Dopo la sentenza di ottobre, di fronte alle proteste dell’opinione pubblica, il Governo aveva fatto un passo indietro, impedendo ad Asia Bibi di lasciare il paese fino a quando la Corte suprema non avesse esaminato la richiesta d’appello
Anche l’ultimo ostacolo legale è stato superato: Asia Bibi, donna cristiana, condannata a morte nel 2010 per blasfemia e rilasciata a ottobre, può finalmente lasciare il Pakistan. La Corte Suprema ha confermato la sua assoluzione, respingendo il ricorso di Qari Saalam, l’imam del villaggio dove venne accusata di blasfemia.
Subito dopo l’assoluzione, i gruppi radicali islamici avevano scatenato le proteste e avevano minacciato lei e la sua famiglia di morte: molti dei manifestanti chiedevano che Asia Bibi venisse impiccata e un leader islamista sosteneva che anche i tre giudici della Corte Suprema, che avevano ordinato il rilascio immediato della donna, «meritavano di essere uccisi».
Di fronte alle proteste e alle minacce di parte dell’opinione pubblica, il Governo aveva fatto un passo indietro, impedendo ad Aasia Bibi di lasciare il paese fino a quando la Corte Suprema non avesse esaminato la richiesta di revisione del caso. Da allora, la donna era rimasta sotto protezione.
«Aasia Bibi deve finalmente tornare in libertà e il suo incubo deve finire», commenta Rimmel Mohydin, responsabile delle campagne di Amnesty International sull’Asia meridionale. «Dopo nove anni dietro le sbarre per un reato non commesso, è difficile considerare il verdetto di oggi come una sorta di giustizia. Ma almeno questo le dovrebbe consentire di riunirsi con la sua famiglia e di cercare riparo in uno Stato di sua scelta. Le autorità pachistane devono respingere e indagare sui tentativi di intimidire la Corte Suprema. Devono proteggere le minoranze religiose, i giudici e gli altri rappresentanti del governo da ogni minaccia di violenza. Il vergognoso ritardo nel ripristinare i diritti di Aasia Bibi rende ancora più necessario l’annullamento, nei tempi più rapidi possibili, delle leggi sulla blasfemia e di ogni altra norma che discrimini le minoranze religiose e ponga le loro vite a rischio».
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