melodia, per le strade erano altri i sistemi dei venditori, le voci che si susseguivano di stagione in stagione erano più accorte ed invitanti; nelle ricorrenze era più sentita la religiosità del rito e le si celebrava dal vecchio nonno al nipotino adolescente; i pranzi, le scampagnate, le gite erano di prammatica per tutti i ceti differenziandosi solo negli obiettivi e nella dignità che vi si poneva, a seconda dei ranghi; tutto rivestiva un carattere di latente poesia fino a quando le guerre non sopravvennero a modificare con gli effetti nefasti usi e costumi, dando luogo a quelle sostanziali modifiche a detrimento di essi che si sogliono dire moderne. […]
MEZZANOTTE
Dan, din, dan ….
Il vecchio bronzo della guglia aguzza di Moè (*) manda i suoi accenti sonori a ripercuotersi nelle pareti rocciose dolomitiche, scendenti a valle per rispondere all’appello di altre torri, vigili e snelle, nella notte senza stelle.
La guerra! … anche voi la subiste campane del tempo e rimaneste mute in essa, vibrando solo nelle levigate cavità per il fragore dei cannoni.
Prima, nelle rigidità ulgenti, il vostro ritmo faceva soffermare spaventato il camoscio su per i dirupi; nel tabia sgangherato del breve piano, scuoteva il montanaro assonnato, facendo come per impulso suggestivo e timoroso muovere sotto le coltri, la destra a segnarsi di croce; oggi non più. Il vostro suono ha iniziato un’altra éra, l’éra del rimpianto, l’éra delle lacrime che copiose ed immateriali, come l’onde vostre, passano sulle tombe e si soffermano.
E non han fretta su questa o su quella, non distinguono latini da teutonici scritti: questi, quelli son cari nel ricordo d’una madre, d’un figlio, d’una sposa.
Scevro d’egoismo, mistico va veloce sull’ali del vento e le bacia, le sfiora e si ferma, poi ritorna, l’accarezza e si perde, volando su verso la vetta del Lana e del Sella, come un saluto triste, come una preghiera.
Dan, dan, dan …
Il corvo si posa come stanco del tristo suo giro e l’upupa tace… mezzanotte…
Morti, passa su di voi un’altra notte d’oblìo!…
• Borgo alpino della Val Cordevole in provincia di Belluno
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