di Claudio Angelini
Essendomi di recente riaccostato al mondo meraviglioso della lirica greca classica, ho così riscoperto che la poetessa Saffo costituisce all’interno di quel mondo un caso davvero unico, che continua a stupire i critici moderni. Poiché ne sono rimasto particolarmente colpito (affascinato, avrei voluto dire, se non fosse verbo da usare con discrezione, per i motivi che esporrò), ho cercato di chiarire a me stesso il perché di tale effetto. Senza dubbio è ammirevole la leggiadria, la levigatezza, la dolcezza delle espressioni e delle immagini della poetessa che si giova, dominandola, d’una lingua semplice, essenziale, e descrive, sentendosene parte, le cose, le manifestazioni più elementari e nello stesso tempo più tenere e raffinate, della natura. Ecco, ci siamo; il segreto del suo verso gentile e accattivante è qui. Saffo è l’unica donna in tutta la storia della letteratura che abbia saputo portare al massimo dell’espressività, della raffigurazione plastica, i limiti dell’animo, della immaginazione, dei sentimenti femminili, identificandoli con aspetti determinati della realtà sensibile. In maniera morbida dunque, e allo stesso tempo intensa, acuta; ella, col suo lieve rappresentare, in cui spicca la delicatezza e l’armonia della linea, mira prevalentemente a evocare il piacevole, il raffinato, il fruibile, sfiorando a tratti il drammatico, presente non più che come ombra d’un presagio, nella sua produzione. Ella ama le scene quiete, rilassanti, le voci della natura più soavi, ella ama l’oro, l’eleganza, tutto ciò che può procurare diletto e gradevoli sensazioni, al cui apice si pone eros, l’amore per la bellezza dei corpi. Saffo ben sa che eros è anche pathos, passione, ma la passione intesa come sofferenza si mitiga e annulla nel momento dell’estasi. Solo allora si percepiscono eros e pathos come inscindibili aspetti d’un’unica realtà, quella del bello, per cui vale la pena vivere, e che va quindi accettata com’è. Tutto ciò, come si vede, descrive la sostanza e i confini d’una sensibilità squisitamente femminile, che, con Saffo, e per la prima volta, forse in maniera irripetibile, concepisce la vita come un’esperienza esaltante, tutta da scoprire e godere. Pertanto in Saffo l’amore per il mondo, e l’esistere in esso, si traduce in contemplazione del cosmo, del suo ordine, della sua bellezza, che ha un fine etico, quando è esortazione alle fanciulle del suo tiaso a venerare la natura di per sé, senza la mediazione dell’arte. Ma che ha un fine anche estetico quando voglia quasi compendiare, offrire il risultato, il significato finale della tensione sensitiva in forma di ricche, dolci e composte parole a tutte quelle fanciulle o persone poco inclini ad ammirare e ad un tempo riflettere. Accade così, nella poesia di Saffo, che gli stessi sentimenti umani, come i bei corpi, diventino oggetto di contemplazione, quasi ci si accostasse ad essi con la stessa reverenza tributata all’ordine cosmico, che è opera degli dei. E’ quanto ci attesta il celeberrimo frammento 31, dove innegabilmente affiora (benché certi critici non lo ammettano) il sentimento della gelosia per la creatura amata che suscita passione in altra persona, gelosia che però è come depurata d’ogni tentazione di violenza. E i suoi effetti, rattenuti nel cuore della poetessa, vengono descritti alla stregua d’un fenomeno naturale, che può causare sgomento ma anche trepida speranza. Non per nulla il verso finale, interrompendosi, sembra voler significare, nello stato psicologico di colei che contempla la scena e se stessa, un rallentamento della tensione: “Ma tutto si può sopportare… “. Questa commistione, inconscia ma sempre riconoscibile, che s’attua nella lirica di Saffo fra amore per la vita e amore per l’arte sembra essere l’elemento più caratterizzante della sua personalità poetica e del suo fascino particolare.
Tale giudizio che si può avere del magistero stilistico di Saffo è favorito comunque da due fattori importanti: primo, la poeticità del frammento di per sé. Certo, gioverebbe meglio alla comprensione della poetessa una più ampia disponibilità di testi, ma chissà, fino a un certo punto. Un frammento di Saffo splende di per sé forse proprio perché isolato da un contesto di contenuti che rischierebbero di essere o ripetitivi o non troppo profondi. In tal modo in esso meglio si concentra il pathos, a compenso quasi di quanto si intravede di suggestivo nelle parti perdute.
Secondo, la idolatria del frammento antico, e dell’antico in quanto tale. Da un atteggiamento simile, invero un po’ morboso, discende che ogni espressione umana, per il fatto stesso d’essere stata sottratta alla voragine del tempo, è reputata d’altissimo valore, non solo documentario ma anche artistico; ed è illazione arbitraria. Il discorso vale, è ovvio, per tutti gli altri esponenti della lirica greca, ma certo in Saffo assume sfumature di significato speciali. Ricordo che, giovane ancora, quando riandavo con la memoria ai frammenti di quegli autori, e segnatamente di Saffo, pensavo: ma che ci vuole, in fondo, a scrivere quelle poesie? Basta mettere insieme, con una certa bravura, un pezzo di cielo, una manciata di stelle, un po’ di chiarore lunare, un albero dalle foglie fruscianti, con l’aggiunta, se si vuole, di un ruscello gorgogliante, e il gioco è fatto. Bisogna però mettere tutto nella misura, nella dose giusta, come in una preziosa ricetta, ma alla fin fine non è così difficile. Beh, c’era del vero, lo ripeto in parte anche adesso con l’esperienza che ho, e probabilmente l’idolatria dell’antico di cui dicevo non nuoce all’apprezzamento del risultato. Rimane il discorso del “quid” inspiegabile che distingue il poeta vero dal dilettante. E Saffo era una vera poetessa. Che attrae, coinvolge, affascina… Affascina? Questo mi chiedevo; quando è che una poesia veramente affascina, e perché? Indipendentemente dall’epoca in cui fu scritta, dico che una poesia è affascinante, o tanto più affascinante, quanti più sono gli aspetti della realtà, fisica ed umana, che essa presenta ed illustra al lettore. Ebbene, della poesia di Saffo abbiamo messo in risalto l’aspetto voluttuoso, piacevole, raffinato, portato al massimo grado d’arte, unico esempio della poesia femminile d’ogni tempo. Ma altri coinvolgenti e sublimi motivi non ci sono, né possono esserci. Manca la dimensione del dramma, la varietà, l’analisi profonda, manca il senso del valore alto, sia pure rapportato al tempo: la competizione, la gloria, la patria, la grandezza, l’anelito all’immortalità, e così via. Valori, sentimenti maschili, mi si dirà; ebbene, è così; però, in un uomo, in un poeta, essi possono benissimo convivere accanto a delicatezza e dolcezza di rappresentazione. In una donna è raro che accanto alle sfumature sentimentali più pregevoli del suo sesso, vi sia un’introspezione della realtà che, in confronto alla complessità concettuale e spirituale della mente maschile, trascenda l’ordine intuitivo, pena del resto una inammissibile stonatura nella sua espressione in senso lato. Altra obiezione possibile alle mie osservazioni è questa: non solo in Saffo, donna, mancano quei temi e quegli spunti, ma in tutti gli altri poeti lirici. E questo non è vero; negli altri poeti quei temi spesso compaiono, ma non è intenzione di nessuno di loro trattarli a fondo, del resto in conformità con le norme stesse del genere prescelto.
Non staremo qui ad esemplificare, e a estendere il discorso; in questa sede non c’interessa. Vogliamo ricordare che nella Grecia antica il poeta che aveva, nonostante l’ingenuità dell’epoca, dato voce alla più vasta gamma di sentimenti umani, e colore, e rilievo a quante più possibili immagini e forme della natura era stato Omero. La profondità con cui il cieco vate aveva ritratto la vita, i suoi spettacoli ed i suoi sensi era destinata per tanti aspetti a restare insuperata nei secoli. Ma anche la poesia di Saffo era destinata a restare insuperata. In nessun altra figura letteraria femminile infatti, per dirla col Croce, il momento sensitivo, intuitivo della realtà è mai più perfettamente coinciso col momento espressivo, come in Saffo. Perché? Perché in Saffo, che scriveva nel VII secolo avanti Cristo, era del tutto assente il problema morale come fu inteso nei tempi moderni. A quell’epoca infatti il colmo della raffinatezza consisteva proprio in questo, nel far coincidere l’ethos con l’eros. E si rendeva il più alto omaggio agli dei quando, con la propria fine sensibilità, si era in grado di apprezzare i loro doni e di usufruirne. Momento forse di grazia, nella storia della cultura e della civiltà occidentale, ed umana. Basta lasciar passare tre, quattro secoli per accorgerci che nella stessa civiltà greca tutto è cambiato, e lo scetticismo ha dato un volto nuovo ad ogni manifestazione dell’arte. E così accade nella storia della successiva evoluzione umana. Movimenti nuovi di pensiero, nuove religioni e teorie scientifiche, se da una parte hanno contribuito a chiarire la visione del cosmo e dei suoi fenomeni, e a conoscere meglio l’uomo (forse il mistero più affascinante dell’universo), da un’altra però, e qui debbo almeno in parte consentire col Leopardi, hanno tolto all’espressione del sentimento umano tanta di quella spontaneità e purezza d’intuizione che era tipica delle antiche età. Ecco perché nessuna poetessa ha potuto più fare ciò che ha fatto Saffo. Ognuna che nelle età successive ci abbia provato, indagando il mondo interiore femminile, sia perché vincolata da scrupoli etico religiosi, sia perché incapace d’un linguaggio atto a esprimere il dramma, ha finito spesso (non sempre!) col metterne in evidenza soltanto gli aspetti più piccini e più frivoli, e i moti più transitori e caduchi.
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Claudio Angelini traduce Saffo:
INVITO
Vieni qui, a questo venerando tempio
dov’è un leggiadro bosco, e sugli altari
fuma l’incenso;
qui scroscia fresca l’acqua in mezzo ai rami
dei meli, il luogo è all’ombra delle rose,
e fra il dolce sussurro delle foglie
scorre la quiete.
Qui è un prato dove crescono in rigoglio
fiori di primavera, dove al pascolo
stanno i cavalli, e lievi intorno spirano
soavi brezze.
E qui tu, o Cipride, prendendo un’anfora,
mesci con grazia in tazze d’oro nettare,
vino celeste traboccante gioia…
PLENILUNIO
Le stelle intorno alla graziosa luna
celano il volto lucido,
quando essa, piena, effonde il suo chiarore
sopra la terra.
SIMILE AGLI DEI
Mi pare simile agli dei quell’uomo
che ti è d’accanto, e ascolta il dolce suono
della tua voce, quando parli e ridi
graziosa e amante.
A me, nel petto ecco che il cuore s’agita
turbato, e appena ch’io ti veda un solo
istante, la voce mi s’interrompe
come impedita,
ma la lingua si spezza, e un improvviso
brivido ardente va sotto la pelle,
gli occhi non vedono più nulla, e un rombo
corre le orecchie,
grondo sudore, sono tutta un tremito
e impallidisco, verde più dell’erba,
mi sembra d’essere vicina a morte,
fuori di me.
Ma tutto è sopportabile, perché…
Dal volume d prossima pubblicazione “Lirici Greci” di Claudio Angelini
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