A leggerne il costo sostenuto con i soldi del contribuente dal Ministero di Giustizia, chiunque potrebbe immaginarsi dei braccialetti da un milione di euro. O forse braccialetti tempestati di diamanti modello-emirati arabi ? Ed invece si tratta di un semplice e più modestibraccialetto elettronico modello-detenuto. L’idea dei braccialetti elettronici che avrebbero dovuto «svuotare le carceri» rendendo «più agile» il nostro sistema penitenziario si è rivelato in realtà un grosso affare per Telecom Italia, un’«esclusiva» che ancora oggi, a 10 anni di distanza, costa ai contribuenti italiani la bellezza di 11 milioni di euro all’anno. I numeri sono da truffa. Infatti i braccialetti elettronici anti-evasione attualmente operativi sono infatti solo 10 e ci costano più di un milione di euro ciascuno.
L’ avventura dei braccialetti elettroni ebbe ha inizio il 21 aprile 2001, quando il peruviano Augusto Cesar Tena Albirena, 43 anni, condannato a 5 anni e 8 mesi di reclusione per traffico di droga, accettò di fare da cavia e di far testare su di se uno dei braccialetti elettronici che il Ministero dell’Interno aveva appena noleggiato da Telecom Italia.
La sperimentazione del braccialetto elettronico venne varata con il 2 febbraio 2001 dai ministeri dell’Interno e della Giustizia, con un decreto legge annunciato all’inizio di aprile dall’allora Ministro dell’ Interno, Enzo Bianco, e venne proposta come una possibile via d’uscita al vetusto problema del sovraffollamento delle carceri . Il “Personal identification device” applicato al detenuto peruviano costava all’epoca 60 mila lire al giorno, ed il fornitore della tecnologia Telecom Italia aveva assicurato che, qualora il detenuto si fosse allontanato di soli 10 metri, l’allarme sarebbe scattato. Dopo appena due mesi, arrivò la sorpresa e la verifica che Telecom aveva garantito qualcosa di non corretto, infatti il 26 giugno 2001 l’operatore in servizio alla centrale operativa di Milano si rese conto che il collegamento telefonico col braccialetto di Albirena era scomparso per un motivo semplice. Il peruviano dopo aver tagliato i fili, pensò bene di far perdere le sue tracce.
E non fu l’unico caso. Infatti più che una sperimentazione tecnologica il braccialetto di Telecom Italia si rivelò, un vero e proprio fallimento. Nel 2002 un detenuto siciliano arrivò addirittura a rompere volutamente il braccialetto preferendosene tornare in carcere: suonava ogni cinque minuti, era diventato un incubo spiegò agli agenti increduli della Polizia. Il 27 luglio 2002 Antonino De Luca, 40 anni, boss mafioso di Messina condannato all’ergastolo, fuggì dalla stanza dell’ospedale Sacco di Milano in cui era stato ricoverato per una grave malattia. Al polso aveva il braccialetto: l’allarme però scattò in Questura soltanto dopo quattro minuti. Quattro brevi ma lunghi minuti per avere qualche probabilità di intervenite in tempo utile e rintracciare il detenuto.
Successivamente nel 2003, il nuovo ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, nominato dal PdL decise di rilanciare tutto. Ed ebbe inizio lo scandalo vero. A novembre proprio del 2003 venne firmato un nuovo contratto con un gestore unico, Telecom Italia, che doveva garantire, oltre all’installazione dei Personal identification device, anche l’assistenza tecnica. Questo accordo costa allo Stato poco meno di 11 milioni di euro l’anno e soprattutto è ancora valido: è scaduto qualche giorno fa alla fine del 2011. Quasi cento milioni di euro, oltre naturalmente ad un’altra decina di milioni già spesi per la prima fallimentare sperimentazione.
Il contratto dei “braccialetti d’oro” non è mai stato rescisso con la Telecom e l’azienda guidata da Franco Bernabè ha continuato a garantire sulla carta il servizio: centrale operativa 24 ore al giorno. Soltanto tre anni fa, il ministro dell’Interno dell’ultimo Governo Berlusconi il leghista Roberto Maroni – in una delle tante sparate dei governi berlusconiani su come svuotare le carceri – aveva aperto all’uso delle apparecchiature “ma solo se c’è la garanzia che funzioni e che le evasioni siano pari a zero”. Inutile dire che non se n’è fatto nulla. Gianfilippo D’Agostino, direttore del Public Sector di Telecom Italia, è stato sentito l’11 maggio del 2010 dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ove ha ribadito, rispondendo alle domande della Radicale Rita Bernardini, che l’azienda disponeva di un servizio attivo 24 ore al giorno e di una grande centrale di controllo installata a Oriolo Romano e collegata con tutte le Questure d’Italia. E tutto questo per soli 6 apparecchi funzionanti !
Molti, come al solito, dettero la colpa ai magistrati, rei di non aver “prescritto” i braccialetti. In realtà però “gli stessi giudici non sono mai stati informati a sufficienza, in molti non conoscono neanche la procedura”, commentano dal Sappe, sindacato di polizia penitenziaria che sul braccialetto elettronico sta portando avanti da anni una vera e propria battaglia sulla questione. Si proprio la Polizia Penitenziaria: perché nel lontano 2001, oltre al Viminale, era coinvolto nel progetto anche il Ministero della Giustizia. Infatti se il controllo dei detenuti provvisti di braccialetto, contrariamente a quanto sarebbe stato più logica, venne affidato alla Polizia di Stato e non alla Penitenziaria. Uno dei tanti affari “politici” di Stato?
I conti li fece anche MF-Milano Finanza, il quotidiano dei mercati finanziari secondo il quale «lo Stato spende 11 milioni di euro all’anno per applicare i braccialetti a una decina di detenuti agli arresti domiciliari». Una cifra enorme, uno spreco assurdo. Perchè ? «Dei 400 dispositivi elettronici che il Viminale ha noleggiato dalla Telecom fino al 2011, soltanto 11 sarebbero utilizzati, il resto è sotto chiave in una stanza blindata del ministero».
A raccontarlo non fu il solito giornalista disinformato o impiccione, ma la denuncia venne resa pubblica da Donato Capece, segretario del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria): «Questi costosissimi aggeggi elettronici si sono dimostrati inefficaci, la loro tecnologia è ormai obsoleta e sono stati già parecchi i casi di evasione». Chiaramente dal Ministero di Giustizia, retto negli ultimi dai ministri berlusconiani Alfano e Nitto Palma, non ci fu nessuna smentita o commento
Probabilmente sarebbe stato logico rompere il contratto con Telecom Italia, risparmiando così un mucchio di soldi. «Purtroppo – spiegava sempre Capece – il contratto firmato nel 2001 contempla una clausola che obbliga lo Stato a pagare la Telecom fino al 2011; solo dopo questo termine si potrà sciogliere l’“esclusiva“, scegliendo eventualmente di rivolgersi ad un altro operatore in grado di gestire – magari con prezzi più modici – la tecnologia di braccialetti elettronici di nuova generazione».
Telecom Italia, al momento, secondo quanto diceva il contratto. sarebbe stata in grado di monitorare grazie a una sala di controllo centralizzata 309 centraline su tutto il territorio nazionale collegate alle questure, ai comandi provinciali della finanza e dei carabinieri. Sulla carta uno spiegamento tecnologico assolutamente sovradimensionato rispetto ai pochi detenuti agli arresti domiciliari cui è stato effettivamente applicato il braccialetto: detenuti ai quali è bastato staccare il marchingegno farlocco dalla caviglia o dal polso per rendersi irreperibili. Insomma, lo Stato ha pagato fior di milioni per rendere il più possibile agevole l’evasione dei criminali. Telecom beata ha incassato e tutti zitti!
Perplessità arrivarono anche dall’Osapp, l’altra organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria: «Per il braccialetto servono almeno 4mila agenti, uno per ogni detenuto controllato -, dichiarò il segretario nazionale Leo Benedici -. Si tratta di uno strumento costoso che nel corso degli anni ha mostrato gravi problemi di applicazione e prevede un domicilio certo e una casa presso cui montare l’apparecchiatura che rimanda il segnale dal congegno indossato». Alla buon’ora il Viminale iniziò a prendere delle contromisure e dal ministero degli Interni fecero sapere che la «convenzione con la Telecom è in via di sospensione alla luce della nuova formulazione del progetto relativo all’utilizzo dei braccialetti elettronici». Come sia finito non è dato saperlo ! E pensare dire che solo due anni fa tutti giuravano sulla funzionalità dell’esperimento: un gioiello hi-tech simile a un orologio da caviglia, anziché da polso. Un semplice «collarino» indossato all’estremità della gamba e dotato di un trasmettitore in collegamento con la centralina della polizia per tenere sotto controllo i detenuti ammessi alle misure alternative al carcere. Il ministro della Giustizia in carica Angelino Alfano e Franco Ionta il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sprizzavano ottimismo: «Grazie al braccialetto risolveremo i problemi più pressanti di sovraffollamento delle carceri, consentendo di non perdere mai di vista i circa 4.100 detenuti italiani che hanno fino a due anni di pena da scontare e possono usufruire degli arresti domiciliari».
Negli stessi giorni lo stesso Alfano confermava – come raccontava il quotidiano di “famiglia” Il Giornale – l’intenzione di dare corso a un piano «svuota-carceri» che prevedeva, in particolare, l’espulsione di più di 3mila detenuti stranieri e il ricorso al braccialetto per gli oltre 4mila italiani. Chiaramente non se ne fece nulla, e tutto si bloccò a causa dell’inaffidabilità di questi benedetti braccialetti forniti da Telecom Italia. Ma il Ministero di Giustizia non demorde e rilanciò : «Il braccialetto elettronico può garantire una maggiore sicurezza delle nostre città». E a chi, anche nell’ambito dello schieramento di centrodestra, come il ministro dell’Interno Roberto Maroni, avanzava dubbi sull’efficacia dello strumento, Alfano replicava con l’assicurazione che «verrà adottato solo una volta messo a punto con precisione il meccanismo dal punto di vista tecnico». Come dire mai!
Il vicecapo della Polizia Francesco Cirillo
Ma oggi è arrivato il giallo ! Il vice capo della Polizia di Stato, Francesco Cirillo nel corso della sua audizione davanti alla Commissione Giustizia del Senato, ha detto che “i detenuti stanno meglio nelle carceri” osteggiando il nuovo piano svuota-carceri predisposto dal Ministro di Giustizia Paola Sanserverino . Il Prefetto Cirillo ha fornito però ai senatori della Commissione Giustizia dei “numeri” sospetti ed ha proposto nuovamente il braccialetto elettronico per chi è agli arresti domiciliari ma con strumenti più moderni rispetto a quelli disponibili che non garantiscono dalle evasioni, visto che quelli forniti da Telecom Italia “non hanno il Gps e, dunque, se il detenuto esce di casa non è più localizzabile“. Gli attuali 2000 braccialetti disponibili, sono troppo pochi a suo parere rispetto alle 41 mila persone in detenzione domiciliare. E gli attuali sono “grandetti e ingombrantucci“. Sono “solo 8“, ha detto Cirillo; quanto ai costi, calcolati da alcuni parlamentari pari a 5000 euro a braccialetto, il prefetto ha fatto ricorso a una battuta: “se fossimo andati da Bulgari avremmo speso meno“. Oggi dunque “il bilancio è assolutamente negativo“, ma il sistema, ha sostenuto, “é migliorabile“.
Ma se i braccialetti attuali disponibili sono 2000 ed inutilizzabili, e non 400 come raccontato negli anni passati, quanto è costato questo servizio inutilizzato in quanto obsoleto secondo la Polizia di Stato fornito da Telecom Italia al Ministero dell’ Interno?
Persino l’attuale Ministro della Giustizia Paola Severino in uno dei suoi discorsi programmatici da neo Guardasigilli si è soffermata sul problema sostenendo che l ’introduzione di “un utilizzo migliore del braccialetto elettronico sarebbe non solo un beneficio per le carceri e per il personale, attualmente sotto organico, ma anche una misura ragionevole da realizzare in tempi brevi”, visto che “la riforma dei codici penale e di procedura penale non è realizzabile” per la durata limitata del governo. A Telecom Italia , società della quale la Severino è stata legale, qualcuno dice che invece si sta già preparando ad incassare qualche centinaio di milioni di euro con il rinnovo del contratto ? Scegliersi dei bravi avvocati, anche se cari, a volte può essere un buon investimento….
Chissà se l’economista Sen. Mario Monti , attuale premier a Palazzo Chigi ed i suoi colleghi “tecnici” che cercano di tagliare costi dello Stato cosa ne pensano. I contribuenti hanno il diritto di sapere come vengono spesi i propri soldi. O no ? (04 Jan 2012)
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