Accompagnata in ospedale da sedicenti nonni. Il portavoce: per noi è normale
Il campo rom dove vive la ragazzina
Di Gianluigi De Vito
Virginia ha il pancione ma ha già partorito bugie. Perché la paura che picchia all’improvviso è difficile da imbrigliare. Specie se sei una rom di tredici anni e incinta da venticinque settimane. Specie se vivi in una baracchina di un’area che, per quanto attrezzata e legale come quella di Strada Santa Teresa a Japigia, è pur sempre paesaggio urbano minimo, ancora più misero senza la carezza di una madre, lontana da Bari, né lo sguardo di un padre che ti ha disconosciuta e se ne sta in Romania. E allora non basta l’amore sbocciato da poco, «di» e «per» un ragazzo più grande. Ma non così grande da farti fare sempre la cosa giusta.
L’ultima bugia le stava costando una carambola assassina. Virginia, nome falso, storia vera, era a scuola, alla «Verga», a Japigia. Frequenta la seconda media. Si è sentita male mentre era tra i banchi, giovedì mattina. Mal di pancia, raccontava. Ha nascosto per mesi di essere rimasta incinta. Possibile che nessuno si sia accorto di quel pancione che aveva assunto una forma che tradiva la versione dei chili presi per aver ceduto alle tentazioni del cibo? Quando ha accusato un malore, l’insegnante ha chiamato l’ambulanza ed è salita con lei. La corsa al pronto soccorso del Policlinico, il ricovero nel reparto di Ginecologia e Ostetricia. Immediato l’allerta ai Servizi sociali del Comune e al Tribunale per i minorenni. Perché ogni bambina al sesto mese di gravidanza porta assieme alla gioia di una vita che si forma anche mille domande, sospetti e attenzioni.
Le madri bambine non sono fenomeno superato nelle collettività rom. Ma ogni volta è un rischio. E Viriginia è arrivata in ospedale non in buone condizioni. Sta meglio, ora. Epperò resta tanto da capire. A qualche ora dal ricovero, gli unici parenti a prensentarsi davanti ai medici sono stati Genica Tudor, 54 anni, e Florea Candoi, 56 anni, al campo rom da sette, e genitori del padre di Virginia che non ha mai riconosciuto la figlia. Perché loro e non il padre di quell’esserino al sesto mese? Se si fosse materializzato subito, avrebbe evitato la marcia inquieta dei sospetti. Abusata? I nonni stanno coprendo qualcuno?
Da quando ha deciso di accettare come «sposo» Stefan Florinel, 19 anni, da dieci in Italia, Virginia divide la baracchina con lui. «Nessuna violenza. È una relazione come altre, fanno parte della nostra cultura rom», dice Daniel Tomescu, storico leader della collettività rom rumena di Strada Santa Teresa. Aggiunge: «È quasi un anno che i due convivono, hanno fatto anche una festa di fidanzamento».
Alle quattro del pomeriggio, Stefan, barbetta colta e rosario al collo («Sono ortodosso») sta finendo di lavarsi per andare al Policlinico dalla sua Virginia. «Certo che sono innamorato di lei. Lei non ha mai avuto un problema in questi mesi. Quando si è sentita male ero al lavoro, in campagna, a Conversano. Mi sveglio alle 4.30 per andare in campagna e non possono saltare un giorno, altrimenti alla fine della settimana non mi pagano», dice mentre indossa la camicia pulita. Stefan ci andrà da solo al Policlinico: il padre non vive tra quelle baracchine; la madre lotta in ospedale con un tumore impossibile da domare.
Senza genitori né suoceri: una quasi-madre bambina piena di assenze, Viriginia.
Questa delle spose bambine «sono cose che non possiamo fermare», ragiona Patrizia Rossini, dirigente della «Verga». Aggiunge: «Possiamo solo tenerli (i rom) a scuola il più possibile, perché stiano in strada il meno possibile. In dieci anni abbiamo fatto tanto. Ne ho 64 inseriti in tutte le classi».
Al «campo», dove la povertà non piange perché destino comune, e la miseria è mascherata dietro piante fiorite e panni sgargianti, tutti sanno. Nessuno racconta. Meno che mai al gagé, il non rom. E nella cassaforte dei silenzi è custodita forse anche una bugia burocratica: Virginia, di anni ne dimostra di più dei 13 indicati sul documento. Ma questo non toglie nulla alla doppia fragilità di adolescente incinta e di rom con pochi uncini sociali, se non la scuola. Dove malore e paura picchiano all’improvviso.
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