UNO SGUARDO SULLA VITA E L’OPERA DEL POETA NEL 140° ANNIVERSARIO DELLA MORTE
di Claudio Angelini
La parte moralmente più discutibile, e certamente più caduca della produzione poetica di Charles Baudelaire, è quella che gli viene dall’ultimo romanticismo, e il suo corredo d’orrori e dissipazioni, come indica Mario Praz nel suo famoso saggio “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica” Sansoni 1930, e come è evidente in certe liriche, quali “La metamorfosi del vampiro”, ecc. Ma in Baudelaire c’è già un’ansia di superamento, la coscienza della necessità di passare a un’epoca culturalmente nuova, dagli orizzonti più ampi, in senso umano e artistico. Non per nulla il nostro poeta fu anche un acuto critico, non militante alla Sainte-Beuve, con cui ebbe peraltro frequenti contatti, ma osservatore attento che commentava fatti culturali e di costume del suo tempo. Si sentì fratello spirituale di E.A.Poe, di cui tradusse l’opera, ma probabilmente quel lavoro segnò una svolta, nella sua maniera romantica. Certamente lo affascinava, di quel movimento, l’indagine sugli aspetti oscuri, morbosi e insospettati della psiche umana, donde il suo interesse per il narratore americano; ma allo stesso tempo il poeta francese cominciò ad appassionarsi a Wagner, che allora andava emergendo (ascoltò a Parigi, negli anni 50, la prima esecuzione dell’”ouverture” del Lohengrin, e ne rimase conquistato). E Wagner rappresentava l’esigenza d’estendere i confini romantici verso nuovi contenuti, e verso una progressiva dissoluzione della forma tradizionale. Uno dei tratti che più caratterizzano la poesia di Baudelaire è la lotta tra Spleen e Ideale, anch’essa di derivazione romantica; con la differenza però che la lotta nel romanticismo era fra reale e ideale, vale a dire fra entità molto oggettive, come libertà-giustizia, oppressione-assolutismo. In Baudelaire l’ideale non è ben definito, è qualcosa di puro, di nobile, di spirituale cui cerca d’elevarsi l’animo, senza riuscirvi. E’ insomma l’opposto dello spleen, quest’ultimo significando l’ipocondria, la noia, il male di vivere, la coscienza del degrado morale di cui l’uomo cerca invano di purificarsi: “Quando il cielo s’abbassa grave come un coperchio/ sull’animo, prostrato dal tedio in lunghe lotte/ e in tutto l’orizzonte, abbracciandone il cerchio/ riversa un lume opaco, più triste della notte…/” (Da “Spleen” 4) Di tale atteggiamento psicologico si può ben dire che Baudelaire sia, in epoca moderna, lo scopritore, colui che per primo poeticamente lo osserva e descrive. Nella lirica introduttiva ai “Fiori del male”, “Al lettore” è già presente “in nuce” tutto questo; il lettore è detto “ipocrita, fratello” perché, come l’autore, sempre pronto a trovare un alibi alla sua pigrizia, alla sua incapacità di sollevarsi dal vizio, dai piaceri, in cui la pochezza d’animo lo ha sprofondato. Baudelaire cerca sempre, notiamo per inciso, di coinvolgere il lettore, di renderselo complice; la poesia ermetica, che verrà dopo e che per tanti aspetti si ricollega all’esperienza artistica del poeta francese, è invece selettiva, si rivolge a un pubblico d’élite, cerca cioè un’aristocrazia della forma, illudendosi così d’attingere una sfera esteticamente più alta. Comunque, questa ricerca di complicità è già in Baudelaire un tentativo di superare il romanticismo più convenzionale, è segno d’una diversa condizione spirituale, morale, culturale. Da essa nasce la poesia delle “Correspondances”, cioè dell’immaginazione e della ragione che non turbano né si lasciano turbare dalla natura, ma semmai, stabilendo con essa un rapporto di affinità, ne ricompongono quasi un segreto ordine: “E’ la natura un tempio con colonne viventi/ da cui talora giungono dei bisbigli confusi;/ l’uomo passa attraverso selve di segni astrusi/ che osservano con occhi familiari ed attenti./” (Da “Corrispondenze”). Ma Baudelaire aveva un vero, drammatico alibi alla sua malinconia, al suo fastidio per il mondo, che si portava dentro senza mai esprimerlo direttamente. Era il grave dolore che gli aveva procurato la madre quando, rimasta vedova, si risposò col colonnello Aupick (non per nulla il poeta si compiaceva di paragonarsi ad Amleto), uniformandosi a poco a poco alla volontà di quello e riservando al figlio sempre meno affetto e comprensione. Charles preveniva e irrideva con gli atteggiamenti più stravaganti il disprezzo del patrigno, che voleva imbrigliare il risentimento del figliastro in una rigida e perbenista educazione borghese. Il giovane poeta ora si dava a un bizzarro dandismo, ora a comportamenti antisociali, ora ad amorazzi con donne equivoche, volto però alla ricerca d’un amore e d’una donna ideali, che non trovò mai. L’uomo che in campo politico, sentimentale, artistico non abbia saputo, o potuto realizzare una sua qualche aspirazione, e che non sia sostenuto da una fede profonda, è le più volte destinato a crogiolarsi nel nulla, nell’ignavia, negli aspetti più torbidi dell’esistenza che con le sue spietate leggi lo avviluppa e comprime. Di questo Baudelaire era ben consapevole. E al riguardo è utile ricordare che la formazione del poeta affonda le radici oltre che nella cultura classico-romantica, anche in quella più tipicamente francese della “clarté” razionalista e illuminista. Egli aveva amato i tragici del 600, Racine, Corneille, e Pascal, che col suo pensiero aveva su di lui potentemente influito. A Baudelaire venne da ciò un culto spiccato per l’espressione formale, che in lui spesso è sensuosa, pregnante, ma non per questo meno incisiva, e talora folgorante come una rivelazione. Questo è uno dei segreti della sua poetica, l’esser andato oltre il cosiddetto “vago” romantico, per approdare a una parola pura ed elegante ma allo stesso tempo precisa e delineata, caratteristica questa che lo rese, com’è noto, caro ai parnassiani. Ma se per i romantici la natura era fonte inesauribile d’ispirazione e contemplazione, per gli illuministi e i sensisti essa era la dimensione della materia informe, su cui si esercita l’intelligenza dell’uomo, che però sempre di materia è fatta; si ricordino Helvétius e Holbach. Pascal invece, sulla scorta di Cartesio, aveva detto che l’uomo può, e deve, conoscere le verità contenute nella natura, nell’universo, ma che a tal fine la razionalità, l’esprit de géométrie, è insufficiente. Ci si può avvicinare a Dio solo con l’esprit de finesse, cioè col cuore, che può dare un senso anche a ciò che in apparenza non ha alcun senso. Ecco allora il rapporto ambiguo di Baudelaire con la natura, che pure rimane il grande stimolo dell’immaginazione, e dell’ispirazione. C’è in lui un desiderio continuo di coglierne i segreti, di scandagliarla a fondo (si ricordi Poe), ma anche di superarla, di andare oltre ad essa e quello che è il suo disordine, il suo caos, di cui immagini eloquenti sono il ”vegetale irregolare” (si veda “Il sogno parigino”), e la donna, equiparata a mero istinto primordiale: “Di quel paesaggio immane/ che mai non vide occhio mortale/ l’immagine ancora, stamane,/ lontana e indistinta, m’assale./ Il sonno è pieno di miracoli!/ Per un capriccio singolare/ bandivo da quegli spettacoli/ il vegetale irregolare/ e con superba maestria/ dipingere di più mi piacque/ l’inebriante monotonia/ di metalli, di marmi e d’acque./ “ (Da “Sogno parigino”) Se l’uomo si lascia prendere dal cieco meccanismo della natura, vi perde le sue migliori energie, sempre più tormentato dalla ricerca del piacere, provocata dalla noia, dallo spleen. E la scienza? E la modernità? E la grande città? Non è stata, quest’ultima, ideata, concepita per venire incontro alle esigenze dell’uomo? La scienza, allargando i confini del mondo, ha solo acuito la tendenza dell’animo umano a voluttà nuove (si veda “Il viaggio”), facilitando anzi l’oppressione del più forte a danno del più debole, che non di rado si sente defraudato proprio del suo diritto al piacere. “… Versaci il tuo veleno, che ci sprona e conforta!/ Vogliamo, tanto avvampa l’animo e ogni suo moto/ immergerci nel baratro, cielo o inferno, che importa?/ Per trovare del nuovo nel fondo dell’Ignoto!”/ (Da “Il viaggio”) Insomma la vita moderna appare a Baudelaire una lotta per la sopravvivenza, ma, in una metropoli come Parigi, più ancora una lotta per la comodità, il capriccio, la distrazione d’un giorno, una lotta di tutti contro tutti, in cui vince colui che ha meno scrupoli, e che meglio sa servirsi degli altri. Baudelaire non conobbe né Nietzsche né Darwin né Poincaré, ma a volte in ciò che dice s’avverte come un presagio delle loro idee; egli come poeta non aspira a elaborare nessuna teoria filosofica o sociale, ma certo, prendendo visione della realtà, continuamente la interpreta. Il colonialismo della seconda metà dell’800 aveva realizzato i mezzi d’oppressione e sterminio d’intere popolazioni. Il poeta Rimbaud che, giovanissimo, aveva mosso una critica spietata alla ipocrita mentalità borghese, basata solo sul profitto, finì poi col fare il trafficante d’armi e di schiavi in Africa. Baudelaire, figura come abbiamo visto di dandy nella Parigi Secondo Impero di Napoleone III, non visse una contraddizione paragonabile a quella di Rimbaud. Egli non accusava soltanto la società borghese; la sua critica era trasversale, interclassista, perché denunciava l’ipocrisia, la depravazione umana (pur facendone parte) in qualunque strato sociale si nascondesse. Anche perché il Nostro era soprattutto un esteta, nel senso più ampio del termine, e trasgressivo più per spirito di rivolta che per intima convinzione. La moderna metropoli diventa allora nella sua opera l’ambito in cui ogni sopraffazione è possibile, in cui si attua ogni manifestazione dell’essere, dalla più nobile alla più bruta, lo spazio in cui l’esistenza ha due volti, uno reale, di ciò che è, e uno per così dire virtuale, di ciò che poteva essere e non è stato. In ogni caso è il luogo dove sono tutti, e dove ciascuno è solo. Il denaro, se ne deduce, per Baudelaire (là dove non assecondi soltanto la voglia d’ostentazione) deve avere giusto valore e significato, anche sul piano etico; quello di consentire a una sensibilità d’artista d’indagare nelle regioni della psiche, cui corrispondono altrettanti aspetti della natura e del mondo. Benché talvolta compiaciutamene esteriori, i suoi atteggiamenti non furono mai del tutto vacui; per lui l’eleganza, il gusto estetico, il bello svolgevano un ruolo primario nel riscatto dell’uomo dalla bassezza, dalla miseria morale. Il poeta dunque, dedito tra l’altro, com’è noto, all’oppio e alle droghe, un po’ per noia e un po’ perché estremamente curioso delle reazioni del cervello a determinati stimoli, visse in sé stesso tutte queste contraddizioni senza mai riuscire a comporle, anche per la sua fine prematura. Morì infatti a 46 anni. Significativamente lo affascinava una figura della letteratura italiana, Torquato Tasso, in cui i conflitti psicologici profondi non ebbero mai soluzione. Baudelaire amava un quadro del Delacroix raffigurante il Tasso in prigione; in esso il poeta italiano diviene il simbolo, come fu per altri artisti (Goethe, Liszt) del conflitto insanabile fra sogno e realtà. “Questo genio rinchiuso in un covile orrendo…/ questo è il tuo emblema, o Anima di vani sogni oscura,/ la realtà ti schiaccia fra le sue quattro mura!/” (Da “Il Tasso in prigione”) Le contraddizioni presenti nell’animo di Baudelaire configurano in ogni caso nuove prospettive, artistiche, culturali, politiche, che nel secolo XX giungeranno a compimento, verranno studiate e analizzate (si veda Freud) e si elaboreranno su di esse sistemi e teorie atti a smussarne gli aspetti più contrastanti. Ma inesorabilmente conseguiranno, da concezioni etiche e sociali inconciliabili, blocchi antitetici di pensiero e d’azione destinati infine a sfociare in due terribili conflitti mondiali. In essi si scontreranno infatti da un lato gli ultimi residui del potere e del pensiero aristocratico e assolutistico europeo con, dall’altro, le esigenze di masse e di intere etnie ignorate per secoli. Sintomatico l’insorgere, in tale contesto, d’un’ideologia naturalistica e pagana come quella nazista. Alla fine del secolo scorso la scienza ha ulteriormente allargato i confini del mondo, creando la sensazione del cosiddetto villaggio globale. Ma mettendo in comunicazione sterminate moltitudini umane ha spesso soltanto evidenziato l’enorme divario economico, culturale, civile esistente fra nazione e nazione. E, per tornare a Baudelaire, che cosa auspica, il poeta, che cosa propone, in che cosa crede? Facendo una sommaria valutazione della sua concezione politica e delle sue convinzioni religiose, bisogna ammettere che i comportamenti del Nostro sono sempre in sostanza quelli d’un conservatore, d’un uomo che non è incline a diatribe di parte ma che per nascita e formazione segue il flusso d’idee tipico della sua classe sociale, che è quella d’un alto borghese più o meno ancora legato all’ “ancien régime”. Importante è però notare che egli giudica gli individui non col metro dell’ideologia, ma caso per caso, in ragione del contenuto morale delle loro azioni, dai potenti agli emarginati. Se è vero che il poeta prese parte nel 1848 ai moti che sconvolsero Parigi quando fu rovesciato il potere di Luigi Filippo d’Orléans, è quasi certo che il suo gesto fu dovuto solo a un desiderio generico di trasgressione; pare che sulle barricate egli gridasse: “Bisogna andare a fucilare il generale Aupick!” Tutte le sue incongruenze comunque tendono a trovare una soluzione, più inconscia che reale, in taluni ricorrenti modi della sua psiche, che anche al più accanito critico di parte risulterebbe impossibile negare, o ignorare. Il primo da prendere in considerazione è questo: è inevitabile, sembra dire spesso il poeta, cadere nel vizio, ma la più grande virtù dell’uomo è forse quella di liberarsi dal vizio; solo chi conosce l’abiezione del vizio sa quanto sia difficile, e nobile, venirne fuori; si veda la conclusione della poesia “I fari”: “Poiché nessuna prova più certa si può apporre/ che la dignità nostra indichi a Voi, Signore,/ di questo ardente rantolo, che ogni epoca trascorre/ e che lungo le rive del Vostro eterno, muore!” (Da “I fari”) Del resto, nella lunga lirica “Il viaggio” Baudelaire, parlando dell’inesauribile inclinazione alla dissolutezza, non descrive tanto un suo punto di vista, quanto quello dell’umanità malata. L’ideale dell’autore dei “Fiori del male”, da saper individuare come altro suo frequente atteggiamento psicologico, è infatti quello di far coincidere il bello estetico col bello morale; si veda ancora la conclusione dei “Fari”, o d’una lirica molto rivelatrice come “Il cigno”: “Penso…/ a chi perde qualcosa che non ritrova mai,/ mai! Penso a chi s’abbevera di lacrime, nutrito,/ come da buona lupa, di dolore e di guai,/ agli orfanelli, pallidi come un fiore appassito!/… ai derelitti su un isolotto ignudo,/ ai prigionieri, ai vinti! Ed a tanti altri ancora!/ (Da “Il cigno”) E’ un cammino al limite delle capacità umane, e quasi sempre Satana ritrascina l’uomo nel fango. Ma per quanto la sostanza del cristianesimo non sempre sia chiara a Baudelaire, non è arduo intravedere che in lui il vero bello morale, quello che egli auspica come meta lontana per l’umanità, è l’avvento nella storia d’un principio trascendente, che si identifica con un Dio benigno, che ama le sue creature. Si vedano, nella lirica “Benedizione”, i versi giustamente famosi: “Sii benedetto, o Dio, che dai la sofferenza / come rimedio sacro ad ogni impurità / e come la migliore e la più pura essenza / che preannuncia ai forti le sante voluttà./ (Da “Benedizione”)
Come è stato detto, “I fiori del male” non sono solo un viaggio d’esperienza nella depravazione umana; il poeta lancia continuamente un appassionato grido verso l’alto, perché l’uomo si redima. Baudelaire non era un cinico; credeva nei sentimenti più dignitosi dell’uomo, e nella capacità catartica del dolore, perché sinceramente sentiva l’essere umano come un angelo decaduto, degno più di pietà che di disprezzo. Ma ammetteva egli l’esistenza del Dio dei cristiani, d’un Dio onnipotente? Iddio guardato solo come padre, bisogna riconoscere, fa spesso in lui l’effetto, evoca la figura d’un tiranno, che si compiace delle sofferenze dei suoi sudditi. Nella poesia “Il rinnegamento di San Pietro” è impossibile non vedere analogie fra il Dio biblico cristiano come è presentato da Baudelaire, despota dedito ai piaceri e sordo a ogni invocazione d’aiuto degli afflitti, e certe raffigurazioni classico-romantiche di Zeus che condanna Prometeo all’eterno tormento, dovute a poeti quali Goethe o Shelley. Oppure, crediamo, aggiungendo a quanto detto sopra una piccola dose di psicanalisi, si potrebbe scorgere adombrato nella figura dell’onnipotente tiranno l’odioso patrigno Aupick, insensibile a ogni esigenza d’affetto del giovane orfano. In tal modo il tragediografo presente all’immaginazione di Baudelaire torna ad essere Shakespeare col suo “Amleto”, che detesta il patrigno Claudio e diffida della madre, probabile complice nell’assassinio. Il poeta francese avverte invece fortissimo il fascino di Gesù Cristo, mite e gentile, che offre se stesso in sacrificio per la redenzione dei peccati. Proprio l’immagine di quell’uomo, che si diceva figlio di Dio, conficcato a una croce è una suggestione continua per il nostro poeta, costernato dallo spettacolo squallido dell’umanità in preda al vizio, che rinnega tutte le cose più belle e più pure pur di conseguire il proprio tornaconto, e quindi per primo Gesù, il più mite fra gli dei, come ora lo chiama. Se prima, aveva detto Baudelaire, San Pietro aveva fatto bene a rinnegare Gesù, nella stupenda lirica “L’esame di mezzanotte” il poeta giunge ad affermare che rinnegare Gesù e gozzovigliare rotolandosi nell’infamia e nelle tenebre è in pratica la stessa cosa. “… per compiacere il Bruto, il traditore/ degno schiavo di Satana, insultammo/ tutto quello che amiamo, ed adulammo/ invece tutto ciò che ci fa orrore./” (Da “L’esame di mezzanotte”)
E che cos’è, infine, nel nostro poeta, quella tendenza, da non molti rilevata, quella sorta di nostalgia verso uno stato d’incoscienza prenatale, che di quando in quando affiora nella sua opera? Cos’è quella sorta d’anelito, dovuto anche all’uso di droga, a uno stato di perfezione geometrica, come diceva Pascal, da Baudelaire tanto ammirato, delle cose e delle stesse idee, incompatibile con la “natura naturata”, per così dire? L’esprit de géométrie, che conviveva nel poeta insieme all’esprit de finesse in una singolare “coincidentia oppositorum”, sembra a volte prendergli la mano, di fronte alla miseria e sofferenza dell’uomo. E allora egli pare che aspiri a qualcosa di assolutamente razionale e perfetto, non inquinato dal caos, dall’irregolarità materiale, dalla fatica stessa del vivere. E’ quanto si coglie nella celebre lirica “Sogno parigino”, in cui il poeta mostra di essere attratto da una realtà immateriale, disincarnata, geometrica quindi, dove predomini l’essenza lucida e simmetrica della linea, retta per la maggior parte, ma anche curva, in una serie di creazioni fantastiche e razionali ad un tempo. “Babele di scale e d’arcate,/ s’apriva un palazzo infinito;/ intorno, bacini e cascate/ croscianti nell’oro brunito,/ e poi cateratte pesanti,/ come cortine di cristallo,/ stavano appese, abbaglianti, / a vaste mura di metallo./” (Da “Sogno parigino”) E’ una specie di tensione mistica a una condizione di pre-esistenza, a una stasi psicologica anteriore a ogni esperienza umana; insomma una nuova apertura estetica, oltre che etica, che avrà su tutta l’arte successiva, poetica e plastica, delle ripercussioni enormi. Sposterà sempre più l’artista verso lo studio del subcosciente, in letteratura, e nella pittura condurrà all’espressione astratta e surreale. Ma anche quest’anelito a percepire una realtà soprasensibile, suggerisce il poeta ne “Il sogno d’un curioso”, in cui affronta il tema arcano di come la vita possa proseguire dopo la fine dell’individuo, rischia di deludere, perché sarebbe stato meglio per l’uomo non incarnarsi mai. Egli avrebbe dovuto al più, dice Baudelaire, restare con animo di fanciullo avido di spettacolo, in una attesa indefinita, oppure dimorare per sempre fra gli esseri e i numeri, paragonabili alle idee platoniche. Ma l’esperienza fatta nella vita sensibile non può ormai che condizionarlo per l’eternità. Si è quasi tentati di dire che Baudelaire fosse un esistenzialista senza sapere di esserlo, uno per il quale lo stadio estetico, per usare i termini di Kierkegaard, non si è ancora concluso, ma che sembra abbia urgenza d’entrare nello stadio etico. E tuttavia il poeta non fu, né poteva essere, un filosofo. Nutrito di classicità, egli cercherà tutt’al più di conciliare Platone, per il quale l’uomo è un’idea, con Sofocle, per il quale l’uomo farebbe meglio a non nascere, a restare idea, appunto. E ancora, Baudelaire proverà a rendere compatibile la razionalità pascaliana e illuminista, per cui la dignità umana è nell’animo e nell’intelletto, con i migliori sentimenti romantici, quali la pietà, la giustizia, la solidarietà. Forse la coscienza del poeta non ha saputo prendere un partito preciso, nel dilemma fra materia e spirito, né sarebbe la prima volta, nella storia letteraria; si ricordino Petrarca e Tasso. Ma aver saputo indicare, sotto l’apparente estetismo, tale dilemma con tanta drammaticità non è forse merito da poco. Tutti, chi più chi meno, siamo concordi nel proporre i valori dello spirito come mezzo per superare i problemi gravi dell’umanità. Ma quali ne sono le forme, o i modelli d’attuazione, alla luce degli ultimi eventi verificatisi nel mondo? Questa è la sfida per il futuro, che tutti ci coinvolge. Una cosa è certa; l’uomo deve imparare a comprendere sempre meglio le esigenze d’ogni altro uomo, e dare un suo contributo alla causa dell’avvicinamento dei popoli, all’ideale della solidarietà. Nessuno può restare isolato. E qui Baudelaire è stato chiaro; l’arte svolge in tal senso un ruolo fondamentale, e la solidarietà umana è, e sarà sempre, la suprema speranza del mondo:
“Anima mia, concentrati, in quest’attimo austero/ e chiudi le tue orecchie al chiasso lusinghiero./ E’ l’ora in cui ai malati le pene s’inaspriscono!/ La fosca notte al collo li ghermisce, e finiscono/ nel gorgo dove andremo prima o poi tutti quanti;/ l’ospedale trabocca di sospiri e di pianti/ Molti non cercheranno più la zuppa odorosa/ presso il fuoco, la sera, da una mano amorosa./ E quanti, fra di loro, non hanno conosciuto/ mai dolcezza di casa, non hanno mai vissuto! / (Da: “Il crepuscolo della sera”)
Claudio Angelini
http://www.claudioangelini.it
NB.: Le traduzioni dei brani poetici riportati sono di Claudio Angelini, parte edite (tratte dal volume: “Trenta traduzioni dalle Fleurs du Mal di Charles Baudelaire” Pagine editore. Roma 2001), e parte inedite.
Tutti i diritti sono riservati all’autore: non è consentita copia e uso dei testi sotto qualsiasi forma senza autorizzazione
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