di Fabio Isman

bocca - BOCCA, 
 L'ANTITALIANO CHE RACCONTO' L'ITALIA

ROMA – Ha attraversato 91 anni di vita italiana (era nato il 28 agosto 1920), e percorso in lungo e in largo la Penisola per raccontarla; dopo la scomparsa di Indro Montanelli e di Enzo Biagi, era il decano del nostro giornalismo; ma Giorgio Bocca è stato, soprattutto, un partigiano e, nel senso più alto del termine, un provinciale. Non a caso, è il titolo di un libro (Mondadori, 1991) tra i migliori dei sessanta che ha scritto, e lui ha sempre guardato il Paese con l?occhio e i valori ancestrali di chi sia nato a Cuneo, padre e madre insegnanti.
Autore d’inchieste e polemista; e spesso, oggetto di polemiche egli stesso: indifferentemente «da destra» e «da sinistra», ma con sicura prevalenza delle prime. Ha raccontato l?Italia partigiana e quella «malata», ma anche Togliatti (una biografia che fece assai discutere) e il bandito Pietro Cavallero; ha indagato i «Trent?anni di trame» e parlato con numerosi terroristi per descriverne le follie; ma spesso si è ritrovato ad essere «Il viaggiatore spaesato», nella «DisUnità d’Italia», o tra gli «Italiani strana gente»; «nel secolo sbagliato», in un «pandemonio» del «dio denaro», nel «basso impero», fino, addirittura, a invocare «Voglio scendere!» (sono alcuni dei suoi titoli).
Non è stato uomo semplice. Sempre poco incline ad apparire; a volte, perfino spigoloso nel tratto; assai casalingo, nel pressoché quotidiano lavoro di scrivere. La storica rubrica sull?Espresso, L?antitaliano, rende bene l?idea. Dei tanti che ha percorso, Bocca ha sempre riconosciuto ne Il Giorno la propria palestra e il proprio giornale, anche se stava a Repubblica dalla fondazione, 1976: «Mi dava via libera per andare alla scoperta dell?Italia»; ma lo storico direttore di quel quotidiano Italo Pietra (scrive Vittorio Emiliani) spiegava che «se Bocca dovesse fare la linea politica, la cambieremmo ogni giorno». Perché ha cambiato spesse volte idea. Cresce nel Ventennio e primeggia nel Guf; un esordio antisemita sulla Provincia Granda, Sentinella d?Italia; e dopo, spiegherà a Walter Tobagi che «per chi ci era nato dentro, il fascismo non era la politica, ma lo Stato, le organizzazioni giovanili, le divise, la normalità; quando diventò politica con la guerra, era già moribondo».
Ufficiale degli Alpini (un tratto che mai dimenticherà), è un fondatore di Giustizia e Libertà; commissario politico d?una divisione partigiana, firmerà pure cinque condanne a morte. Diventa giornalista anche perché «potevo chiedere un posto» (sempre a Tobagi): la Gazzetta del Popolo, e quindi L’Europeo, Il Giorno, Repubblica, i periodici. E la tv: dal 1983, per sei anni, trasmissioni e inchieste per quelle di Berlusconi; Prima pagina, Il cittadino e il potere, Dentro la notizia, Dovere di cronaca. Nel frattempo, come spiegava Pietra, politicamente oscilla: dal socialismo (Miracolo all?italiana fu edito dall’Avanti) a quello che era ancora il partito comunista; allìinizio degli Anni 90, anche con qualche interesse per la nascente Lega. Uno stile sempre graffiante; la capacità d’indignarsi; l?uso di parole forti e della scomunica, sia giornalistica, sia di costume.
Ancora recentemente, diceva che Pasolini lo «annoiava, sono un po? omofobo»; dava di «carogna» a Gianni Brera, a lungo compagno di lavoro; a Palermo sentiva «puzza di marcio, con gente mostruosa che usciva dalle catapecchie»; Napoli, cui ha dedicato un libro (Napoli siamo noi, 2005), è una delle «zone inguaribili». Insomma, non ha mai fatto complimenti: «Non si può essere giornalisti se non si ha il coraggio di dire la verità; e la verità non è mai di sinistra, né di destra». Così, nel tempo, ha raccolto non pochi avversari, quasi-nemici, sui propri passi. Il più recente è forse un altro remoto collega di lavoro per lungo tempo, Giampaolo Pansa; e Montanelli diceva: «Per Bocca sono un bravissimo giornalista, che non capisce nulla di politica: non mi delude mai: dice sempre di me quello che penso di lui», ma forse era solo la rivalità tra antichi e grandi maestri.
E’ stato un grande protagonista del giornalismo, delle inchieste, dell?analisi sociale e di costume, dello stesso dibattito politico, spesso con ritratti al vetriolo: così Bocca combatte anche le ricorrenti depressioni. Ricordi di epoche, personaggi, perfino un modo di fare il mestiere che erano assolutamente eroici. Egisto Corradi è stato grande inviato di guerre internazionali; ma, quando era ancora un giovane aveva condiviso con Bocca l’avventura del cronista: «Io e lui passammo quattro ore in uno sgabuzzino dalla cui finestruola si poteva vedere il negozio di un calzolaio d’Alessandria, accusato d’aver ucciso la moglie: ci davamo il turno uno sulle spalle dell’altro, finché dio volendo confessò».
Qualche autocritica («ho esagerato il pericolo di un golpe fascista e sottovalutato lìestremismo rosso»), qualche invettiva («gratta l’intellettuale laico italiano e trovi il cattolico»). Nella prima Repubblica, Aldo Moro era «l?Amleto di Bari», e Giulio Andreotti «il cavasangue»; nella seconda, Silvio Berlusconi, «conosciuto tanti anni fa, è solo peggiorato», diventa «solo un furbo», un «populista-demagogo, e «nulla è più turpe di una calvizie cappelluta, diceva Marziale». Anche se non c?è più, la Dc resta fino all?ultimo nel suo mirino. A noi rimangono invece le sue gesta da partigiano nelle valli piemontesi; articoli e libri di certo valore ed impegno civili; un carattere che era, come spesso in chi lo possiede, un caratteraccio; una sicura passione per andare controcorrente. Anche se questo era il titolo dei corsivi del suo poco amico Montanelli. Da laico quale era, la terra gli sia lieve: anche se questo era l?ultimo saluto usato da un altro grande, suo non-amico, il padano Gianni Brera. (Martedì 27 Dicembre 2011)
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Divagazioni Quotidiane
Bocca, Montanelli e il proto-troll

No, non parliamo ancora di Giorgio Bocca. Ho già dato, ampiamente. E hanno dato tutti. Chi benissimo, chi malissimo.
Voglio raccontarvi un?altra cosa. Ieri sera, 26 dicembre, a mezzanotte (quindi era il 27: va be’). RaiTre ha avuto l’ottima idea di riproporre il Match tra Giorgio Bocca e Indro Montanelli.
Match era un programma in cui si scontravano due ?miti?, colleghi tra loro, ma di opposto orientamento. Sul cinema ci fu la singolar tenzone tra Mario Monicelli e Nanni Moretti (enormemente più convincente e simpatico il primo).
La sfida Bocca-Montanelli è del 1978. Il moderatore, fisso, era Alberto Arbasino.
Riguardata oggi, l’effetto di quella tivù è straniante. Non si sa se immalinconirsi per il tempo passato esaltarsi per il livello intellettuale che ti ritorna addosso. L?unica certezza è che, come tutti gli antitaliani, Bocca e Montanelli hanno ricevuto addosso una quantità industriale di sterco.
Consiglio a tutti di procurarsi quella registrazione. Qui ne trovate una parte. E? meravigliosa.
Nessuno che si accavalla. Arbasino che cerca un po? di polemica, ma senza motivo perché non ce n?è bisogno (e infatti Bocca lo rimbrotta). Montanelli -vestito in maniera (oggi) vezzosamente improbabile- che quasi teme Bocca: lo rispetta, parla di depressione, si stupisce della critica sul ‘turarsi il naso e votare Dc’. E Bocca, gelido, quasi feroce, che non cambia mai espressione ma incalza. Scardina. Scarnifica. E provoca.
Uno spettacolo incredibile. Perduto e non ripetibile.
C?era un’altra perla, in quella registrazione. Ogni tanto intervenivano dei giornalisti, degli opinionisti . Uno di questi era Sergio Saviane. Tra gli altri, quella sera c?era anche un movimentista di professione. Un pollo di allevamento del ’77, in servizio permanente e sulla cresta dell’onda. Enzo Modugno. Uno dei leader. Credo che poi sia approdato al Manifesto, non lo so. Non ne conosco il percorso successivo e, va da sé, mi auguro abbia avuto ogni fortuna. Di sicuro non ha cambiato il mondo, né dato particolare seguito a tutta quella sicumera.
Ecco: il gggiovane Enzo Modugno, rivisto oggi, appare emblematico. Saccente, supponente, pieno di parole ?sempre più acculturate e sempre più disgustose?. Con la patetica e caricaturale convinzione di essere oltremodo superiore a Bocca (Montanelli non ne parliamo). La pretesa di parlare a nome dei giovani. L’escamotage mellifluo di mettere in bocca al rivale parole mai dette (-Mi pare che lei abbia detto che i giovani vogliono la violenza-: ovviamente Bocca non lo aveva mai detto). Il look e la gestualità da fighetto, che lecca il gelato e si sporca la barba mentre parla di Engels. Una sorta di Pierluigi Diaco guevarista.
Quel gggiovane virgulto movimentista, oltre a esemplificare sin troppo chiaramente i motivi che portarono Giorgio Gaber a scrivere Quando è moda è moda, oggi farebbe probabilmente di professione il troll. Magari scriverebbe provocazioni e insulti sui blog (in forma anonima, perché nel frattempo è peggiorato anche il pollo di allevamento) e li dedicherebbe al ‘fascista’ o ‘razzista’ (assai presunti) di turno.
Il filmato ci mostra un fenomeno antropologico irrinunciabile: l?avvento del Proto-Troll, che si permetteva di zimbellare due giganti come Bocca e Montanelli. Che non erano intoccabili, certo. E che hanno sbagliato tanto (per fortuna). Ma bisognava saperli scovare, gli sbagli. Non affidarsi alla liturgia rancida, e agli slogan queruli, del compagno che recita la parte dell’okkupante.
Riguardatevi quel Match. (Lezioni di giornalilsmo. Addio “Bocca e Montanelli” 1978) E’ bellissimo. Oltre che un saggio, lucido e spietato, di ciò che eravamo e saremmo diventati. (27 dicembre 2011)
http://www.andreascanzi.it

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