Sulla scena il testo dedicato ad Anna Politkovskaja
Un lungo cappotto nero, una grossa sciarpa per difendersi dall’inverno moscovita incipiente, le braccia cariche di pesanti borse della spesa, tante da averla costretta a due viaggi.
Così tornava a casa Anna Politkovskaja il 7 ottobre del 2006. Così entra Elena Arvigo sulla scena del Teatro Out-Off di Milano.
Porta con sé soltanto lo stipite di una porta, non serve altro: poche assi che diventano passaggio e punto di osservazione, ma anche giogo e quasi croce, persino fossa, mentre Elena prende la pelle di Anna e ne racconta lo sguardo assumendone la voce.
«Ho sempre creduto che non stia a noi dare giudizi. Sono una giornalista, Io mi limito a raccontare i fatti. I fatti: come stanno, come sono. Sembra la cosa più facile, invece qui è la più difficile»
E i fatti che Anna racconta, per la Novaja Gazeta, sono quelli più scomodi alla Russia di Putin. Ciò che accade in Cecenia, «ripostiglio» della Federazione Russa.
Le storie si dipanano, senza sconti, rivendicando il diritto e il dovere del giornalista a non prendere parti o tessere politiche, come la quasi totalità dei colleghi.
Quantomeno la totalità dei vivi.
Il racconto non indulge a lirismi. Scava e scuote. Sputa in faccia allo spettatore l’orrore. Passa per gli attentati, come a Beslan, mentre Anna/ Elena si muove in un prato di fiori bianchi, recisi come il futuro di bambini ostaggio due volte. Di guerriglieri disumani e di soldati che spianano una palestra coi carrarmati.
Si sofferma sulle rappresaglie brutali contro i ceceni catturati, in una narrazione a quadri spezzata dalle paradossali balalaike che paiono quelle dell’informazione di Stato, che ossessivamente accusa di mentire una donna che nel mondo é già un simbolo, ma in patria é una nemica con cui non si deve avere un dialogo, perché è “non rieducabile“.
E con questo genere di nemici la strada è una sola: la neutralizzazione.
Sulla scena le borse della spesa spargono mele, che in quell’ottobre di inizio millennio, su un pianerottolo, si mischiano al sangue e a quattro bossoli.
Così tace, nove anni fa, la voce di Anna Politkovskaja la pazza, la pericolosa, la giornalista che amava il suo lavoro.
Il testo di Stefano Massini –corredato dalle scritte cubitali di Andrea Basti a fondo palco– è potente, preciso e chirurgico come un bisturi che incide le coscienze senza speranza di anestesie consolatorie, se non l’esistenza stessa di voci come quella di Anna –cui la Arvigo da corpo con una cura impeccabile per la regia di Rosario Tedesco– col coraggio di andare a fondo, assumendosene ogni conseguenza.
Costringendo lo spettatore a confrontarsi con l’etica del mestiere di giornalista e con la mostruosità della guerra e la meraviglia del rubinetto di una stanza d’albergo dopo mesi in una città nullificata.
Ma soprattutto con ciò che resta, dopo. Cosa porta con sè una guerra, ogni guerra?
Il silenzio delle voci di verità, certo, ma più ancora la morte di ogni umanità. E forse, con essa, di ogni prospettiva.
Con quali occhi si può guardare a un domani se é rappresentato da un diciannovenne orfano e soldato crudele che, quando gli si domanda perché, Risponde: «Non era un uomo, in fondo, era un ceceno. Qui stiamo facendo la guerra» «e tu cosa farai, dopo?» «spero che la guerra non finisca».
Comments