di Gabriella Quattrini

Frequentavo l’ultimo anno dell’Istituto Magistrali Fuà Fusinato quando fui espulsa da quella scuola per condotta immorale e insubordinazione.
Quale reato avevo commesso, per meritare un castigo così esemplare?
Durante l’ora di matematica, mentre la professoressa scriveva la soluzione di un teorema, alla lavagna, io, sul quaderno a quadretti, scrivevo una poesia d’amore:
questo, il mio reato d’immoralità, mentre quello d’insubordinazione fu perché insultai la professoressa chiamandola, acida-zitella; parole che non ritrattai neanche davanti al consiglio disciplinare.
Rifiutai di reinserirmi nell’ambiente scolastico, rinunciai al diploma e buttai la divisa della scolara.
Iniziai un corso di contometrista; vinsi un concorso alla TE.TI oggi TELECOM ed indossai la divisa dell’impiegata.
Furono anni spensierati! A soli diciassette anni avevo già conquistato la mia indipendenza!
La mattina svolgevo il mio lavoro al bureau delle informazioni: ero la prima immagine che la TE.TI offriva agli utenti che avevano la fortuna di entrare in quella sala!
I miei colleghi mi regalarono, da subito, l’appellativo di “Pantera bionda” per il mio incedere felino e flessuoso, mentre per le colleghe ero la loro “cherì”.
Il mio ingresso in quell’ufficio fu una ventata di giovinezza che spazzò via l’aria grigia che in esso regnava.
Un triste giorno, il direttore commerciale mi convocò:
– Signorina, all’ingresso ci sono due bureau… ne funziona soltanto uno, il suo… quello della sua collega è pressoché inutile.-
E, mi trasferì, definitivamente, al primo piano.
Seppi poi che, nel timbrare i vari reclami degli utenti, avevo inviato al direttore anche quelli dove alcuni ammiratori vi scrivevano frasi d’amore, apprezzamenti sul mio fisico e richieste del numero telefonico.
Piansi nell’abbandonare quel “trono” e provai l’umiliazione di chi viene esiliato.
Alcuni colleghi mi riferirono che in molti, entrando nel salone e non trovandomi al bureau esclamavano: -L’unica cosa “buona “la TE.TI, ce l’ha tolta! –
I più delusi, con la complicità degli uscieri, riuscivano a raggiungere il primo piano, interrompendo così il mio esilio forzato. Alcuni di essi mi aspettavano nel salottino privato, attiguo all’ufficio fatturazioni e, col pretesto di voler sollecitare una pratica, mi regalavano rose rosse, marron glassé, cioccolatini che io, rientrando, esibivo, in bella mostra, sulla mia scrivania, come trofei, suscitando, ogni volta, ammirazione e stupore.
Negli anni d’ufficio come in quelli scolastici mi distinsi per l’indisciplina.
Con il lavoro non ho mai avuto problemi, anzi, alcune colleghe mi pregavano di ridurre la mia produzione. Nelle quadrature ero veloce e precisa: mai una nota, al riguardo.
La mia popolarità, invece, aumentava nella misura in cui aumentavano le note disciplinari, motivate sia per le innumerevoli telefonate che ricevevo dal telefono personale del capo-reparto, sia per il mio rifiuto ostinato ad indossare il grembiule.
Mi resi conto che ero allergica alle divise, alle stellette, ai “sissignore”, ma soprattutto a quei regolamenti che tarpano le ali alla fantasia e limitano la libertà del pensiero.
Una mattina fui convocata dal capo ufficio, il quale, con tono paternalistico mi disse: – Signorina, lei, non indossando il grembiule, oltre a trasgredire il regolamento, evidenzia certe”forme”che provocano e distraggono i suoi colleghi. Poi, con tono meno paternalistico aggiunse: ad essere sincero qualche volta anch’io mi distraggo a guardarla!-
Mi feci confezionare un grembiulino nero, corto e sexy, fermato alla vita da una cintura di vernice nera che valorizzava la rotondità dei fianchi, senza, però, trasgredire alcun regolamento: provavo un sottile piacere a provocare gli uomini per il gusto un po’ sadico di dire loro “no”!
Nel periodo che lavorai al bureau fui corteggiata da uomini d’ogni tipo, ma soltanto due mi colpirono per la loro particolarità.
Il primo era un pilota, che notai quando mi chiese di aggiungere sul “passi”, “medaglia d’oro”, onde evitare anticamere.
Era alto, capelli brizzolati, indossava un bel cappotto spinato col bavero alzato, due grandi lenti scure gli coprivano parte del viso lasciandogli scoperta solo la punta del naso che appariva visibilmente bruciata.
Al primo colpo d’occhio lo trovai bellissimo per il suo fisico atletico e imponente: non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui!
Fu nel consegnargli il “passi” che m’accorsi, con un certo raccapriccio, delle sue mani accartocciate al punto di non poter afferrare il biglietto che gli stavo porgendo.
Le sue lenti scure m’impedivano di vedergli gli occhi, sentivo però il suo sguardo fisso su di me come se egli volesse catturare quel mio attimo di disagio.
Con aria apparentemente disinvolta, afferrai quello che una volta era una mano, posandogli sul palmo il foglietto sul quale avevo scritto con lettere ben visibili, “Capitano Todini – medaglia d’oro”. Egli appoggiò quello che restava dell’altra sua mano sul dorso della mia con una lieve pressione, quasi una carezza, che io interpretai come un “grazie”.
Non lo vidi uscire, né pensai più a lui fino a quando un fattorino mi consegnò un fascio di rose rosse con un biglietto nel quale mi si paragonava ad una Madonna.
Rimasi confusa e turbata nel leggere che il mittente di quell’omaggio floreale era il capitano Todini, ma anche un po’ delusa nel constatare che in quel biglietto non c’era il minimo accenno ad un nostro eventuale incontro.
La mia delusione fu breve, dopo pochi minuti il telefono squillò e una bella voce, che riconobbi immediatamente, disse: – Ciao, sono Marco, vorrei invitarti a prendere un the, oggi, alle diciassette alla “Casina Valadier”… verrai? Ti aspetto sulla terrazza del Pincio-
La telefonata mi elettrizzò, corsi dalla collega del bureau accanto per dirle che l’eroe del giorno prima, si era innamorato di me. La mia amica che dell’eroe ne aveva riportato un’impressione traumatizzante, mi rispose: -Per me tu sei matta ad andare all’appuntamento! Hai la vocazione della crocerossina? Ti consiglio di cambiare lavoro!-
Alle diciassette, precise, mi presentai alla Casina Valadier e nel vedere Marco venirmi incontro, l’immagine del collega, col quale, qualche volta, mi fermavo su una panchina del “giardino degli aranci”, mi sembrò di uno squallido!
Marco mi raccontò, senza la minima sollecitazione da parte mia, di quando si lanciò col paracadute dal suo aereo in fiamme e del romanzesco salvataggio fra i marosi dell’Oceano.
Ero letteralmente affascinata da lui, dalle sue parole, dalla sua voce: era l’uomo più interessante che avessi mai incontrato! Dopo aver consumato il nostro thé ci avviammo abbracciati lungo il viale delle Magnolie, ma quando Marco si tolse i grandi occhiali scuri per baciarmi io, mi sentii mancare: il suo volto era devastato dalle fiamme e i suoi poveri occhi non avevano palpebre.
Ricordo quei momenti come i più tragici della mia vita!
Avevo solo l’alternativa della fuga che, non presi in considerazione: non potevo umiliare un eroe!
Chiusi gli occhi, gli porsi la bocca che Marco baciò appassionatamente e, mentre lui mi baciava, giurai a me stessa che non l’avrei più rivisto.
Il giorno seguente le mie colleghe aspettavano impazienti che io parlassi loro dell’incontro con “l’Eroe”. Il nostro salotto di conversazione era la mensa, perché durante le ore d’ufficio non c’era concesso parlare. I miei racconti attesi e sollecitati dai commensali presenti erano diventati l’unico argomento di conversazione perché, a loro dire, nelle mie parole c’era il sapore della favola.
Quel giorno m’accorsi che non avevo voglia di parlare del mio incontro con Marco, né avevo voglia di sorriderne. M’inventai che mio padre era venuto a prendermi in ufficio, stroncando, prima di nascere quello che sarebbe stato un grande Amore.
Sollecitata a raccontare un’altra storia, per non deludere i miei colleghi, narrai loro di quando conobbi, sempre al bureau, un’altra “medaglia d’oro” questa volta “al valor civile.”
Era un uomo bellissimo, sul tipo di Yul Brinner (attore del momento) con la testa rasata come una palla da biliardo. Aveva un solo braccio, l’altro lo aveva perduto in un incidente. Il motivo che mi fece scattare la molla della curiosità, fu quando Yul Brinner mi raccontò che, prima di perdere il suo braccio, aveva compiuto diversi salvataggi al “fiume” strappando da morte sicura due bambini alle acque de Tevere. Furono questi suoi atti d’eroismo che gli fecero guadagnare la medaglia al “valor civile”
Aveva preso l’abitudine di venirmi a trovare quasi ogni giorno e una volta, spogliandomi con lo sguardo, al punto da farmi sentire nuda, mi sussurrò con voce dal tono carico di sensualità: – Le gemme preziose sono sempre custodite e ben visibili dietro dei cristalli e tu, in questo bureau, brilli come una gemma d’inestimabile valore-
Quella frase riuscì a farmi battere violentemente il cuore, mi stavo innamorando.
Una mattina, durante una delle sue solite visite, rincarò la dose con una frase di sicuro effetto:
– Con un solo braccio, potrei stringerti contro il petto con tale e tanta passione da mozzarti il fiato-
Il fiato me lo mozzò quando lo trovai un giorno fuori l’ufficio ad attendermi. Era a bordo di una jeep, sulla quale io, incautamente, salii… guidava come un pazzo.
Fu tanta la mia paura che, per moltissimo tempo, non presi più in considerazione gli eroi.
Le risate che facevano coro ad ogni mia storia si prolungavano anche quando, terminato il pranzo, andavamo tutti insieme a prenderci un caffè.
Contrariamente a quanto mi promisi la sera che Marco mi baciò lo rividi ancora.
La storia durò pochissimo. Mio padre, insospettito da quelle mie assenze ingiustificate, venne a prendermi in ufficio, mi vide con lui, s’incontrarono; non seppi mai cosa si dissero, so soltanto che Marco scomparve definitivamente dalla mia vita.
Parlando oggi del mio Eroe mi sorge il dubbio che non furono le sue medaglie ma le sue mani a coinvolgermi in quella storia.
Fin da bambina, se qualcuno mi si avvicinava, anche per farmi soltanto un’innocente carezza, io mi ritraevo istintivamente, come se dovessi ogni volta difendermi da quelle mani. Dalle mani di Marco non mi sono mai difesa: alle sue non era più concesso afferrare.
Dal primo istante che lo vidi proiettai su di lui il mio mondo regalandogli tutte quelle cose che, senza rendermene conto, desideravo poi riavere indietro filtrate e arricchite dal “mio Amore”.
Soffrii moltissimo quando il mio Eroe scomparve senza un rigo né una telefonata… e, per molto tempo, mi sentii terribilmente sola.
A me è sempre piaciuto guardare le persone attraverso un vetro colorato…ecco perché quel bureau mi era congeniale al punto da considerarlo, ancora oggi, uno dei più bei ricordi della mia vita.
In quel mio nido di cristallo io già rincorrevo, senza averne coscienza, un Amore metafisico proiettato in mezzo alle stelle.

Addio, vecchio caro bureau!

Gabriella Quattrini
http://www.gabriellaquattrini.it

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