Presso la Libreria Bibli di Trastevere è stato presentato il libro “Al Qantarah-Bridge: Un ponte lungo tremila anni fra Scilla e Cariddi” di Fausta Genziana Le Piane e Tommaso Maria Patti (N. Calabria Editore).
Sfidando la serata piovigginosa, le targhe alterne e le difficoltà di parcheggio il pubblico è intervenuto numeroso sia per l’interesse sollevato dall’argomento, sia forse per quello sollevato dalla coppia di autori, già collaudata con una precedente pubblicazione a quattro mani (Duo per tre – Edizioni associate, 2005 – prefazione a cura di Paolo Ruffilli), una raccolta di racconti fantastici incentrati, a vari livelli di tecnologia, magia e fantasia surreale, sul tema della comunicazione.
Poetessa calabrese, amante della magia, del surreale, del concetto di contaminazione nell’arte, lei, ingegnere siciliano, dirigente d’azienda in pensione, amante della storia e di quella siciliana in particolare lui. Parecchi altri libri di narrativa e poesia già in attivo lei, alcuni altri lavori sulla storia e la cultura siciliana in via di pubblicazione lui.
L’invito a partecipare alla serata conteneva anche un brano particolarmente stimolante, estratto dall’invito alla lettura pubblicato sulla quarta di copertina, che recitava: – Ma che lingua adoperano questi due? Italiano? Arabo? Inglese? Greco? E poi, Al Qantarah e Bridge non significano la stessa cosa? Col pretesto di parlare delle “terre dello stretto”, non si saranno montati un po’ troppo la testa? Perché coinvolgere storia e geografia? E la letteratura, almeno, non potevano lasciarla in pace? Volevano scrivere dei racconti per parlare di un ponte? Che lo facessero! Che bisogno c’era di scomodare tutto il resto? Federico II, Giufà, i Siculi, i Bruzi, i miti greci, la sensualità, la cultura araba, la mentalità spagnolesca, la corda pazza, l’Aspromonte, Wojtyla… E quella puntata nel futuro non è allucinazione pura? Cosa hanno da spartire Calabresi e Siciliani che, come dice Beppe Grillo, sono troppo diversi per tollerare che un ponte li unisca? Il vero quesito a questo punto è: Abbiamo a che fare con un’opera frutto di allucinazione poetica o con una tesi ardita, risultato di un’analisi rigorosa? –
Il volume è stato presentato dai noti poeti e critici letterari Raimondo Venturiello e Italo Evangelisti. La poetessa Gabriella Quattrini ha letto in quattro successivi interventi alcuni brani scelti a rappresentare i sette tempi in cui gli autori hanno suddiviso il ponte di storia e cultura, lungo tremila anni, che già unisce da tempo le due regioni in attesa della grande e da loro auspicata infrastruttura fisica.
Interessante il confronto di opinioni che, fra una lettura e l’altra effettuate da par suo dalla brava poetessa, emergeva fra gli interventi dei due presentatori del volume e quelli dei due autori. Gli autori che, sorvolando sulle polemiche politiche in corso sul tema, si mostravano decisamente favorevoli all’opera per motivi sociali, economici e di costruzione di un futuro migliore e i due poeti che, mostrando di aver apprezzato il libro, la sua struttura quasi da “ipertesto”, i contenuti culturali sciorinati con un pizzico di orgoglio, mantenevano invece qualche riserva sull’idea della infrastruttura. Le riserve sono state espresse da Raimondo Venturiello attraverso alcuni colti virtuosismi di tipo filologico – etimologico applicati ai concetti di “pons” e di “pontos”, da Italo Evangelisti sulla base di alcuni diffusi “pregiudizi” (da lui stesso definiti tali) figli forse della radicalizzazione della lotta politica in atto nel nostro paese da alcuni anni. A onor del vero lo stesso Italo Evangelisti, il cui contributo è stato decisamente brillante, richiamandosi alla propria onestà intellettuale, ha concluso l’intervento dichiarando che alcune sue certezze erano state parzialmente intaccate e chiedendosi se sulle tesi da loro esposte non potessero aver ragione proprio i due autori . Dal canto suo Raimondo Venturiello, autore di un intervento colto, ha mostrato di apprezzare i virtuosismi vicini allo spirito zen di alcuni haiku inseriti nel volume ad aprire ciascuno dei sette periodi (tempi) individuati dopo la preistoria: il greco, il latino, l’arabo-bizantino, il normanno-svevo, l’angioino-spagnolo-borbonico, l’unitario, il futuribile…
Il pubblico si è mostrato costantemente attento e coinvolto, come hanno anche dimostrato alcuni interventi nel pur breve dibattito finale che ha preceduto il brindisi di rito.
Tommaso Maria Patti
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ALQANTARAH BRIDGE
Mi sono chiesto: ma come faccio, io comunista non pentito antiponte a presentare questo libro?
Poi mi sono detto: e perché no? Con quel poco di onestà intellettuale che mi è rimasta e senza sconti, direi che… si può fare.
E allora cominciamo dai dolori del parto; dal come gli autori ci raccontano, affabulando ma non troppo, la nascita dello Stretto… “prima del tempo/spazio senza stagioni”
E rovesciamo subito il tavolo e la prospettiva. Ah! Se l’Europa non avesse frenato!
Pensate un po’ … l’urto avrebbe frantumato le terre in fieri di Calabria e Sicilia in tante meravigliose isolette, come quelle dell’Egeo, appunto … tante Eolie, Egadi Pantellerie e Lampeduse … una collana di gemme verdi come Panarea, rosse e nere come Vulcano e Stromboli, magre e allampanate come Filicudi!
Una tavola di Alesa (I a.c.) moltiplicato per cento dove alloggiare contento Ibn Hawqal nei giardini mediterranei senza latifondo e poi Federico II avrebbe cambiato suite ogni settimana ospitando il suo carissimo Enrico; i Savoia non l’avrebbero barattata con la Sardegna né costretta dai Borbone a giacersi nell’incestuoso comune letto napoletano che la duplicò per farla diventare una delle due maniche della rossa camicia… di forza di Garibaldi che la rinchiuse, senza lavarla né stirarla,
nel cassetto sabaudo, e oggi sarebbero bastati gli aliscafi a collegarle e non ci sarebbe l’annosa questio del ponte si ponte no. Eh, peccato! Non è andata proprio cosi.
E però oggi non avremmo questo libro da fare a pezzi (prima compratelo però, mi raccomando sennò che gusto c’è e leggetelo che ne vale la pena)
A proposito di luoghi comuni: ma perché per consigliare la lettura di un libro si dice che “ne vale la pena”…ma come la pena , direi meglio, il piacere, lo sfizio, il sollazzo, non la pena. Mah… comunque torniamo a noi.
Anzi a loro i due autori di questo libro davvero singolare , intrigante, ma, per quanto mi riguarda, interessante soprattutto per la “modernità” della sua organica struttura compositiva; quella specifica modernità, da me tante volte evocata, della “fusion”, cioè dell’esigenza, in questa sgangherata contemporaneità, di usare la creatività plurale per rimettere insieme i pezzi: racconto, ritmo, colore; segno e parola, immagine e immaginazione, reale e onirico, quali componenti che trovano la loro sintesi nella parola poetica e nei luoghi deputati della riassunzione unitaria, sulle tavole del palcoscenico e/o nelle pagine di un libro, anche se qualcuno parlerebbe di “rete”, di “ipertesto” e farebbe bene.
E questo fanno, secondo me egregiamente, Fausta Genziana Le Piane e Tommaso Maria Patti perché squinternano in “Alqantarah bridge”le tracce evidenti dell’amore profondo per le loro radici e l’amore, scriveva Pavese nel “Mestiere di vivere”, è desiderio di conoscenza, per cui animano un affresco dove l’iconografia, dialetticamente ossimorica, è tutta giocata dall’incontro-scontro di una moltitudine di protagonisti . … dalla preistoria alla storia e alla cronaca, dal dialetto alle lingue degli ospiti, quasi mai invitati per la verità, fino alla lingua che di tutte queste si nutre; dai proverbi e leggende alla grande letteratura, dal teatro di Pirandello ai Pupi, da Corrado Alvaro ai “cantori” di Bova; dalla geografia “aspromontecalabro” ai giardini siciliani, al latifondo.
Insomma, dall’accurata ricerca storiografica all’affabulazione antica e moderna, dalla politica all’economia, con racconti raccontati, riesumati, evocati ma anche originali, creati allo scopo di perpetuare tradizioni, giochi, canti, balli mai dimenticati e da non dimenticare.
E, sottopelle, l’orgoglio delle ascendenze e discendenze illustri… nomi, facce, corone e premi nobel…. senza dimenticate le contraddizioni, i vizi, i torti fatti e subìti (subiti tanti, troppi) e quindi il peso delle dominazioni, gli sfruttamenti, dall’acqua all’edilizia, da Gela alla costiera ionica fino ai fenomeni moderni del XIX e XX secolo, drammatici e feroci, come la mafia e la “ndrangheta”.
Il tutto, mi piace dirlo, con una leggerezza d’accenti che si spiega col filo rosso di stilistica valenza che tutto lega ed anima: la parola poetica.
Esplicita nelle citazioni innumerevoli e con arrischiate incursioni fuori campo, persino esotiche, e implicita nella costruzione filologica, grammaticale e sintattica di questo libro.
E, davvero, attraverso la poesia, come categoria espressiva, si compie un miracolo;
il miracolo di restituire la filigrana intensa, lo spessore di pensiero e di esperienza della storia, alla “luce” e al “sogno” che cosi s’inverano.
Perché la “verità” e non la “fede”, che crede in ciò che non sa, mentre la conoscenza crede solo in quello che sa; la verità, dicevo, cioè l’incontro-scontro tra assoluto e necessità, sta in questo libro tutta dentro il mito.
Il fascino del mito, infatti, sta nel dubbio e nel mistero che fanno assaporare il “brivido di voglia”, la “vertigine dell’impossibile” con cui guardi la rossa, provocante bocca dell’Etna che ipnotica ti risucchia come in un quadro di Mattew Barney, tra violenza e intensa sensualità.
Tra l’altro, questo libro è anche un saggio niente male di metodologia dell’insegnamento; un esempio concreto di “istruzioni per l’uso” della cultura di scolastica applicazione, dove l’interdisciplinarietà, la “fusion”, dicevo prima, circolano in questo alqantarah tra sensi e ragione, tra pensiero e immagine, storia e mito, tecnologia e, naturalmente, poesia come comun denominatore.
Precisa e obiettiva l’analisi del peso ma anche della qualità delle varie invasioni… la radice greca profonda e feconda… più rozza e imperialista quella romana e, tuttavia, concedetemelo, almeno ricca di diritto, prodiga di strade, terme e teatri (insomma, non l’attuale becera e ottusa del Bush-pensiero)
E poi quella forse più importante, l’impronta araba, espressione di una civiltà cui l’occidente deve davvero tanto come felicemente segnalano gli autori.
Io voglio qui evidenziare solo un aspetto forse secondario da un punto di vista storiografico ma non da quello poetico: il senso e il gusto del paesaggio esteticamente godibile; il giardino mediterraneo che mal sopportava il grande latifondo.
Ebbene gli arabi ne spezzano la struttura, sia nobiliare che ecclesiastica, e rifrazionano la terra in piccoli appezzamenti.
Inoltre, in particolare per la Calabria, i modi corruschi e selvaggi del vento, dell’onda,
del falco precipite attraverso i quali prende forma, come germinata per interna polluzione, una natura, anzi direi più propriamente, una materia brusca o splendente, a volte anche rannicchiata quasi in posizione fetale, in magiche énclaves di terra e rocce secche brividate di silenzio, ma sempre sotterranea, eruttiva, magmatica, prepotentemente asserita e assertiva.
Mi hanno fatto venire alla mente maschere di Medusa di antica e classica suggestione che, d’un tratto, fondono il groviglio serpente di oro e argento, come i gioielli visti al Museo di Reggio Calabria dopo i “Bronzi di Riace”; appercezioni sensibili in una notte della ragione, nell’abbandono dei sensi come quello, forse, provato da Empedocle alla bocca del vulcano, in cerca della bellezza di un fuoco d’imprevista e imprudente appartenenza.
Fausta e Tommaso tentano di evocarne l’essenza ballando con lo spirito della Teti ancestrale, buttandole addosso schegge delle Latomie e inseguendola negli sbocchi ormai angusti di Suez e Gibilterra…. Mare simbolo, del resto, quello del Mediterraneo, dallo sperone calabro all’isola doppia nella sua natura di storia e geografia che, per dirla con Sciascia, è, insieme, chiusa e schiusa; “sequestrata”, lui scrive e, però, anche aperta agli scambi, ai rapporti culturali, da un lato, con la vicina costa africana e, dall’altro, con il continente al di qua e al di là delle Alpi.
Volete qualche esempio? Bene.
Da dove uscivano, dice sempre Sciascia, tutti quei quadri di grande livello artistico che nei secoli XV° e XVI° le dogane siciliane registravano in esportazione?
Come mai nel seicento poeti in dialetto calabro e siciliano vengono stampati a Firenze e Venezia?
Perché e come gli architetti siciliani del Barocco ebbero più contatti con Parigi che con Roma? E potremmo continuare.
Ma è tempo di chiudere riprendendo il discorso del ponte perché sarebbe pura vigliaccheria eluderlo.
Ho letto e riletto la ricca emeroteca pro e contro.
Beh, a essere sinceri, è una par condicio falsa… si sente lontano un continente da che parte pencola il piatto della bilancia autorale calabro-siciliana.
Tra i pezzi più gustosi certamente ho apprezzato quello di Merlo e, tuttavia, neanche l’arguto e accattivante Francesco mi ha convinto… almeno non del tutto.
Magari però, il mio è solo un pre-giudizio nei confronti di qualsiasi “Ponti-fex”
con o senza mitria e pastorale.
Poi ho letto le parole sprezzanti di Castelli e mi hanno fatto proprio “inacazzare”; ho provato un moto d’indignazione e di rivolta che, purtroppo, sento sempre più di rado.
Oddio… che succede, mi sono detto, che fai, cambi opinione… no… non sia mai.
A quel punto ho letto l’articolo del mio amico Folco Quilici.
Beh, insomma, forse, chissà, qualche ragione ce l’hanno anche quelli del ponte.
E va bene …. Ormai qui e stasera sono costretto a confessarlo: quasi quasi Fausta e Tommaso mi hanno, … quasi (sia chiaro), convinto. Maledetti!
Anche perché….e in fondo questo è questo il punto vero della vexata questio: io ex medagliato campione di nuoto …. Beh, per la 32° traversata dello Stretto, purtroppo, non ho più l’età.
Italo Evangelisti
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Al Qantarah Bridge
di Fausta G. Le Piane e Tommaso M. Patti
(Ed. Nicola Calabria, Patti-ME 2007)
Va subito dato atto a Fausta Le Piane e Tommaso Patti che l’esotico titolo arabo-britannico “Al Qantarah Bridge” e il poetico sottotitolo “Un ponte lungo tremila anni fra Scilla e Cariddi”, che coniuga efficacemente spazio-tempo e mito, sono già due buone ragioni per attrarre ogni esemplare sopravvissuto della specie – ormai prossima all’estinzione – di nome “lettore”.
Quali che siano le propensioni di questa specie da salvare, il libro (edito da Nicola Calabria di recente) si caratterizza per la sua variegata struttura, con pagine di narrativa, di poesia, di storia, di saggistica – a prova del “multiforme ingegno” dei coautori – arricchite da altre testimonianze letterarie di autori d’ogni tempo e da opinioni contrapposte in campo politico sul dibattutissimo tema del ponte sullo Stretto calabro-siculo.
L’annosa diatriba –ponte sì, ponte no– è però appena la punta dell’iceberg del volume, che affonda nella storia anche remota (o persino nella preistoria, come nel racconto introduttivo di “Tempo zero”), alla ricerca di elementi antropologici in senso lato, e quindi anche letterari, che hanno sempre unito i due pur separati versanti dello Stretto; e che vanno dall’intreccio di correnti sottomarine sul fondale alla stratificazione/sedimentazione culturale, anche linguistica, la cui identità su entrambe le sponde è sopravvissuta, nel lungo periodo, al sovrapporsi di ogni influenza di qualsiasi provenienza: dai greci ai romani, dagli arabi ai bizantini, dai normanni agli angioini, e così via secolo dopo secolo.
Questa flessibilità è personalmente comprovata dagli stessi coautori, per la loro capacità di adattare alle loro esigenze la scelta di una particolare forma poetica lontanissima nel tempo e nello spazio, qual è l’haiku del Sol Levante, per introdurre sinteticamente i sette “Tempi” che suddividono le epoche e le pagine del libro.
È il caso di richiamare l’attenzione su due degli haiku introduttivi/riassuntivi – quelli del Secondo Tempo (a pag. 34: è primavera / con l’aquila di Roma / dominatrice) e del Settimo (a pag. 176: tempo di ponte / stagione di speranza / e di futuro) – perché, oltre alla struttura formale canonica, ne rispettano e rispecchiano lo spirito “zen” sempre proteso verso sentieri di scoperta prossima alla rivelazione.
Se le icastiche folgorazioni degli haiku fungono da luminoso, e illuminante, prologo alle varie sezioni o Tempi di “Al Qantarah Bridge”, in ciascun arco temporale trattato le due proteiformi penne di Fausta e Tommaso scorrono e s’intrecciano pagina dopo pagina, ora con modulazioni affabulatorie attinte alla fantasia, ora con tono puntuale e preciso basato sul rigore dell’evidenza documentaria.
Peraltro qua e là s’intravedono gradevoli venature di ironia, che assumono maggiore incisività nella parte conclusiva dove, in particolare nel racconto “Al Qantarah – Bridge Site” (a ag. 188), l’apparente autoironia è una serrata critica alle invadenze della virtualità e della tecnologia.
In ogni caso, che a tali invadenze si possano efficacemente opporre le doti creative, è proprio la stesura di quest’opera a dimostrarlo.
È evidente che in sede di presentazione del libro non si può – anzi non si deve – scendere in dettagli, per non privare i lettori del gusto della scoperta; e, poiché c’è molto da scoprirvi, non resta che raccomandarne vivamente la lettura.
Solo due note conclusive per chiedere a Fausta e Tommaso che ne pensano.
Rivolgo loro questa prima domanda (se è vero che il poeta è anche profeta). Leggo un frammento (vv. 62-65) tratto da “La terra desolata” di Eliot:
Una folla fluiva sul London Bridge, tanti,
ch’io non avrei creduto che morte tanti n’avesse disfatti,
sospiri, brevi e radi, venivano esalati,
e ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi.
Nei quattro versi si respira quell’atmosfera mitico-profetica e simbolica che pervade tutto il poema, oltre alle reminiscenze esplicite dell’Inferno dantesco (III, 55-57). Sorge il dubbio se quella folla attraversi il Tamigi o l’Acheronte.
Un dubbio simile mi ha assalito dopo la lettura di “Al Qantarah Bridge” ed è questo: sarà la stessa cosa nell’ipotesi che il ponte sullo Stretto si realizzi, in una situazione di desolazione esistenziale e sociale probabilmente peggiore?
La seconda domanda è di tipo filologico-etimologico.
La parola “ponte” in ogni dizionario viene fatta risalire al latino “pons-pontis” ma ne siamo proprio sicuri?
E se invece derivasse dal greco “pontos”? Non fu quella la via per eccellenza che portò i greci ovunque nel Mediterraneo? E non c’è già tra Scilla e Cariddi il mare?
Raimondo Venturiello
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FAUSTA GENZIANA LE PIANE – TOMMASO MARIA PATTI,
Al quantarah-bridge – Un ponte lungo tremila anni fra Scilla e Cariddi, Patti, Nicola Calabria Editore, 2007, pp. 217.
Vengo a conoscere con molto ritardo questo testo e me ne rammarico, perché mi pare utile, molto utile per capire non solo gli aspetti che uniscono Sicilia e Calabria, ma soprattutto per comprendere come la poesia, la letteratura in genere, possa dare indicazioni non solo ideali.
Non è un’antologia, ma una scelta di suggerimenti per costruire il ponte tra le due regioni e così la libertà impera sovrana e i due autori possono scorrazzare nelle scelte, offrendo un campionario di suggestioni che, unite a quelle dei racconti, danno l’idea di una possibilità inspiegabilmente sfumata.
Nella Nota degli Autori sono spiegati gli intenti con cui il volume è stato costruito e mi pare che non ci sia stato nessun tradimento a quanto si sono proposti. Il lettore potrà così entrare in spazi che se un tempo furono “senza stagioni” e che adesso invece invocano una necessità di congiungimento sempre più impellente.
Ma lasciamo stare la praticità o meno di un ponte, leggiamo gli scritti raccolti da Fausta Genziana Le Piane e da Tommaso Maria Patti come un vademecum che fa intendere quanto percorso sta dietro le ragioni del ponte.
Un lavoro certosino che non assomiglia per nulla ai barbosi testi che un tempo venivano compilati per indurre per forza a pensarla in un determinato modo.
Poesia, notizia storica, racconto, citazioni si intrecciano con eleganza e con leggerezza e l’affresco che viene fuori è davvero rilevante. Del resto la presenza di una poetessa sensibile e colta come Fausta non poteva che dare un contributo efficace al progetto, senza nulla togliere a Patti, che da par suo ha incrementato il senso di un’operazione che io trovo davvero invitante e utile.
Attenti però alla “distrazione” e alla “indifferenza” dei giornalisti e dei letterati italiani che spesso non prendono in considerazione opere come questa perché non fa scalpore politico. Si dimentica che la poesia è sempre scandalo, sempre scalpore, perché offre il futuro. E credo che l’intento dei due autori sia stato proprio quello di tentare di scalfire l’immobilità di chi dovrebbe far muovere le acque tra Scilla e Cariddi e che invece dorme sonni tranquilli.
Comunque, al di là della valenza culturale e politica, in senso lato, dell’opera, c’è da dire che si tratta di un lavoro encomiabile per molti aspetti. Il primo è senza dubbio la ricerca non facile dei testi, poi la loro dislocazione che non fosse casuale ma frutto di una intenzione particolare, e infine la ricchezza di mondi che si susseguono fin dall’antichità a supportare una vicenda e una aspirazione sempre in agguato nell’animo umano.
Il ponte sullo Stretto è anche una bellissima suggestiva metafora per dire agli uomini di buona volontà che non bisogna mai stare soltanto affacciati ai parapetti dei ponti, ma costruirli, viverli, impostarli per le nuove generazioni.
Sarebbe importante e piena di sorprese un’analisi dei vari testi impiegati, a cominciare dai racconti, ma è lavoro che sarà fatto dopo di noi per verificare quanto ogni goccia serva ad alimentare la ricerca. Io dico che questo libro è prezioso e che potrà essere, in ogni momento, un necessario prontuario a cui attingere per molte ragioni.
In quarta di copertina c’è una domanda: “E quella puntata nel futuro non è allucinazione pura?”.
Ben vengano le allucinazioni se sanno illuminare problematiche così complesse e così importanti. Io i ponti li ho sempre sognati: congiungono e portano pace, libertà, poesia della vita e umanità meravigliosa.
Dante Maffia
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DELIRIO
di Gabriella Quattrini
Giorni sepolti urlano
e bussano alle pareti.
Tutta la notte ho aspettato
che i raggi della luna
bagnassero la tua pelle.
Da dove viene
questo sordo rumore
se il cuore non c’è più,
se,diventato vetro,
è scoppiato in mille schegge?
Questa notte
il desiderio ha bendato
i tuoi occhi stanchi.
T’incontrai
bambino impaurito
in un bosco di querce,
mentre da lontano
invocavi il mio nome.
Il tuo futuro è il domani
il tuo pensiero è senza fine
il tuo nome è tempesta di ghiaccio.
Questa notte la luna è di sabbia
i pensieri sono di cartone.
Per cercare di non dimenticarti
ho ridisegnato la mappa del desiderio
e, con gessetti colorati,
ho marcato i confini del cuore.
Vene sul dorso screziato,
come azzurre frecce
all’arco delle mie carezze,
giungono leggere sul tuo viso.
Un lampo
e la notte fu mistero.
Fui luna.
D’opale
nei notturni d’estate.
Poi
nella notte
l’ululato diventò musica
Pure la luna
smise il vecchio abito
delle sue asperità
e diventò rotonda per ascoltare.
L’amore non è più che un rantolo
Si consuma così l’addio.
Senza parole
senza gesti.
Poi il treno parte.
Le rotaie impietose
disegnano sul mio cuore
binari che si tendono
verso stazioni
ignote al mio vivere.
Indosso
la maschera della notte:
la realtà senza di te
non si ricompone.
Il cuore s’impicca di notte
per non vedere
gli occhi dell’addio.
Relegate
in un angolo di notte,
quando le ore danzano assonnate,
sillabe e lettere
zampillano dalla tastiera.
Un’onda verrà
e lascerà sul palmo bagnato
stelle marine
da appuntare
sul bolero della notte.
Nell’ansia
del riquadro del finestrino
ti lascio
mentre mi saluti,
uomo senza volto,
curva ripiegata
evanescente e ignota.
Le mani scrivono
sulla tastiera del corpo:
nasce un grido
che genera il mondo.
Sono esplosa
in una notte di ferragosto
non trovavo
la rotta del firmamento.
Ora
mi consola l’aver dato
il nome ad un amore.
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