di Claudio Angelini
Novecento primo, secondo e terzo
In questa serie di saggi (“Novecento primo, secondo e terzo”, pagg. 570, Sansoni editore) di cui i primi pubblicati nel 1976, Alberto Asor Rosa esamina le più importanti espressioni letterarie del secolo trascorso (donde il titolo), partendo dal presupposto che nel Novecento s’è registrata una rottura dei valori tradizionali di forma e contenuto, di cui profeti e artefici furono dei grandi intelletti innovatori (Nietzsche, Freud, Bergson, ecc.), fioriti nella seconda metà dell’800. Il nostro critico vuol mettere in evidenza che la diffusa inquietudine tipica del 900, in molti scrittori si venne configurando come tendenza alla distruzione dell’io, con conseguente trasmutazione funzionale del linguaggio in istituto autonomo. Con tale premessa il volume d’Asor Rosa sembrerebbe incoraggiare, in chi voglia valutarlo, un approccio molto schematico; in realtà il suo tessuto logico è profondo e complesso. Noi, diciamo subito, non crediamo né alla distruzione dell’io, né al mutamento sostanziale del linguaggio, e pertanto intendiamo indagare sulle motivazioni sociologiche, oltre che etiche, che inducono Asor Rosa ad assumere, per l’interpretazione del fatto letterario, certi criteri estetici piuttosto che altri.
Alberto Asor Rosa, allievo di Natalino Sapegno della scuola storica hegeliana e crociana giunto però a condividere parte delle teorie sociali gramsciane, negli anni presessantotteschi (1965) aveva bollato come paternalistico proprio il populismo di tipo gramsciano, etichettando come conservatori molti scrittori di area marxista (Pratolini, Pasolini, ecc.). Salvo poi, negli anni successivi, accostarsi alle posizioni più moderate del marxismo revisionista, mantenendo vive in sé parecchie suggestioni della critica storica. Che indirizzo di pensiero segue ora Asor Rosa, in questa fase d’inizio di millennio, dopo il crollo delle ideologie nel secolo scorso, particolarmente di quelle di sinistra? Venuti meno tutti i più noti punti di forza del socialismo (la lotta politica e sindacale a favore del proletariato, lo statalismo, il comunismo) l’ideologia di sinistra attraversa una grave crisi d’identità, incerta nelle sue scelte politiche e culturali fra individualismo e radicalismo. Unico punto di contatto fra questi estremi è la cosiddetta teoria del “politicamente corretto”. In delle società multietniche, quali sono ormai quelle dei principali stati d’occidente, in cui ogni cultura d’immigrazione ha gli stessi diritti delle altre a esser rispettata e rappresentata, secondo i princìpi stessi della civiltà liberaldemocratica europea, si tende ora a considerare legittima ogni manifestazione di mentalità e moralità anche in contrasto coi valori fondanti di quella civiltà. Pertanto la democrazia, nelle società suddette, rischia di tramutarsi in relativismo etico e in intolleranza, usata verso coloro che si oppongono a ogni eccesso. Ebbene, è facile intuire che anche nel campo della critica letteraria e d’arte, i vecchi parametri risultano superati, con conseguenti incertezze di valutazione, dal momento che ogni giudizio etico-estetico tende a relativizzarsi. Ecco dunque che l’interpretazione testuale d’un tempo, soprattutto quella di matrice socialista, cerca nell’attuale fase storica d’attenersi a una sorta di progressismo di ripiego che dia diritto di circolazione a ogni più diversa opinione e che, essendo pressoché scomparso il proletariato, si risolve quasi esclusivamente in appoggio alle esigenze delle cosiddette “middle classes”. Ebbene, Asor Rosa sembra ora condividere questo orientamento critico sociologico “politically correct” che, venuta meno la virulenza d’impegno delle passate stagioni, pone nel relativismo la misura valutativa dell’espressione letteraria. Egli infatti, come ci è parso, non sa risolversi fra preferenza alla creatività del singolo o a quella della “struttura” sociale. Nei suoi saggi attuali è quasi scomparso il tono polemico, e tutto viene osservato e vagliato con più sottile temperanza, dalle idee conservatrici d’un Ungaretti a quelle postmoderne del già avanguardista Umberto Eco, che ora confeziona romanzi storici posti fuori dalla storia. E pensare che Hegel , quando per primo, come ricorda Asor Rosa, cercò di identificare il ruolo degli intellettuali, li definì “aristocrazia dello stato, non più stato separato o castale”! Quando il Nostro parla di multimedialità, di crisi della lettura e della critica, pare non rendersi conto d’una cosa: la cosiddetta massa si va unificando in alcune manifestazioni elementari, come, strano a dirsi, la ricerca di identità, di notorietà, la cosa più individualistica che si possa immaginare: apparire, far parlare di sé. E’ innegabile; il potere, che è sempre da contestare, pur massificando il genere umano, è arrivato nella nostra epoca a rivelarne alcuni sentimenti archetipici d’ordine metafisico. E questo, secondo il nostro critico, starebbe ad attestare la distruzione dell’io e del linguaggio? Rimbaud, secondo lui, avrebbe distrutto l’io solo perché lo ha scomposto e sezionato? Solo perché ne ha evidenziato gli aspetti torbidi e insospettati? Questo noi diciamo che è evocare a vita, non distruggere. Questo, in genere, ha fatto il Novecento artistico, che ha cercato di sottrarre la coscienza individuale ai fanatismi di massa, culminati nelle due guerre mondiali, ricordando allo stato, e al potere anonimo, la sacralità dell’individuo, e il suo diritto inviolabile alla vita, non solo il suo dovere di servire, che lo riduce a un oggetto. Basti pensare ad alcuni autori come Trakl, Eluard, Musil, Ungaretti, Th. Mann, Bulgakov. Il linguaggio è divenuto istituto autonomo? Stando a quello che diceva Croce, siamo allora divenuti tutti poeti. Ma fu proprio la critica di sinistra che obiettò a Croce l’impossibilità di un linguaggio individuale autonomo. Diciamo piuttosto che nel Novecento si è meglio identificato e valorizzato l’aspetto universale del linguaggio, inteso non solo come parola, ma come sostanza spirituale che lega tutti i popoli al di là delle barriere nazionali.
Nell’interessante e ben documentato capitolo intitolato “Avanguardia” Asor Rosa esamina i modi in cui si “produce intelligenza” e arte nella società capitalistica industriale, affermando che il capitalismo stesso comporta per lo scrittore “spossessamento e illibertà”. Solo una minoranza può essere dominante; però l’avanguardia politica e artistica crede in un linguaggio unico, in cui ogni differenza sia stata abolita; secondo il movimento Dadà l’arte è un fatto privato. Noi obiettiamo: una minoranza dominante c’è sempre stata, soprattutto negli stati a regime comunista; quel che conta è che non venga represso e annullato, in seno alla maggioranza, ogni moto o di pensiero o di costume che sia critico di quella minoranza. Ma del resto, dice Asor Rosa, se l’arte è un fatto privato, ogni forma di socialità è puramente assurda. Con buona pace di chi avesse sperato che anch’egli vagheggiasse forme di universalismo estetico. Quando viene a parlare, in un capitolo a parte, di funzione e fine specifici della critica letteraria, Asor Rosa rileva che al giorno d’oggi la critica non serve quasi più a far leggere la letteratura, che sta perdendo anzi i suoi connotati statutari. Ad un ampliamento del “letterario” (che si giova d’altri supporti, elettronici, mediatici, ecc.) si contrappone una recessione della letteratura vera e propria. Qui notiamo uno dei pochi rilievi di natura squisitamente sociologica che Asor Rosa fa in merito a un fenomeno assai grave: mentre il peso della letteratura si ridimensiona, cresce enormemente nelle istituzioni pubbliche, scuola e università, il numero di quelli che se ne occupano professionalmente.
Nel capitolo “La parola e la carne” Asor Rosa giudica Ungaretti, in un’epoca di crisi della parola poetica, quella simbolista, un avanguardista. Il poeta infatti contempla il primigenio stato dell’essere, “ciò che già c’è prima che tutto il resto ci sia.” Insomma, Ungaretti è un metafisico, un cattolico che rivela un aspetto sensuale della sua ispirazione… Che tende sempre a raccontare una storia, non come Rimbaud, che elenca solo folgorazioni. Poi, dice Asor Rosa, Ungaretti si istituzionalizza, quando incontra Roma, il barocco, e ciò che ne consegue. Se si vogliono altre prove di posizioni letterariamente “correct” di Asor Rosa, magari anche più precoci, prendiamo ad esempio il capitolo: “La musa dai capelli bianchi”, breve saggio pubblicato nel 1984. In esso egli osserva dunque: negli ultimi anni sono usciti vari libri di poesia, d’autori come Caproni, Bertolucci, Luzi, Fortini, tutti sulla settantina, cattolici e atei, moderati e rivoluzionari. L’ispirazione si protrae fino a quella età? Si tratta però di gente che ha avuto riconoscimenti solo tardi e che ora mostra di essere, dice il Nostro con felice ossimoro, “disincantata e ottimista”; nulla cioè può essere cambiato, eppure essi credono che ancora possa esserlo. Ha mai considerato, Asor Rosa, che ogni anno in Italia escono diecine di migliaia di libri di poesia? E saranno poi tutti da buttare? Perché solo pochissimi hanno successo? Ha mai pensato, Asor Rosa, che il poeta “laureato” è stato spesso in Italia un portato dell’ideologia, occorre aggiungerlo? di sinistra, che ha egemonizzato per decenni la cultura nel nostro paese, riducendo quasi a un mestiere quello del letterato, cui condizioni indispensabili sono sempre state l’appoggio al partito, il presenzialismo, la promozione mediatica, ecc. ? C’è, tuttavia, un capitolo, nella raccolta di Asor Rosa, cui è andata la nostra simpatia quasi incondizionata, quello dedicato a Pasolini (“Verso l’apocalisse”). Con “Petrolio”, opera postuma, annota Asor Rosa, c’è una regressione dello scrittore friulano alla impoliticità, un po’ sul modello di Thomas Mann. Pasolini non ha mai riconosciuto, del resto, lo stato di cose esistenti, il dominio della storia sull’uomo; atteggiamento tipicamente estetico, individualista, decadente. Il consumismo aveva determinato il crollo del mito della classe proletaria, depositaria, egli credeva, dei veri valori umani. Coerente sino alla fine Pasolini, nel suo ultimo articolo, del 28 settembre 1975, ci ricorda Asor Rosa, a chiare note elencava i più foschi segreti della politica italiana, quelli relativi agli attentati e alle stragi impuniti, additandoli a vergogna della nazione, “che non avrà più credibilità né potrà essere più governata finché quei misteri non saranno chiariti.” Chi potrebbe non sottoscrivere?
Fra i contemporanei cui ampio spazio è riservato vogliamo, per nostra curiosità, concludendo citare Daniele Del Giudice. Quando Asor Rosa ci dischiude il capitolo di “Quel che viene dopo”, che pare suoni come: “Quel che necessariamente deve essere” discutendo parecchio su questo autore che punta molto sullo stile, sospeso fra realismo e fantastico, egli dice più o meno che a Del Giudice s’accompagna un universo fantastico parallelo. Se si vuole attingere questo universo tenendo a modello insuperabile Kafka, bisogna valorizzare al massimo la fantasia, non il reale e lo stile. Questo può far tendenza per il futuro. E noi, congedandoci dal volume asorrosiano, ci domandavamo: sarà tutto così chiaro, quello che necessariamente deve essere?
Claudio Angelini
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