All’Opera di Roma il “Ratto” è british ma perde in ambiguità Il lavoro di Mozart
in programma fino al 19.
Raffinata la regia di Graham Vick
Roma, “Die Enthfürung aus dem Serail” (“Il ratto dal serraglio”, o piu’ brevemente “Il ratto”), composta da un 25uenne (Wolfgang Amadeus Mozart) con valori di testosterone leggermente superiori alla norma, viene di solito interpretato come una settecentesca “turquerie”, commedia in musica buffa vagamente anti-orientale; quindi, lazzi, frizzi e allusioni sessuali a volte anche pesanti. In alcune letture, questo stile viene mescolato a quello di una “pie’ce a’ sauvetage”, dramma in prosa od in musica basato su un “salvataggio”, genere teatrale che sarebbe diventato di moda una decina di anni piu’ tardi, all’epoca della rivoluzione francese, e di cui l’esempio piu’ grande e’ “Fidelio” di Beethoven. Pochi riflettono sul fatto che “Il ratto” segue di solo un anno “Idomeneo, Re di Creta”, capolavoro tra i piu’ alti, in cui Mozart prese solo in prestito i canoni dell’opera seria per oltrepassare anche la “trage’die lyrique” e comporre, sulla scia delle sue nevrosi personali (nei confronti del padre, delle sue donne e di Dio), un’opera di valenza universale, con uno smalto orchestrale e vocale piu’ lussureggiante di quello di molti lavori successivi. Inoltre “Il ratto” e’ il primo capolavoro di Mozart in cui il precoce compositore entro’ nella stesura del libretto, suggerendo in prima persona dialoghi, doppi sensi e arie. E’ un lavoro la cui bellezza sta nella sua ambiguita’. Mentre Pedrillo, Osman e Blonde appartengono al mondo della turquerie, Konstanze e Belmonte sono cugini dell’Idamante, dell’Ilia e dell’Elettra di “Idomeneo”; nella sua tremenda tolleranza, per certi aspetti terrificante, la voce recitante Selim Pascia’ e’ il mostro-Dio dell’opera di un anno prima. Il finale e’ aperto; non sappiamo se dopo la liberazione da parte del magnanimo illuminista Selim, Konstanze non rimpiangera’ di non avergli ceduto (per restare fedele al bello ma debole Belmonte). “Il ratto” si svolge quindi in un serraglio pieno di segreti; per svelarli, l’esecuzione richiede un equilibrio sempre dinamico e sempre instabile tra la buffa umanita’ di questo mondo e le vette rivolte all’Alto. L’opera fu un grande successo al Burgtheater nel 1782 e nei Paesi di lingua e cultura tedesca fu una delle poche opere mozartiane che restarono in repertorio durante l’Ottocento e la prima meta’ del Novecento. In Italia arrivo’ invece solo nel 1935. Difficile per il nostro pubblico latino catturarne e capirne l’ambiguita’. Si ricordano unicamente poche edizioni eccellenti: quella del 1969, con regia di Giorgio Strehler e scene e costumi di Luciano Damiani e quella affidata a Zubin Metha (direzione musicale) e Elike Grams (regia) a Firenze nel 2002. Dei tre allestimenti in giro per l’Italia questa stagione lirica, quello dell’Opera di Roma (dove torna dopo 40 anni di assenza; si replica sino al 19 aprile), e’ il piu’ importante: e’ affidato a Graham Vick per la regia (scene e costumi di Richard Hudson) e a Gabriele Ferro per la parte musicale. La messa in scena e’ altamente stilizzata: la vicenda si svolge in un ambiente astratto, dominato da un grande cubo (ormai quasi un marchio di fabbrica di Vick); elegante e raffinato, lo spettacolo e’ molto british ma perde parte dell’ambiguita’. La si ritrova, invece, nell’accurata concertazione di Ferro, dove brio e ironia incorniciano un vero dramma che e’ al centro dell’opera e nelle belle voci dei protagonisti (su cui eccellono Maria Grazia Schiavo e Charles Castronovo). La Schiavo, apprezzata principalmente nel teatro barocco e nei ruoli di coloratura, conferma di essere un “soprano assoluto” dall’ampio registro, destrezza nell’ascendere e discendere da acuti terrificanti e grani capacita’ sceniche. Castronovo e’ un giovane tenore lirico americano, molto affermato, oltre che negli Usa, in Germania, Austria e Francia: rare le sue apparizioni in Italia. Il Teatro dell’Opera ha fatto bene a farlo conoscere: timbro chiaro, fraseggio elegante, “do” acuti senza difficolta’. Buoni professionisti Beate Ritter (Blonde), Cosmin Ifrim (Pedrillo) e Jaco Huijpen (Osmin). Ottima l’idea di affidare ad un cantante (il basso-baritono Rodney Clarke) la parte recitante di Selim. Unico neo: nessuno dei cantanti-attori e’ tedesco. Tutti padroneggiano la lingua, tanto da far comprenda ogni parola, ma la dizione lascia un po’ a desiderare. (Hans Sachs) 14 (Il Velino 14 APR 11) –
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