Screenshot 20250623 065023 Docs - Cambiare l’acqua ai fiori (e ode alla brevità)

 

Dopo Il quaderno dell’amore perduto, di cui ho scritto qui il mese scorso, uscì in Francia nel 2018, e in Italia nel 2019, per le Edizioni E/O, Cambiare l’acqua ai fiori, il secondo romanzo di Valérie Perrin. Il racconto è affidato a una narratrice interna, la protagonista, e a un narratore esterno, che si alternano nello sviluppo della vicenda. La narratrice, Violette Trenet, è una bella donna che sfiora i cinquant’anni, guardiana del cimitero di Brancion-en-Chalon, in Borgogna. Ha avuto una vita difficile: era stata abbandonata alla nascita e aveva vissuto con diverse famiglie affidatarie, privata di affetto e guida, e forse anche per questo aveva avuto fretta di mettere su famiglia. Infatti era diventata madre appena maggiorenne, ma aveva capito subito che il bel marito, Philippe Toussaint, era del tutto refrattario al lavoro e agli impegni familiari: passava il suo tempo facendo lunghi giri in moto, o davanti allo schermo di videogiochi giapponesi, o tra le braccia delle molte donne che gli cadevano ai piedi. Erano poi diventati guardiani di un passaggio a livello a Malgrange-sur-Nancy, ma era Violette a lavorare, mentre il marito continuava la sua vacua esistenza. Fino a che, un giorno, un evento tragico era intervenuto a sconvolgere la vita di entrambi, imprimendo a essa svolte imprevedibili, tra le quali proprio il trasferimento nel cimitero di Brancion, con l’assunzione del nuovo incarico lavorativo. Da quel momento e da quel luogo gli eventi subiscono ulteriori accelerazioni e strappi, mentre la storia di Violette s’intreccia a quella di Julien Seul, un commissario di polizia che è giunto in Borgogna a seguito della morte della madre: nelle sue ultime volontà, la donna aveva chiesto che le proprie ceneri riposassero sulla tomba di un uomo che Julien non ha mai sentito nominare, il che gli pone inevitabili interrogativi. Il racconto è pieno di colpi di scena, come c’era da aspettarsi dalla scrittura di Perrin, e di personaggi vivi – nonostante il contesto mortuario – e molto ben caratterizzati. Quello di Violette commuove e intenerisce: lei è sempre compassionevole, gentile, generosa, a dispetto dei calci in faccia che la vita non le risparmia. Si appassiona alle storie dei morti di cui cura le tombe, che recepisce attraverso il racconto dei vivi che passano a trovarla e a cui lei non fa mai mancare il conforto della sua soccorrevole ospitalità. Stringe amicizia con tre necrofori – il goffo Gaston, il canterino Elvis e il tenero Nono –, con gli addetti alle pompe funebri – i fratelli Lucchini–, e con padre Cédric, prete bello e desideroso di paternità. Vagheggia per tutto l’anno il soggiorno agostano sempre offerto da Célia, la prima amica della sua vita, alla calanca di Sormiou, il luogo in cui «gli elementi riparano i vivi» e in cui si può ritrovare chi se n’è andato. Altro personaggio romantico e affascinante è Sasha, il guardiano del cimitero prima di Violette e di cui lei diventa amica, taumaturgo e appassionato cultore di orti e giardini, oltre che raffinato conoscitore e preparatore di infusi e tisane odorose, con il sogno di andare a morire in India. Per la protagonista di questo libro l’amicizia sembra costituire il primo e più consistente risarcimento per la tragedia e gli inganni della sua esistenza.

In Cambiare l’acqua ai fiori ho notato piccole curiose analogie con il primo romanzo di Perrin, che rappresentano quasi l’autentica di firma dell’autrice: anche qui un personaggio ha problemi nella lettura, un animale impedisce un suicidio, si evoca la crema Nivea, si dichiara una decisa avversione al colore senape.

Il libro è a tratti infarcito di funambulismi dialogici – quasi divertissement letterari – e di parentesi ad alta intensità emotiva. Presenta pure qualche impercettibile sbavatura formale, forse inevitabile in testi lunghi e tradotti. Questo romanzo conta 473 pagine; è più corposo del precedente della stessa autrice – 348 –, ma meno dei successivi, Tre – 624 – e Tatà – 608. Mi sovviene il monito insolente e iperbolico di Manganelli: «Un romanzo è quaranta righe più due metri cubi di aria». Per la verità qui di aria ce n’è poca, e quella che c’è profuma delle rose amate dalle protagoniste di due storie d’amore che si sviluppano in tempi diversi, ma che si avvitano su uno stesso indispensabile perno narrativo. Però l’osservazione sul numero di pagine mi consente una riflessione che esula dal romanzo de quo, e che si allarga a quella che mi pare essere una tendenza della narrativa e del cinema contemporanei: la prolissità.

Oggi c’è da chiedersi se non sia il caso di fare un bel check-up prima d’iniziare a leggere uno dei testi di narrativa che vanno per la maggiore, per appurare se si hanno ragionevoli probabilità di terminarlo… Eppure sono stati scritti fior di romanzi brevi, gemme della letteratura di ogni tempo di non più di 150 pagine: Le notti bianche di Dostoevskij, La metamorfosi di Kafka, La bella estate di Pavese ne sono esempi arcinoti. Ma in essi ogni parola è pesata, misurata, sezionata e selezionata tra centinaia. Lì è bandito il superfluo , il ridondante, il memo per il lettore distratto, l’autocitazione narcisistica, la digressione pretestuosa. Lì si fa conto sull’attenzione e sull’intuizione del lettore, non lo si intrattiene con discorsi futili e banali, con descrizioni insulse e osservazioni accessorie, non lo si disorienta con deviazioni inutili. Nei romanzi brevi ma di spessore – l’ossimoro è solo apparente – si percepisce l’importanza attribuita al tempo, che è sempre prezioso e non va sprecato, sia quello dell’autore e di tutta la catena editoriale, sia quello del lettore. Qual è la ragione dell’ipertrofia di tanti libri di narrativa? Forse, ancora una volta e come sempre, il profitto? Se aumenta il numero di pagine, aumenta il prezzo del tomo, è ovvio. Ma così non si perdono i lettori con una minore propensione al consumo di svago? Aumentare il prezzo di copertina non equivale a vendere meno copie? Forse no, non conosco i meccanismi del mercato. O forse la mia è una percezione sbagliata, e il fenomeno non si dà.

Tuttavia m’imbatto spesso in storie che si allargano e si moltiplicano come frattali inventivi, in cui mi è difficile tenere a fuoco la vicenda principale perché l’attenzione si sfrangia in troppi rivoli, nell’inglobarsi di cornici narrative, e i personaggi arrivano a confondersi e ad accavallarsi. Mi viene da invocare il famoso canone di scrittura aristotelico – l’unità di luogo, di tempo e di azione –, per riportare all’ordine l’esuberante, talvolta eccedente fantasia di certi autori: del resto credo che di Proust in circolazione ce ne siano pochi.

Stessa cosa mi pare per i film. Sempre più spesso sui titoli di coda mi trovo a formulare la stessa frase: bello, ma troppo lungo. Quel che vale per il vino nella botte, può valere pure per le opere letterarie e cinematografiche. Evviva la consistente brevità!

Cristiana Bullita

 

 

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