Riportiamo, insieme al testo “C’è posto per te” una lettera allegata Frecciaa 34 - C’E’… 
 POSTO PER TE di Claudio Angelini, giornalista, critico letterario e… per la sua biografia rimandiamo al testo editato sempre su questo sito: un parallelo fra don Chisciotte e Amleto, e la loro follia Frecciaa 34 - C’E’… 
 POSTO PER TE
Non entriamo nel merito della disputa, vuoi per la complessità della materia che richiede una competenza specifica, vuoi per il fatto che qualunque sia la nostra idea in merito questa non deve interagire con la libertà d’opinione altrui. Quello che invece vorremmo evidenziare è una considerazione nata dalla lettura della prima parte del testo sulla necessità di avere punti fermi e valori non modificabili sulla base della ricerca del benessere. Così come conveniamo che di giornalisti fuori dal coro, del tipo di Montanelli, si avverte oggi una grande esigenza data la povertà di esempi sul campo.

Wanda Montanelli

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Uno spettro s’aggira per l’Europa; quello che, guarda caso in ossequio alla lingua inglese, si definisce del “politically correct”. Che roba è? Una volta c’erano le ideologie, che erano soprattutto due, quella di destra e quella di sinistra, entrambe abbastanza complesse e articolate. Entrambe proponevano, ad uso dei loro seguaci, una visione del mondo, della realtà, in cui, pur con un certo margine d’opinabilità, la verità consisteva per ciascuna delle due nel fare e nel pensare esattamente l’opposto di ciò che facesse o pensasse l’altra. Poi improvvisamente successe in Europa che le ideologie crollarono, e che tutti coloro che prima erano appartenuti o all’una o all’altra, scoprirono di possedere sentimenti, idee, necessità abbastanza simili, che quello che era vero per gli uni poteva esserlo anche per gli altri, perché entrambe le schiere erano confluite in una massa indistinta e non meglio identificabile che come “ceto medio”, accomunata ora dalla ricerca d’una verità unica e imperativa per tutti, il benessere. Ogni altro tipo di verità, parziale o totale, o di fattore afferente alla verità, coerenza, impegno, dedizione, sacrificio, era pertanto diciamo così passato di moda. In una situazione nuova così configurata, ovviamente ogni presa di posizione sociale e culturale troppo rigida e netta rischiava di essere inappropriata, non più rispondente alle esigenze della massa, per la quale ormai l’orientamento d’opinione da parte di qualche impenitente era ancora accettabile, purché ogni individuo lo “sentisse”, quasi fisicamente, finalizzato al conseguimento d’una certa quota di benessere. E insomma, l’“establishment” (nuovo omaggio all’inglese) culturale d’ogni nazione tollerava che fra i vecchi maestri di pensiero qualcuno ancora, carico d’anni e d’esperienza, entrato in quella fase della vita in cui la saggezza confina quasi con la follia, dall’alto di qualche rubrica giornalistica catechizzasse ancora il pubblico sul significato di certi termini importanti, ma dal suono ormai un po’ vieto e strano, “velut aegri somnia”, quali libertà, democrazia, dovere, vita, morte… Quell’eventuale vecchio saggio, ovviamente non sapeva neanche cosa fosse quella nuova creatura, quel nuovo atteggiamento antropologico battezzato “politically correct”; chiunque lo stesse a sentire lo faceva un po’ a suo rischio. Fu il caso certamente del grande Indro Montanelli che fino al 2001 tenne, su un importante quotidiano italiano, “Il Corriere della Sera”, una appassionante rubrica d’opinione, “La Stanza”, in cui, guarda caso, amava definire la sua voce “fuori dal coro”. Se non sempre la sua preparazione letteraria era, secondo i nostri gusti, di prima qualità, egli rimane, senza alcun dubbio, come osservatore della realtà politica e sociale, non solo italiana, ma europea e mondiale, degli ultimi cinquant’anni, assolutamente impareggiabile, e il suo stile accattivante e unico. Merito precipuo della sua rubrica fu quello di essere aperta alla collaborazione non solo e non tanto di rappresentanti del mondo accademico (benvenuti, quando mettano al primo posto fra i loro interessi quello di onorare la cultura e la ricerca della verità), ma anche di persone che, a insindacabile giudizio del curatore, avessero, su determinate questioni, qualcosa di condivisibile e interessante da proporre e da dire. Questo è un po’ il segreto di chi voglia fare del giornalismo culturale vivo e efficiente. Ma ahimé le cose oggi sono molto cambiate. Oggi non s’intende più correre il rischio che qualche collaboratore, oltre che il direttore, possa avere una voce fuori dal coro. Meglio disporre d’una fidata cerchia di sostenitori, poco ricambiabile, che anche quando sembri contestare in realtà approva, e che soprattutto non abbia la testa troppo carica di contenuti originali; non è “trendy”, non è “correct”. In fondo la verità ognuno se la interpreta come vuole; compito del potere non è tanto omologare il pensiero, quanto la volontà, le volontà, che tutte si uniformino ad una comune ricerca: il benessere. Ora ci sembra che, grossomodo, le rubriche di lettere al “Corriere” succedute a quella di Montanelli, prima a Paolo Mieli e poi a Sergio Romano, rispondano a questi criteri d’impostazione. Si ha voglia, talora, a sentirsi stimolati dall’interesse per certi argomenti; se non si fa parte del “beato coro” delle sempre ricorrenti otto o dieci firme, si può proporre quel che si vuole. A somiglianza dei due oscuri convitati di don Rodrigo, ci vien voglia di ricordare, i quali non facevano che mangiare, sorridere, e chinare il capo a tutto ciò che dicessero gli altri commensali, questi signori-firme, nonostante ambiscano a dire molto, in realtà non dicono niente neanche loro. Pur con tutte quelle lettere, sinceramente nel complesso abbastanza scialbe, o comune lettore, la rubrica non avrà mai… posto per te. Non si sarà mai in possesso delle competenze necessarie per pronunciarsi. Ciò, naturalmente, a insindacabile giudizio del curatore. Solo come modesta prova di quanto rilevato, alleghiamo alla presente una lettera spedita ormai da tempo alla rubrica del “Corriere”; un nostro intervento in merito alla questione, invero attuale, di “Uso e abuso della lingua inglese”, questione che da allora (2004) periodicamente si ripropone. Confidiamo nella comprensione dei pochi lettori interessati, ricordando che per noi il vero non è l’utile, come si potrebbe dire parafrasando Keats, ma spesso proprio ciò che si fa più fatica ad ammettere.

Claudio Angelini (Jero)

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LETTERA

Caro Mieli,
credo d’avere qualche titolo per pronunciarmi in merito alla questione sulla lingua inglese. Mi sono laureato con Mario Praz alla Sapienza nel 1964 con una tesi su Shakespeare, scrivo di letteratura e filosofia sull’Osservatore Romano, sono autore d’una dozzina di pubblicazioni, e ho tradotto, spesso isometricamente, da Shakespeare, Blake, Shelley, Keats, Poe (
www.claudiojangelini.altervista.org per chi volesse avere un’idea di questi lavori). Condivido in buona parte l’opinione di Mauro della Porta Raffo, e leggendo fra le lettere al Corriere del 18-3-04 la definizione che la signora Janet Butler dà della lingua d’Albione, “la magnifica lingua inglese”, non ho potuto reprimere un sorriso.
Tutto tranne che quello! Adatta alla concisione, rapidità, efficienza d’un mondo tecnologizzato, quella lingua può certamente dirsi, proprio per la sua “ingenita” natura, ibrida, composita, posticcia. Se a qualcuno poi piace…
E’ noto che per l’espressione dotta l’inglese, la quale era in origine lingua rozza e poverissima (ne sia prova ancora oggi il fatto che quasi ogni suo vocabolo sassone ammette d’esser tradotto in gran quantità d’accezioni), fu poco meno che composta a tavolino dagli umanisti del 400, su modelli del latino, del francese e dell’italiano. Vera lingua artificiale, dunque, nata dalla giustapposizione (e spesso stridente contrapposizione) di radici sassoni, latine, e di un po’ tutte le lingue del mondo; lingua più virtuale, sulla carta, che reale, in quanto nei lessici ufficiali tende a svolgersi in tutta la gamma potenziale e possibile dei suoi prefissi e suffissi, col risultato spesso di creare parole goffe ed inutili, senza rispetto d’eufonia, di gusto, di misura. Conseguenza ancor più sorprendente di quanto detto è che la lingua inglese è dotata a volte di voci latine rare che nelle lingue neolatine autentiche non sono spontaneamente evolute in vocaboli correnti, e che dall’inglese vengono poi in quelle reimmesse. Lingua infine, l’inglese (ed è questa l’argomentazione più probante), che non ha mai posseduto una vera e propria Accademia (si considerino tutte le Accademie della lingua italiana, francese, spagnola!), perché suo unico compito sarebbe stato, ritengo, quello di disfarsi in toto del “prodotto” da salvaguardare, come dice con acre ironia Heine nei “Reisebilder”. Ce n’è quanto basta, credo, per sostenere che tale lingua, fra le cinque o sei europee più blasonate, o di più alta tradizione culturale, è decisamente la più brutta, asimmetrica, estemporanea, ecc. E tuttavia io ho amato alla follia taluni suoi poeti, Shakespeare, Shelley, Keats soprattutto, grandi nonostante il loro mezzo espressivo. Se le mie affermazioni risultassero poco “correct” o con “sapor di forte agrume” per qualcuno, mi consola fra le numerose altre la compagnia d’un insigne letterato del nostro Novecento, Libero de Libero, il quale, innamorato (con ragione) della lingua francese, si rifiutò sempre di tradurre poesia dall’inglese, considerandola una lingua troppo “barbara”.

Claudio Angelini (Jero)
e-mail: cla.ang@gmail.com

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