Enrico Verga
Li vedi in giro per Milano, un po’ arroganti, con quell’aria del tipo “ti spiego io come funziona il mondo che sono giovane e tu non capisci una mazza”. Alcuni, quelli che han già fatto i soldi, sono più lanciati e sfoggiano orologi costosi o abiti firmati, quelli che invece i soldi devono ancora farli si atteggiano a guru. Sto parlando di Netties? Di super algo-trader (più un nome che fa scena che un vero lavoro) divenuti ricchi grazie alle Ia? Di grandi esperti di bitcoin o startuppari freschi di exit milionaria (in Italia?). No, non sto parlando di Yuppies e non parlo della Milano del 2018, ma di quella del 1983-84.
Parlo di un’epoca, 30 anni fa, in cui io ero un pupo (classe ’76), dove Internet era sì e no un pupo come me (tra Arpanet e simili), quando c’era ancora la lira e l’Italia si prendeva un poco di più in giro. Parlo di una Milano che era un po’ socialista e un po’ democristiana, dove c’era ancora una classe operaia, dove gli agenti immobiliari – quelli che vendevano auto e (per i più ricchi) quelli che lavoravano alla borsa – leggevano Il Sole 24 ore, bibbia del capitalismo. Era una Milano più sbruffona, arrogante, ma anche divertita. Dove c’era voglia di crescere e inventare. Una “Milano da bere” come ben spiegato da una pubblicità famosa all’epoca. In questo mondo si muoveva Carlo Vanzina, morto oggi.
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