Poesie
di Claudio Angelini Jero

A proposito delle sorelle Brontë, e di Emily in particolare, sia come narratrice che poetessa, è facile, sulla scorta di generiche interpretazioni, abbandonarsi a enfatiche suggestioni. A tale atteggiamento non ci sembra si sottragga il curatore del volume che proponiamo: “Anne, Charlotte, Emily Brontë – Poesie – A cura di Silvio Raffo (Pagg. XLIV – 922. Oscar Mondatori. € 14), cui è affidata la traduzione dei testi di Anne e Charlotte; ad Anna Luisa Zazo quella dei testi di Emily. Ecco dunque Emily presentata come “fiera amazzone Sturm und Drang”, “smisuratamente orgogliosa”, simile alla “sovrumana Dickinson”, “vergine ribelle, indomata e indomabile”, dotata di “prodigioso simbolismo gotico”, e via di questo passo. Neanche Virginia Woolf, scrittrice femminista morta suicida nel 1941, cui non a caso la figura di Emily era assai cara, arriva a toni tanto celebrativi. E se di Anne, la meno artisticamente dotata delle sorelle, Raffo sottolinea “pienezza e nitore d’immagini che nulla hanno da invidiare ai più grandi poeti del romanticismo”, dove intenderebbe collocare le altre due? Cerchiamo di capire cos’è attuale e cos’è superato nell’opera delle tre sorelle scrittrici, soffermandoci anche, dove opportuno, su alcune loro esperienze umane. Native di Thornton, e venute bambine ancora a Haworth, Yorkshire, terra di solinghe brughiere, figlie d’un parroco anglicano di famiglia irlandese e d’una signora originaria della Cornovaglia, discendevano da antico ceppo celtico. Il padre doveva essere persona di modesta levatura e di non ampie vedute, ma tutto sommato uomo innocuo, non rozzo e severo come sembra disposto a credere lo stesso Raffo. Morta prematuramente la madre, le sorelle, che allora erano cinque (ma due vennero a mancare poco dopo in tenera età), col loro fratello Patrick Branwell (che morì presto consunto) furono affidate all’educazione della zia, sorella della madre, miss Elizabeth Branwell. Qui le biografie non abbondano di particolari, ma proprio nella figura di questa zia è da ricercare la spiegazione di tanti aspetti del carattere delle Brontë. Apparteneva costei al movimento metodista, ligia, soprattutto nella prassi educativa, ai precetti del fondatore John Wesley (e di come venissero applicati tali precetti nelle scuole dell’epoca ci lascia significativa testimonianza Charlotte, in “Jane Eyre”). Per farla breve, Wesley raccomandava ai pedagoghi, al fine d’attuare in ogni creatura umana la presenza dello Spirito Santo, di “spezzarne in tempo la volontà, per evitare che sia dannata. Che un bimbo, da un anno in su, impari a temere la verga…”. Miss Branwell, nei riguardi dei nipoti, non fece uso di violenza fisica, ma quasi certamente di violenza morale. Raffo a questo non accenna minimamente. Il sistema, tipico dei metodisti, di evocare per fini didattici le pene dell’inferno pare avesse effetto più che altro sull’animo mite di Anne, che fu sempre un’osservante cristiana. Ma, per ricollegarci alla presentazione di Raffo, non v’è dubbio che la più sensibile, e la più enigmatica, delle sorelle Brontë fu Emily, che per età si poneva dopo Charlotte e prima di Anne. Che si sa, della sua formazione? Poco, ma qualche ricostruzione, suffragata da dati provenienti soprattutto dalle biografie di Mrs Gaskell (biografa di Charlotte), di M. Spark e di W. Gérin, si può tentare. E’ vero che il suo romanzo (1847) non è che il compimento d’una personalità già quasi tutta presente nelle poesie, pubblicate solo un anno prima? Emily possedeva certo più temperamento di Charlotte e Anne; non sognava semplicemente di sposarsi e avere una famiglia, ambiva ad avere un vero uomo tutto per sé, che fosse esattamente l’opposto dei modelli sotto i suoi occhi: il padre e il fratello, esempio quest’ultimo di vaghe ambizioni frustrate. Sentendosi in parte discriminata, Emily non avrebbe mai accettato compromessi (come le sorelle) nella sua vita sentimentale; avrebbe voluto essere compresa, stimata, amata. Poiché ciò non avvenne, né la zia riuscì a “domarla” secondo i suoi principi, Emily progettava di dare, in forme traslate, una “forte” spiegazione della sua vita. Questo era compiutamente possibile solo in prosa; ed ecco ella tratteggiare come narratrice due personaggi molto significativi: Heathcliff e Hindley. Il primo, colui che molti torti ha subiti rimandando impaziente l’ora della sua rivalsa, è di certo una proiezione dell’animo dell’autrice, a tratti poetico e sentimentale ma più spesso inverosimile o umanamente inammissibile, fino a lasciarsi morire, come del resto farà Emily. Hindley, colui che per anni ha tormentato Heathcliff, è il viziato buono a nulla, paradigma di tutto ciò che un uomo non dovrebbe mai essere, palese rispecchiamento dell’animo di Branley, fratello di Emily. “Cime tempestose” ha una struttura complessa, non facile da seguire, e comunque basata, come osserva Mario Praz (di cui lo scrivente s’onora d’essere stato allievo) non sullo scontro di princìpi morali, come il bene e il male, ma di princìpi cosmici, come il dinamico e lo statico, il simile e il dissimile. L’irrazionalità insomma, implicitamente suggerisce l’illustre critico, domina la sostanza del romanzo, e non possiamo che convenirne. Non siamo più d’accordo con lui quando afferma che esso non comunica nulla di morboso, ma anzi, una sorta di salute selvaggia. Per noi, rinnegare, come fanno Emily e Heathcliff il normale decorso degli eventi psichici e sentimentali emarginandone sessualità e desiderio d’affetti familiari per far posto a una passionalità oscura e vendicativa, questo è sicuramente morboso. Al confronto, il romanzo di Charlotte, “Jane Eyre”, risulta senza dubbio meno ricco di veemente passione e abilità nel descrivere contrasti e intrecci, ma anche più equilibrato, più convincente, più realistico nel complesso e nei particolari. Il debito con l’atavica sensibilità celtica, rutilante e sbrigliata, commista all’elemento gotico ancora molto influente, nella prima metà dell’Ottocento, sulla cultura inglese, si avverte, ancor più che nei romanzi di Emily e Charlotte (in misura molto ridotta nei romanzi di Anne), nella produzione lirica delle tre sorelle. Le loro poesie, pubblicate nel 1846 sotto gli pseudonimi di Currer, Ellis e Acton Bell, riflettono tratti caratteriali diversi. Ma le accomuna una sorta di sottomissione psicologica a una natura cupa, amata e temuta, che fa da sfondo allo stesso crudele destino delle Brontë, morte tutte di tisi in giovane età. Vi è poi la rielaborazione di antichi miti e saghe popolari, nelle quali meglio si colgono certe partecipazioni emotive delle autrici. Anne si esprime in genere nel tono raccolto e un po’ dimesso della donna rassegnata al proprio destino; Charlotte, come nel romanzo, mette in atto pregevoli spunti di riflessione commisti a sincero lirismo non immune da influssi della letteratura alla moda. Emily, infine, più ricettiva dell’eredità romantica e dell’elemento gotico, è certo quella più capace di trasformare gli spunti esteriori in una sorta di paesaggio dell’anima, in cui tutte le vicende vissute convergono e si trasfigurano. Per avere un’idea di tale attitudine è sufficiente leggere le strofe incalzanti e percorse dal brivido del mistero della “saga” “Julian M. e A. G. Rochelle”. Questa composizione del resto prova che, come accennavamo sopra, nelle Brontë non vanno ricercati grossi contenuti di pensiero; la loro sensibilità, specialmente in poesia, si esprime negli schemi usuali della tradizione popolare, ravvivati tuttavia dalla esperienza personale del dolore e dell’isolamento, trasfusa in versi con gli accenti spesso di un dramma fatale. La riproposta di tale esperienza etico-estetica, per tanti aspetti unica, ai lettori italiani può suscitare, riteniamo, notevole interesse; ma questo obbliga al compito spesso non grato di pronunciarsi sulla qualità delle traduzioni. Anna Luisa Zazo è abbastanza accurata quanto ad aderenza al testo, non particolarmente felice quanto a ricchezza di lessico e di sfumature, o sapienza metrica; la sua è un’accettabile prosa ritmica che non fa troppo rimpiangere la versione assai simile di Ginevra Bompiani condotta negli anni 70. Altro discorso va fatto per Silvio Raffo; i suoi sono versi autentici quanto a schema metrico, e bisogna dargli atto dello sforzo che compie per trasfondervi il senso e il colore dell’originale inglese; ben sappiamo quanto arduo sia. Ma Raffo spesso non supera le insidie tese a chiunque s’attenti in impresa del genere: l’approssimazione, e il fraintendimento. Alcuni esempi; a pagina 99, nella lirica di Anne distinta col numero 33, nella seconda strofa il testo inglese recita: “I watched her with a tearful gaze” che vale: “La osservavo con sguardo lacrimoso”. Per Raffo, stranamente è: “Con sguardo sereno l’ho vista” . L’ultimo verso della quartina reca: “Her light gleamed faint and chill”, cioè: “La sua luce brillava fioca e fredda”, ma Raffo, anche per obbligo di rima, s’inventa: “Splendeva la sua fronte d’ametista”. Sviste ancor più marcate a pagina 119. Nella poesia, sempre di Anne, si legge: “In vain, you talk of morbid dreams”. Raffo traduce: “Invano mi racconti dolci sogni”. “Morbid” in realtà vuol dire morboso, quindi si tratta di sogni malefici, “malfaisants”, come li avrebbe chiamati Baudelaire. Ma due strofe più avanti l’abbaglio è davvero imperdonabile. Dovendo rendere: “ Its varied hues of glorious dye” , “Le varie sfumature di quella tinta radiosa” (cioè del sole che tramonta), Raffo se n’esce con uno stupefacente: “Tutti i toni di quella grande morte”, confondendo evidentemente “dye” (tinta) con “dying”, che vuol dire “morente” . Sorvolando sul resto, incoraggiamo comunque il lettore ad accostarsi al volume, non privo certo di parti gradevoli e stimolanti.

… per informazioni: Claudio Angelini Jero email 1 - ANNE, 
 CHARLOTTE, EMILY BRONTË

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