Mais, cotone, soia e colza sono colture usate nei paesi ricchi. Le piante geneticamente modificate che resistano a malattie e siccità non esistono. Parola di Manuela Giovannetti, professore di microbiologia agraria dell’Università di Pisa
di Manuela Giovannetti
Sono una scienziata che ha fatto e continua a fare ricerca sulle piante transgeniche (Gm). Non ho posizioni “antibiotech”, anzi non mi stanco mai di ripetere che senza biotecnologie dovremmo rinunciare non solo a pane, birra, vino, yogurt, antibiotici e cortisone, ma anche a insulina, interferone e molte altre sostanze fondamentali per la nostra salute, prodotte con tecniche di ingegneria genetica. Sono convinta che le biotecnologie siano uno dei campi su cui puntare per lo sviluppo della società e dell’economia della conoscenza, in Italia e in Europa. Tuttavia nutro alcune riserve sulla coltivazione in pieno campo delle piante Gm, basate sui dati pubblicati sulle più importanti riviste scientifiche.
Il primo problema riguarda il tipo di trasformazione genetica delle colture più diffuse – mais, soia, cotone e colza – modificate nella misura dell’83 per cento con un gene che le rende capaci di tollerare erbicidi. Poiché il transgene è presente anche nel polline, si può diffondere, per esempio nel caso della colza, a distanze di alcuni Km e ibridare con specie infestanti compatibili, che possono così acquisire la capacità di tollerare erbicidi, diventando “superinfestanti”. Con grave danno per gli agricoltori, che non disporrebbero più di mezzi per combatterle.
Il secondo problema riguarda l’insorgenza della resistenza alle tossine Bt -presenti nel mais Gm- da parte degli insetti nocivi. La strategia messa a punto negli Usa per ritardare nel tempo questo fenomeno consiste nell’adozione di zone rifugio, coltivate con varietà di mais non transgenico, che devono essere almeno il 20 per cento dell’area totale coltivata a mais Bt.
Uno studio recente, pubblicato su “Nature Biotechnology”, ha riportato che, nonostante queste zone rifugio, la resistenza si è evoluta in campo e da una sola specie resistente nel 2005 abbiamo oggi ben 5 specie di insetti resistenti alle tossine Bt. Così le colture transgeniche Bt diventano uno strumento di selezione di insetti nocivi resistenti alle tossine Bt che avrebbero dovuto sterminarli.
Per quanto riguarda il problema della fame nel mondo, occorre chiarire che mais, cotone, soia e colza sono colture industriali. In particolare soia e mais sono utilizzate principalmente per produrre mangimi animali e quindi carne, latte e formaggio, che certamente non sono destinati ai mercati dei paesi poveri e affamati. Non escludo che nel futuro possano essere sviluppate piante Gm altamente produttive, resistenti alle malattie, a siccità, salinità e alte temperature, ma per adesso non esistono. E comunque, se fossero sviluppate, perché le popolazioni povere ne potessero trarre giovamento, i loro semi non dovrebbero essere sottoposti a brevetto, e ai costi aggiuntivi relativi, né comportare l’uso massiccio di fertilizzanti chimici ed erbicidi, i cui costi sono proibitivi per l’agricoltura africana.
Per concludere vorrei ricordare la difficoltà di adozione delle distanze di sicurezza e delle zone rifugio, data la ridotta dimensione delle aziende agricole italiane. Il problema che si presenterà nel caso della coltivazione di mais Bt (cotone, soia e colza sono poco rappresentative della realtà agricola italiana) non sarà solo quello di un’adeguata regolamentazione, ma del rispetto delle regole. Alle quali è stato dedicato un lungo articolo su “Nature”, in cui si analizzano i problemi posti dall’eventuale introduzione su larga scala di riso transgenico in Cina. (16 luglio 2014)
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