ndr.: un testo che anticipa l’uscita del nuovo libro di racconti di Alina Rizzi, intitolato:
(Il Ciliegio Editore). Uscirà in primavera
DORMIRE
Cara Mamma,
vorrei chiederti perdono prima di andarmene. So che questo non ti consolerà, ma forse ti aiuterà a trovare un senso al mio gesto. Mi conosci, sai che non potrai mai continuare la mia strada con questo peso sulla coscienza. Non è un ricordo che si scaccia questo, non è un dolore che il tempo allevia. Ma forse il tempo sarà più generoso con te, e riuscirai ad accettare come hai accettato la sorte della buonanima di papà, morto come una bestia a cui è scoppiato il ventre, tra quei dolori e quelle urla che lo facevano rivoltare sull’impiantito senza più dignità e decoro. Avessimo raggiunto prima l’ospedale, forse. Avessimo avuto un cavallo, un carro. Ma noi non abbiamo mai avuto nulla, questa è la verità, a parte il dovere di lavorare fino a spezzarci la schiena per poi ringraziare.
Sta meglio di là che di qua mamma, io la penso così. Questo genere di vite non sono augurabili oltre una certa età. Lo dico con molta pietà puoi credermi, lo dico con grande nostalgia per ciò che non ci è toccato in sorte.
Sii forte mamma Pelagèja, tu hai più carattere di me e papà, vai avanti per la tua strada. Troverai un altro lavoro in una nuova casa, saranno più comprensivi dopo il mio ultimo gesto. Intendo pagare il mio debito, infatti, non lascio conti in sospeso nella mia pur breve vita.
Comunque, ciò di cui vorrei chiederti davvero perdono, non riguarda questa mia estrema decisione, benché sia certa ti cagionerà dolore, quanto piuttosto per ciò che hai sicuramente patito, ora me ne rendo conto, quando non ero che un infante, tutta bocca e pretese.
Quante notti ti ho tenuta sveglia, cara mamma? Quanto sonno hai perso per vegliarmi, accudirmi, nutrirmi al tuo seno, cullarmi? Come ti alzavi la mattina, mamma, da quel letto sfatto impregnato d’insonnia, per andare a sbrigare le faccende più urgenti dentro casa e poi a servizio dai padroni?
Cosa ti ho tolto mamma, in salute, forza, energie?
Se avessi saputo, se fossi stata consapevole… Ma un bambino è solo un piccolo essere rancoroso ed egoista, non chiede che per sé, non ha coscienza del mondo che lo circonda, della fatica. Sente la fame e il sonno, il freddo e la frustrazione. Pretende. Pretende quel corpo dolce e zuccheroso dentro la bocca a cuore, come un cannibale, e quando è sazio lo vuole contro di se, incollato al proprio viso. E la culla non deve mai fermarsi, perché essere ninnati conferma la presenza della mano sempre lì, pronta, disponibile. Conferma la vicinanza della madre con gli occhi sempre aperti, gli occhi stanchi e gonfi per tutte le ore di sonno perse nella notte e per la fatica rotta del giorno che piega le ossa. La mamma è lì. Un bambino lo sa, lo sente, ed è questo che vuole, unicamente questo, più d’ogni altra cosa al mondo.
Io non sono stata diversa mamma, come nessun bambino è diverso a quell’età. Anche a te cadeva la testa sul tavolo, ne sono certa, prima che le mie urla ti svegliassero di soprassalto e riprendessi a ninnare la culla. Anche tu, fissando il buio oltre la finestra, vedevi strane luci in lontananza, bagliori che nel dormiveglia divampavano come incendi: ed era soltanto l’alba, invece. L’alba che ti coglieva nel delirio di un sogno fatto a brandelli da urla e allattamenti, infreddolita, stremata, sola nella stanza, dopo che papà era già sceso per raggiungere le stalle dei padroni.
Oh mamma, perdonami se puoi.
Perdonami per quel sonno rubato insieme ai sogni, ai desideri, alle speranze che la notte, soltanto la notte nel suo immobile silenzio, permette di liberare. A cosa hai rinunciato, a quanti progetti di gioia, di sollievo, di miglioramento, in quelle interminabili e gelide veglie, mentre la neve cadeva a fiocchi spessi e il ghiaccio ricamava le finestre mal sigillate?
E’ per questo che le madri non hanno sogni da trasmettere alle figlie? Sì, ora lo so, lo comprendo.
I sogni muoiono in notturni interminabili, accanto a piccoli tiranni con solide corde vocali.
Sei stata dunque una buona madre, la migliore. Se in fine, ho fatto ciò che ho fatto, non è solo perché ho tredici anni e mi manca la forza, la tempra, la pazienza, di una donna che è divenuta madre. Ma anche perché la bambina non era mia, capisci?
Cercavo di volerle bene, ma…nessun bene prevede la dedizione di una madre.
Cantavo, cantavo senza pace.
Fa’ la nanna, piccolina.
Canterò una canzoncina…
Lei gridava e si agitava, forse neppure mi sentiva.
Fa’ la nanna, piccolina,
ti farò la zuppettina…
Forse era sorda, forse aveva male alla pancia, ma non ero certo io a dovermene occupare. Forse aveva fame, ma sua madre intratteneva gli ospiti e aveva poca voglia di offrirle il seno di notte. E dove avrei dovuto prenderlo io il latte, che sono piatta come una tavola?
Le davo il dito da succhiare ma durava un istante, poi riconosceva forse il mio odore, che non poteva certo essere quello di sua madre, e allora gridava, gridava senza pace, rabbiosamente, tutta rossa in volto, dal tramonto all’alba.
Voleva ciò che le spettava e la piccola bambinaia Ver’ka non era nei suoi programmi.
Ho tenuto duro finché ho potuto, a questo madre devi credere. Di notte le veglie e quelle urla che mi facevano dolere le orecchie come un’otite, e il giorno su e giù per le scale a rassettare, pulire, cucinare, lavare, stirare, obbedire, obbedire sempre, sempre.
“Che fai rognosa, il bambino piange e tu dormi?”
“Dammi qua il bambino, vigliacca.”
La padrona non aveva più pietà della sua bambina.
E appena sorgeva il sole:
“Ver’ka accendi la stufa!”
“Ver’ka prepara il samovar!”
“Ver’ka pulisci le soprascarpe del padrone!”
Non aveva mai fine la giornata, mai.
E la notte che consolazione poteva portarmi se il buio attendeva i miei occhi spalancati, cerchiati, e la testa mi ricadeva sopra il petto forse mille volte, una dietro l’altra, all’infinito?
Le macchie di umidità sul muro ingigantivano davanti al mio sguardo perso, le ombre palpitavano come mostri ridacchianti nell’ombra, il grillo nella stufa mi scherniva.
Non sapevo più dov’ero, chi ero, quale notte d’inverno andavo attraversando con gli occhi pesti e quella morsa alle tempie. C’è un limite a tutto. Doveva esserci!
Ho allungato le braccia, mamma, annaspando nel buio, senza guardare, senza ascoltare, senza più emozioni. Ho infilato le mani sotto la copertina e ho preso la bambina. L’ ho portata al mio petto, l’ ho stretta forte forte: non era ciò che lei voleva, non ero la sua mamma zuccherosa di latte, ma non importava più. L’ ho stretta cantandole la sua ninna nanna, così lei si è calmata finalmente, si è quietata, si è fatta morbida e cedevole, si è rilassata tra le mie braccia tremanti. Ecco, l’avevo conquistata. Finalmente avremmo dormito qualche ora dopo giorni di gelido sfinimento. Il riposo giungeva come una liberazione. Non ho raggiunto neppure la mia brandina nell’angolo. Mi sono stesa a terra accanto alla culla, felice, sorridente, appagata. Avevo sistemato tutto, ce l’avevo fatta. Un istante dopo dormivo come morta, accanto alla morticina.
Ma ora questi fatti non hanno più importanza madre, non ti crucciare per me.
So che tra le acque della Neva troverò finalmente pace, dormirò serenamente fino alla fine dei tempi. Non ho paura, devi credermi e perdonarmi. Non ho dubbi: voglio solo dormire adesso, quieta come chi ha pagato il suo debito, sapendo che, per fortuna, non ci sarà un’ altra alba ad aspettarmi.
Tua figlia Ver’ka
con amore
Lettera apocrifa della bambinaia Ver’ka, protagonista del racconto LA VOGLIA DI DORMIRE di Anton Cechov – 1890 circa
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