di Nadia Angelini

Come è possibile definire il senso della normalità?
Tante cose che, agli occhi di molti, possono sembrare tali appaiono ad altri, addirittura oscene. Il messaggio di quanto avviene intorno, è recepito in mille modi diversi, con una individualità esasperante.
Erano questi i pensieri, che via via che i minuti trascorrevano, sempre più pressanti si affacciavano alla mente di Marco.
Si guardò intorno: tutto ciò che lo circondava era asettico impersonale e ovattato. Il marasma di sentimenti che era in lui, invece, aveva il sapore amaro della sconfitta, la forza tumultuosa della rabbia repressa e lo sgomento che deriva dalla paura; quella che si conosce soltanto negli attimi più dolorosi che il destino può riservarci di vivere. E… lui sì che si sentiva disperato!
Era infelice e solo, come mai gli era capitato di esserlo prima di allora. Attendeva in quel reparto ospedaliero, che giungesse il suo turno di visita.
Era lì per conoscere gli esiti, di alcuni esami clinici ,che non avrebbe mai voluto gli fossero stati necessari.
Si alzò poggiò la valigetta da lavoro sulla sedia che aveva occupato fino ad un attimo prima e cominciò a passeggiare avanti e indietro, per quel lungo corridoio, in attesa di essere chiamato. Aveva addosso la strana sensazione di non vivere momenti che appartenessero davvero alla sua esistenza, non riusciva a credere che quell’esperienza così desolante fosse proprio la sua.
Si disse che forse una forza misteriosa, lo portasse a conoscere un altro Marco, quello stesso che in quel triste mattino era lì alle prese con un problema tanto grande, che tuttavia, non poteva -sicuramente riguardare lui!
La porta a vetri, davanti alla quale si trovava, gli rimandò l’immagine di un bel ragazzo alto bruno, con grandi occhi impauriti e labbra carnose.
Immediatamente riprese coscienza di sé e provò l’istinto irragionevole di fuggire da quel luogo e dimenticare il perché vi si trovasse.
La sua razionalità ebbe però il sopravvento e lo consigliò di restare, non fosse altro che per salvare quel tempo che gli era ancora concesso di vivere e soprattutto la qualità dei giorni ancora da spendere.
La sua persona sprigionava un fascino non comune,così come non comune era possibile definire la sua bellezza; ma questo che era stato per lui sempre motivo di orgoglio, non assumeva in quel momento alcun significato.
Le parole che di lì a poco avrebbe udito dai sanitari,potevano annientarlo o condurlo verso un cammino di speranza comunque duro faticoso,ma che gli avrebbe concesso di vivere ancora la sua vita che, soltanto adesso, aveva iniziato a regalargli i suoi primi successi professionali.
Realizzò, e se ne stupì, come d’improvviso si stesse rendendo conto di non sentirsi più colpevole a causa della sua diversità.
Era finalmente riuscito ad accettarla e non provava più la voglia di morire, come gli era capitato nell’adolescenza, quando non si riconosceva in ciò che gli altri e lui stesso desideravano che fosse. Subito dopo la laurea, aveva trovato lavoro presso una multinazionale e con esso l’apprezzamento costante dei superiori, per le sue spiccate doti di economista.
Era accaduto tutto soltanto quattro anni prima, eppure aveva l’impressione che quei ricordi facessero già parte d’un’altra vita. Così come lontano nel tempo ricordava anche lo sguardo di suo padre, quando egli trovò il coraggio sufficiente per aprirsi a lui chiedendo, anzi implorando, comprensione per quello che gli aveva appena confessato. Sua madre, invece, aveva pianto sommessamente e ai biasimi acerbi del marito contro di lui, aveva opposto tutto il suo amore materno.
Quanto dolore e quanto disperato affetto, aveva avvertito Luca nell’abbraccio che quella donna forte e coraggiosa gli dedicò. Non poteva dimenticare che proprio mentre la bocca dell’uomo che lo aveva generato si malediva per questo, lei invece gli fu più vicina. Ecco…- pensò Luca-“ Avrei bisogno della sua forza, in questo momento, per sentirmi meno solo!” Poi però, si pentì immediatamente dell’idea e ripetè a se stesso che sua madre anche se non ne parlava, soffriva senza dubbio già moltissimo per lui e non era davvero il caso che egli stesso appesantisse quel fardello. “ Signor Ferrari, può accomodarsi?” Quella voce lo ridestò dai suoi lugubri pensieri scaraventandolo, una volta entrato e dopo aver analizzato i responsi clinici, in una realtà che non avrebbe potuto mai più ignorare. Il bellissimo uomo che uscì da quella stanza poco dopo non aveva più trent’anni.
Sulle sue spalle, seppur possenti, gravava il peso di una verità terribile e inaccettabile quando si è giovani belli e di successo.
Si diceva tornando verso l’auto, che pur tuttavia era necessario prenderne atto, concertare le possibilità dell’immediato futuro per non arrendersi immediatamente, anche se era chiaro che non poteva cullarsi in soverchie speranze.
Una volta in strada avvertì un forte ronzio alle orecchie poi improvvisamente si sentì come svuotato di ogni energia e fu ben felice di sedersi in auto che, con grande forza di volontà, era riuscito a raggiungere. Si gettò letteralmente sul sedile reclinò lo schienale e, con il capo rivolto all’indietro, sfogò nel pianto tutto il suo dolore.
Subito dopo però un guizzo di rabbia, per quel destino così amaro, lo portò a ripromettersi che a dispetto di tutto avrebbe vinto lui! Si certo i suoi giovani anni, la sua voglia di vivere e di amare ancora, lo avrebbero sicuramente aiutato! Cercò di ricomporsi trovando dentro di sé la forza di ovviare a quel momento di follia e disperazione e, quando vi riuscì, accese il motore dell’auto e si avviò verso casa.
Appena vi giunse, subito realizzò che doveva fare alcune telefonate di lavoro, avvisare la segretaria che si sarebbe trattenuto fuori ufficio e pregarla di pianificare gli appuntamenti, che comunque non potevano essere evasi che all’indomani ,quando sarebbe tornato in ufficio. Sistemata momentaneamente questa incombenza, si sedette in poltrona e restò lì in attesa di qualcosa che neanche lui sapeva quale avrebbe potuto essere, ma che riuscisse a sollevarlo, almeno in parte, da tutta quell’angoscia.
“Forse –si disse- calmandomi, riuscirò a pensare con più chiarezza e sicuramente otterrò di pianificare almeno questo primo periodo, che forse sarà il più duro.” Assorto nei suoi pensieri, ascoltò squillare il telefono, poi ancora dopo il suo cellulare ed allora non avendo alcuna intenzione di rispondere né sull’uno né sull’altro; decise di staccare la cornetta e spegnere il telefonino.
La porta di casa che si richiudeva, con un tonfo sordo, lo fece sussultare: non si era neanche reso conto di essere al buio finché la luce del soggiorno si accese e la voce di Edoardo lo raggiunse quasi fosse a chilometri di lontananza. Quando quest’ultimo gli fu di fronte non poté non notare la disperazione negli occhi di Luca, il pallore spettrale del suo volto e l’espressione attonita che vi si rifletteva. “Perché? – lo rimproverò immediatamente l’uomo – Perché non mi hai chiamato per dirmi che stavi male?
Sarei rincasato prima per aiutarti! Non ottenne risposta, ma ciò che Luca gli mostrò, senza parole, altro non era che la sentenza pronunciata da un destino al quale nessuno poteva ribellarsi! Era tutto lì, in un foglio intestato d’ospedale scritto a piccoli caratteri , l’annuncio del calvario per un uomo qualsiasi, che aveva vissuto fino ad allora una qualsiasi storia di vita, come un qualsiasi “diverso”. Costui lesse, non comprese chiaramente i termini scientifici che vi erano menzionati, ma non gli fu assolutamente difficile riassumerne il significato.
Senza pronunciare parola e col cuore che sentiva battere a tonfi sordi nel petto, abbracciò il suo compagno e con voce che cercò di rendere ferma gli disse:”Luca, tu non sei solo, combatteremo insieme e so che vinceremo!”
“Andremo in un centro specializzato – continuò – e certamente troveremo il modo di rendere silente ancora per molti anni questa malattia: non devi disperare!
In fondo la ricerca sta facendo, in questi ultimi anni, dei passi giganti – incalzò ancora- e tu sono certo che potrai usufruire molto presto di una cura, che destabilizzerà definitivamente questo male”-terminò dicendo – mentre invece, dentro l’anima, emozioni devastanti e cupe lo stavano opprimendo.
Guardò infine l’uomo che aveva di fronte: il suo sguardo malgrado tutto espresse un sorriso che voleva essere rassicurante, ma che inequivocabilmente lasciò trasparire tutto l’amore che provava per lui.
Poi quasi inaspettatamente, tutto sembrò rientrare nei binari di una usualità ormai sperimentata. Parlarono del più e del meno e a Luca non sembrò possibile d’aver sofferto tanta solitudine e tanto dolore.
La vicinanza di Edoardo, quel suo affrontare la vita a muso duro, lo rendevano più forte al punto che anche lui ora credeva, o forse voleva disperatamente credere, che insieme sarebbero stati in grado di affrontare tutto e vincere anche la morte.
Quella notte abbracciando l’uomo che amava, dimenticò ogni cosa. Gli sembrò che il giorno appena trascorso non potesse in alcun modo appartenergli e comunque ritrovò, dentro di sé, la certezza di non essere solo ad affrontare quello che il destino avrebbe potuto avere in serbo per lui.
Infatti, subito il giorno seguente, si recò con Edoardo in un centro specializzato per malattie infettive e lì furono consigliati di consultare un luminare che risiedeva a Parigi.
Ancora insieme pianificarono l’assenza dai rispettivi posti di lavoro e parlandone decisero che sarebbe stato utile ad entrambi, non solo farlo apparire un periodo di riposo che fisicamente occorreva loro avere, ma addirittura considerarlo una vacanza nella quale avrebbero incluso una visita medica.
Parigi li accolse con l’aria festosa e bohemien di sempre!
Quando scesero dal taxi che li aveva accompagnati dall’aeroporto fino all’hotel, Luca si stupì realizzando di non aver dentro che, una grande serenità, un fiducioso ottimismo che lo portava a sperare nelle cose migliori.
Una volta sistemati i bagagli nella loro suite, decisero di fare una doccia.
Edoardo chiese all’altro di dargli la precedenza nella stanza da bagno, cosicché egli stesso, avrebbe poi confermato l’appuntamento col medico, che li attendeva quella stessa sera nel suo studio, mentre lui avesse terminato di prepararsi.
Uscirono insieme per recarsi, con la medesima paura, ad affrontare quella dura prova.
Fecero a piedi il piccolo percorso che li divideva dallo studio del medico che li attendeva. Non riuscirono a parlare molto: in ognuno di loro, c’era l’attesa per quel responso che avrebbe potuto equivalere ad una condanna.
Il prof. Fremont, anche sottolineando la gravità della situazione, mostrò un cauto ottimismo per quelle che potevano essere le aspettative di quel caso.
Decise la linea di condotta da seguire e informò i due giovani che la cura immediata doveva essere iniziata il giorno successivo nella sua clinica; che sarebbe durata una settimana, dopodiché effettuati ulteriori ed approfonditi esami, che lui sperava avessero mostrato con più chiarezza la definitiva terapia da seguire, avrebbero potuto tornare in Italia e rivedersi ogni sei mesi circa.
Erano più sereni quando lasciarono lo studio dello specialista.
Il cielo disegnava lunghe ombre rosse su Parigi, la Senna scorrendo tra le sue sponde sembrava cantarle una canzone d’amore: l’aria profumava di vaniglia e lillà e loro due erano innamorati!
“Carpe diem!”- urlò quasi Edoardo – Rivolto a Luca:
“Carpe vitam!” – rispose questo- Voglio cogliere la vita, l’amo troppo insieme a te!”
E… quella città li accolse fra le sue braccia e li consolò donando loro, per una notte, l’oblio da ogni pena.
I giorni che seguirono, furono caratterizzati da mille timori. Soffusi da una sottile vena di malinconia, ma colmi di speranze!
Finalmente il giorno degli esami arrivò.
Quel mattino Edoardo si alzò che era appena l’alba: aveva trascorso una notte insonne e non vedeva l’ora d’essere da Luca, per infondergli un po’ di buonumore, prima che egli si sottoponesse a quelle nuove prove.
“Ci riuscirò? – si chiese – Visto che anche io sono così preso dal terrore!”
Scese tra le strade ancora addormentate della città e girovagò intorno per attendere l’ora in cui gli avrebbero permesso di vedere Luca.
Entrò in un bistrot chiese del caffè e si sedette a sorbirlo. La mente lo accompagnò per meandri oscuri che sperava non dover mai visitare, ma che tuttavia lo turbarono in tutto il suo essere, fino a farlo rabbrividire di pena.
Guardò il suo orologio da polso: poteva incamminarsi – pensò – andando a piedi poteva giungere in clinica, con comodità, all’ora giusta.
Entrò nella stanza e lo vide: Luca doveva aver trascorso una notte come la sua – pensò – e facendo appello a tutta la sua forza riuscì a sorridergli, esattamente come accadeva in giorni sereni.
L’uomo, poco prima terrorizzato, ricambiò il suo sorriso e si disse sereno e fiducioso per ciò che riguardava la sua malattia.
In quel momento era importante una sola cosa per loro: essere insieme.
E divisi, ma emozionalmente uniti, affrontarono quella nuova, cupa prova che il destino riservò loro.
Il responso che ne conseguì allentò, momentaneamente, la grande ansia che li aveva accompagnati durante tutto il periodo della degenza.
Si riaprì uno spiraglio di luce nei loro animi perduti nell’oscurità della paura.
Indubbiamente il male esisteva; però a meno che non fossero sopraggiunte infezioni ( che potevano essere di varia natura) Luca avrebbe potuto curarsi e vivere una vita quasi normale.
Non era molto!… Comunque un margine di speranza ancora esisteva e, proprio a questo tenue filo, i due amanti si legarono per sopravvivere e programmare un immediato futuro. Fecero ritorno nella loro casa. La vita e i giorni si susseguirono in una consolidata usualità.
Ogni mattina si recavano ai rispettivi luoghi di lavoro ed ogni sera si ritrovavano. Sebbene in ognuno di loro albergasse un rivolo di tristezza, non ne facevano mai parola con l’altro.
Il loro amore sembrava uscire rafforzato, da questa prova sconvolgente che erano costretti a vivere.
Le loro notti piene di passione e dolci abbandoni.
Era la loro sfida, amava dire Edoardo, contro il destino.
E…loro avevano sempre sfidato la vita! La società che non comprendeva e non accettava l’amore che condividevano, le loro rispettive famiglie, i conoscenti perbenisti e così via.
“Abbiamo sempre vinto: vinceremo anche questa volta” – ripeteva spesso con convinzione l’uomo.
Giunse però il periodo in cui, ogni sua convinzione sembrò vacillare, Luca si ammalò d’una brutta polmonite e soltanto il suo amore per la vita, oltre alle cure, poterono strapparlo alla morte.
Era indubbio che il periodo più duro era davvero iniziato!
Con l’eclatante exploit, dell’infezione polmonare, si dovevano fare i conti con una sopravvivenza assai limitata nel tempo: certamente non dovevano attendersi, più che qualche anno di vita.
Quando Luca fu dimesso, sembrava trasformato sia nel corpo che nell’anima. Edoardo lo spiava, non visto, e silenziosamente piangeva.
La loro casa non era più allegra ed accogliente come un tempo; dacché la salute di Luca era andata via via peggiorando, anche i loro amici più cari si erano dileguati.
Edoardo era costretto a farsi carico delle pulizie , poiché la donna che da anni pensava ad accudirli, aveva inventato la malattia di una sua parente che non le permetteva più di allontanarsi da casa. Alle difficoltà soggettive, si aggiunsero così quelle oggettive; in un’ escalation che non sembrò poter essere arginata.
Oltre tutte queste complicazioni sovrastava però, indiscusso ed imperioso, il loro amore!
Col finire della brutta stagione anche Luca sembrò ritrovare un po’ di mordente; decise di recarsi nuovamente al lavoro, iniziò a dividere col suo compagno gli oneri che la casa comportava, ed iniziò nuovamente a sorridere.
C’era , tuttavia, qualcosa che all’occhio attento di Edoardo non sfuggì:il Trimethopim in compresse, che il suo compagno avrebbe dovuto assumere per tre volte al giorno, erano quasi tutte nell’armadietto dei medicinali.
Glielo disse e questi rispose, sottovalutando la tensione dell’altro, che era convinto di poterne fare a meno; era certo che il suo male fosse in regressione.
Si mostrò talmente allegro e spensierato, che Edoardo lo recepì come un atto di fede e non comprese! Quella primavera che seguì, sembrò dare ad essi nuove certezze. Luca , anche se soltanto nel morale, sembrava esser tornato lo stesso d’un tempo.
Fu lui a proporre ad Edoardo di partire quel fine settimana e ritrovare così l’abitudine che fece parte, del primo periodo, del loro amore.
Proprio con la spensieratezza di allora, quel mattino Edoardo, uscì per acquistare i medicinali di pronto soccorso da portare in valigia, facendo i dovuti scongiuri, che non si fossero resi necessari.
Luca per ben due volte lo richiamò perché desiderava abbracciarlo; ma ciò era accaduto tante altre volte per cui, la cosa, fece soltanto gioire l’altro.
Quando Edoardo tornò a casa, la prima cosa che vide fu quella busta, in bella mostra sulla panca in anticamera: chiamò Luca…lui non rispose.
Con mani tremanti estrasse il foglio dalla busta e lesse:
Edoardo,
ti ringrazio degli anni di felicità che hai saputo darmi.
Malgrado ogni ragionevole logica, insieme, abbiamo sfidato il mondo e le sue convenzioni.
Non ho mai avuto disagio a vivere il mio amore per te; ma il mondo si può ignorarlo, la morte…no!
Ho deciso di beffarla: non attenderò che Lei venga da me; andrò io da Lei e lo farò adesso.
Quando ancora posso portare con me i tuoi sguardi pieni d’amore, prima che questi si traducano in pietà; davvero morrei due volte!
Ti ho tanto amato; ora in nome di questo nostro sentimento ti chiedo di tacere sulla mia malattia, con mia madre, come fino ad ora è stato fatto.
Lascia, ti prego, che lei pianga questo sventurato suo figlio nella normalità di una morte decorosa: questo è l’ultimo regalo che, so, tu mi farai.
Tanti incidenti accadono per destino; il mio sarà uno di questi.
Non piangermi troppo o troppo a lungo; la vita va vissuta!
Ti amo, disperatamente, Luca.

Nadia Angelini

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