di Maddalena De Leo
Un romanzo quasi sconosciuto al lettore italiano e a tutt’oggi pressoché introvabile è Paese di eriche e ginestre (ESI, 1999) il cui autore è Francesco Bruno, giornalista, critico e saggista meridionale di chiara fama vissuto in un arco di tempo che ricopre i primi ottant’anni del Novecento (1899-1982). Ghermito dalla morte prima ancora di completare questo suo scritto, l’ennesimo di tanti ma forse uno dei pochi redatti in forma di romanzo, il Bruno non potè completarlo né vederne la pubblicazione, avvenuta postuma solo nel 1999 grazie all’interessamento e la cura del figlio Elio, anch’egli giornalista e critico, e del professor Francesco D’Episcopo, promotore infaticabile della sua figura letteraria in Italia.
Si tratta di un romanzo di ambientazione rurale vicino alla tipologia di quelli quasi contemporanei dei vari Verga e Deledda in cui l’amore per la propria terra e il senso della proprietà sono alla base delle vicende narrate. In esso, malgrado gli elementi paesaggistici si trovino talvolta relegati nello sfondo, balza all’attenzione del lettore con prepotente originalità il verso degli uccelli, di volta in volta di razza diversa e sempre descritti nel loro svolazzare ignaro, intesi quasi come spettatori e testimoni delle vicende umane.
Un’analisi liminare potrebbe indurre quasi a intitolare questo romanzo ‘Paese di tordi e ontani’ vista la sua ambientazione tipicamente mediterranea in Ascea-Velia, paese natale dell’autore e sito archeologico di indubbia rilevanza. I numerosi riferimenti al sole del Sud, con i suoi effetti talvolta devastanti quali la siccità, si sovrappongono infatti alle vicende storiche di un meridione lacerato dalle piraterie e i soprusi sociali di fine Ottocento. L’erica, come anche la ginestra, sono piante che crescono in ambiente freddo, di per sé isolate e improduttive: l’allusione contenuta nel titolo del romanzo può quindi ben riferirsi alla parabola solo apparentemente ascendente del protagonista Arcangelo, lavoratore buono e attivo, uomo sempre fiducioso in una Provvidenza di manzoniana memoria, che nell’arco di una vita riesce a dare agio e lustro al proprio paese prodigandosi sempre con prontezza a favore degli altri. Allo stesso tempo però questi suoi sforzi, la sua stessa vita risultano alla fin fine sterili in quanto il personaggio, condannato a non aver figli, sentirà su di sé sempre più con il passare degli anni un senso di insoddisfazione e un che di inadempiuto che lo accompagneranno sino all’età matura.
Questo nucleo narrativo di indubbio spessore psicologico trova un precedente letterario oltre che nostrano in uno dei romanzi più singolari e oggi più famosi della letteratura d’oltralpe, quel Wuthering Heights – Cime Tempestose secondo la traduzione più accreditata del suo titolo – ideato a metà Ottocento e redatto anch’esso in una ‘terra di eriche’, frutto meraviglioso della mente di un’autrice solitaria e indefinibile quale è Emily Brontë. In questo romanzo nordico non sono tanto gli uccelli a far sentire il loro stridìo ma il vento e le intemperie, in simbiosi con le umane sensazioni. In esso c’è un protagonista, Heathcliff, uomo solo, egoista e dispotico, soprattutto vendicativo e diabolico, perfetta antitesi dell’Arcangelo del Bruno, che suo malgrado si ritrova a condividere con lui negli ultimi istanti la stessa sensazione di amara disillusione, dopo gli sforzi senza utile compiuti nell’arco di una vita senza affetti ma soprattutto senza eredi.
Ambedue i protagonisti quasi ‘adottano’ un’ipotetico Isacco nell’illusione che questi possa continuare la loro opera di tutela della propria terra senza però ottenere con ciò l’appagamento sperato mentre tutta l’azione ruota intorno ad un’atavica casa, isolata, sterile e irraggiungibile dal resto del mondo. La ‘Casa Romita’ del Bruno corrisponde perfettamente in questo senso alle ‘Heights’ della Brontë.
Il fato ineluttabile non perdona né concede tregua ad alcuno, cattivo o buono che sia, perché, come dice il Bruno al termine del secondo capitolo: ‘le vicende degli uomini si alternano senza che una forza razionale possa contenerle’. Sarà la morte a stendere inevitabilmente un velo d’oblìo sulle tempestose passioni dibattutesi in queste terre così distanti, l’una assolata, l’altra solitaria ed esposta ai venti. Solo con una morte solitaria e irreligiosa il diabolico Heathcliff riuscirà infatti ad ottenere, anche se solo apparentemente, quella tranquillità mai sperimentata in vita, mentre sicuramente per l’Arcangelo si compirà il percorso inverso, basato ancora su una malinconica rassegnazione e l’accettazione senza remore della volontà divina.
Potrebbe essere proprio questo il finale non scritto ma ipotizzabile del bel romanzo di Francesco Bruno.
Maddalena De Leo
Commenti