Francesca Santucci

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 QUANTO PIACE AL MONDO E’ BREVE SOGNO

la vanità, il tempo, l’amore, la morte

Presentazione di Eleonora Bellini

In copertina Aniello Scotto, IMAGO, olio su tela.

www.kimerik.it

NOTA DELL’AUTRICE
Niente dura per sempre! Nemmeno l’amore, nemmeno l’arte, terribili illusioni (di cui tanto abbiamo bisogno) che, similmente, infiammano e bruciano, sono più forti della morte, che per tutti arriva, nel modo più vario, più crudele, più immondo, più inaspettato. Possiamo drammaticamente prefigurarla, cristianamente accettarla, fantasticarla, irriderla, anche sfidarla, ma poi, sempre, quella, viene, vittoriosa, ad annientare.
E’ la Vanitas che assomma e compendia in sé il senso di questo lavoro. “Oggetto” parlante, iI teschio ci ricorda che tutto, poi, è sottoposto al democratico livellatore turbinio della morte, e vani, vuoti e temporanei sono l’esistenza e i nostri desideri e i trionfi e le glorie. Tutto ciò che siamo più non sarà, tutto è fumo, vapore, bolla d’aria…
Il Tempo trionfa sulla Vita, sulla Vita trionfa la Morte, perciò quanto piace al mondo è breve sogno.

Su Youtube: http://www.youtube.com

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IL FLAGELLO DELLA PESTE

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 QUANTO PIACE AL MONDO E’ BREVE SOGNO
Matthias Grünewald, Tentazioni di Sant’Antonio (part.)

Bone Jhesu, ubi eras, quare non affuisti ut sanares vulnera mea?
Buon Gesù, dov’eri, perché non mi soccorresti per sanare le mie ferite?
(Sant’Anastasio, vescovo di Alessandria)

Il termine “peste”, dal latino pestis, “distruzione” (derivante dalla stessa radice di peius, “peggiore”, o, forse, da quella indoeuropea antichissima, ped, pes, “soffiare”) che per lungo tempo ha indicato l’epidemia o “malattia peggiore”, diversa a seconda delle epoche e che, nel tardo Medioevo, indicava soltanto l’infezione che ancora oggi chiamiamo peste (fortunatamente quasi del tutto scomparsa), in realtà definisce una malattia, dei ratti e di alcuni roditori selvatici, più precisamente del ratto indiano, nutrito di suoi simili infetti, veicolata dalla loro pulce (abitanti del sottosuolo, i topi furono considerati negativamente già nella Bibbia, ritenuti esseri infausti, ostili all’uomo, dalle facoltà demoniache in quanto propagatori del morbo, nell’immaginario collettivo odiati anche per la capacità di infestare e mangiare le provviste perciò, probabilmente, come immagine del diavolo divoratore, nell’iconografia raffigurati intenti a rodere le radici dell’albero della vita). Abbandonato l’animale morto, il parassita trasmette, poi, il male all’uomo, inoculandogli con il morso il bacillo e dando così origine all’epidemia.
Si ha notizia di epidemie e carestie che seminarono lutti e distruzione in tutti i secoli della storia, ma fu la peste uno dei morbi più temuti del passato, considerata un castigo di Dio, in realtà opera del nefasto trio (un minuscolo bacillo, il ratto nero e la pulce), ad essere responsabile del drammatico evento collettivo che per secoli causò dolore e morte, imperversando in Europa con ondate numerose e cicliche, che si diffuse anche grazie alle errate teorie mediche e ai rimedi inefficaci e, talvolta, persino nocivi, perché raramente i medici comprendevano la natura contagiosa del male, che non si accordava con la teoria dell’aria infetta da molti avanzata.
Nota da almeno 3000 anni (ne parla già la Bibbia, nell’Esodo, nel Deuteronomio e nei Paralipomeni nell’Antico Testamento, l’Apocalisse nel Nuovo Testamento), interpretata come espressione della volontà divina, castigo per le colpe degli uomini, ampia spiegazione ne è offerta nel “Primo libro di Samuele”, dove si racconta di come Dio abbia inviato una pestilenza ai Filistei, colpevoli di aver rubato l’Arca dell’Alleanza ebraica: secondo gli studiosi si tratterebbe di peste bubbonica verificatasi nel 1030 a.C. o, secondo altre fonti, nel 1076 a.C.

[…] Ma ecco, dopo che l’ebbero trasportata, la mano del Signore si fece sentire sulla città con terrore molto grande, colpendo gli abitanti della città dal più piccolo al più grande e provocando loro bubboni. Allora mandarono l’arca di Dio ad Accaron; ma all’arrivo dell’arca di Dio ad Accaron i cittadini protestarono: “Mi hanno portato qui l’arca del Dio d’Israele, per far morire me e il mio popolo!”. Fatti perciò radunare tutti i capi dei Filistei, dissero: “Mandate via l’arca del Dio d’Israele!”. Infatti si era diffuso un terrore mortale in tutta la città, perché la mano di Dio era molto pesante. Quelli che non morivano erano colpiti da bubboni e i lamenti della città salivano al cielo.

(Primo libro di Samuele, 5, 11)

Anche il mondo greco conobbe la peste, che pure per gli uomini del tempo era la punizione per le trasgressioni alle leggi divine (non per i medici, però, che la attribuivano ai miasmi, cioè all’aria malsana); famosa è quella che colpì Atene del 430 a.C., un anno dopo l’inizio della guerra del Peloponneso, che vide schierarsi da una parte la democratica Atene e la sua confederazione e, dall’altra, l’autocratica Sparta e i suoi alleati del Peloponneso. Atene entrò in guerra con la certezza di un rapido successo, ma non poteva prevedere il diffondersi di una terribile pestilenza che avrebbe decimato la popolazione, lacerando il tessuto stesso della società e falciando anche Pericle, l’uomo politico che aveva voluto il conflitto.
L’epidemia arrivò, forse, dall’Etiopia e tormentò anche la Persia e l’Egitto prima di arrivare in Grecia, mentre imperversava la guerra ed Atene era sotto assedio, in condizioni igienico-sanitarie molto scarse. I primi casi si verificarono al Pireo, ma l’epidemia si estese in un baleno in un’Atene già sovraffollata, e gli Ateniesi pensarono che fossero stati i Peloponnesii ad importarla avvelenando i pozzi della città; nonostante le cure dei medici e dei sacerdoti, alto fu il numero delle le vittime, tra cui per primi gli stessi medici che, scoraggiati dalla virulenza del male, sconfortati, avevano abbandonato ogni cura.
A raccontarla esattamente, con diversi accenti, sono qui tre grandi dell’antichità: lo storico greco Tucidide (in un resoconto che per secoli sarebbe rimasto un modello di diagnosi medica, denso di particolari strazianti, del decorso di un morbo che egli stesso contrasse e superò), il poeta e filosofo latino Lucrezio e il poeta latino Ovidio.

[…] …erano presi improvvisamente, senza nessuna ragione, mentre godevano perfetta salute, innanzitutto da forti calori alla testa e da arrossamenti e da bruciori agli occhi: le parti interne, cioè la gola e la lingua, subito erano di color sanguigno ed emettevano un fiato strano e fetido. Infine, dopo questi fenomeni, sorgevano starnuti e raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto assieme a una forte tosse; e quando si fissava nella bocca dello stomaco, vi produceva convulsioni, mentre sopravvenivano svuotamenti di bile di tutti quei generi nominati dai medici, e per giunta con forti dolori. Ai più capitava un singhiozzo con vani sforzi di vomito che dava violente convulsioni, le quali poi diminuivano negli uni dopo il cessare del singhiozzo, negli altri anche molto tempo dopo. E il corpo, a toccarsi esteriormente, non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; le parti interne ardevano a tal punto da non poter sopportare il rivestimento di vesti leggere o di lini, né altro che non fosse l’andar nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda. E molte persone non curate facevano questo, gettandosi nei pozzi, rese da sete insaziabile; tuttavia il bere molto o poco dava lo stesso risultato. E continuamente li tormentavano la difficoltà di riposare e l’insonnia, mentre il corpo, tutto il tempo in cui il morbo raggiungeva il culmine della violenza, non si consumava, ma inaspettatamente resisteva al tormento, sì che per la maggior parte moriva dopo nove o sette giorni per l’ardore interno, ancora in possesso di qualche forza; oppure, se scampavano, con lo scendere della malattia negli intestini, e col prodursi di una forte ulcerazione e il sopraggiungere di una diarrea violenta, i più morivano in seguito, sfiniti per questa ragione. Percorreva infatti tutto il corpo, a partire dall’alto, il male, il quale dapprima si era localizzato nella testa, e se uno scampava dai casi più gravi, ciò era indicato dalle affezioni che il morbo aveva arrecato alle sue estremità. Invadeva infatti i genitali e le estremità dei piedi e delle mani; e molti si salvarono con la perdita di queste parti, alcuni anche degli occhi. Altri, guariti, erano presi subito da dimenticanza di ogni cosa, e non riconoscevano se stessi o i loro congiunti.

(Tucidide, La guerra del Peloponneso, 2, 48-50)

Dopo aver già passato in rassegna, offrendone una spiegazione scientifica, le grandi calamità naturali (fulmini, vulcani, etc.), nel sesto libro del De rerum natura Lucrezio, pervenuto alla trattazione dell’origine e della natura delle epidemie, che gli antichi credevano inviate dagli dei, si sofferma sulla descrizione della peste che colpì gli Ateniesi nel 430 a. C, seguendo in alcuni passaggi molto da vicino la celebre descrizione scarna ed asciutta che del fenomeno diede Tucidide, esasperandone il distacco nel dilatarsi allucinato delle notazioni fisiche e psicologiche (la peste che colpisce gli umani ed anche le bestie estendendosi dalla città alle campagne, cumuli di membra imputridite, templi pieni di cadaveri, larve umane in lite davanti alle pire ardenti per contendersi la possibilità di bruciare il proprio morto, umanità imbestialita nella sofferenza), terminando il suo poema, che aveva iniziato col proposito di liberare l’uomo dall’angoscia, con una cupa sinfonia sulla morte.

“[…]E allora cadevano a mucchi in preda al contagio e alla morte.
Dapprima avevano il capo bruciante di un ardore infocato,
gli occhi iniettati di sangue per un bagliore diffuso.
E dentro le livide fauci sudavano sangue,
si serrava cosparsa di ulcere la via della voce,
e la lingua, interprete dell’animo, stillava di umore sanguigno,
fiaccata dal male, ruvida al tatto e inerte.
Quando poi il violento contagio attraverso le fauci
invadeva il petto, e affluiva per intero al cuore dolente dei malati,
tutte davvero le barriere della vita vacillavano. […]”

(Lucrezio, De rerum natura, 2, 1144-1154)

Nelle Metamorfosi, lo straordinario poema che da più di duemila anni affascina e seduce poeti ed artisti, ricostruendo come in un grandioso arazzo tutta la tradizione mitologica greca e latina, pure Ovidio narra la peste ateniese.

Prima s’infiammano i visceri, e sintomo della fiamma che cova è un rossore e un respiro affannoso e infuocato. La lingua diventa ruvida e si gonfia, le fauci riarse stanno aperte ai venti afosi, boccheggiando si inspira aria pesante. Non si sopportano giacigli, non si sopportano stoffe di alcun genere; ci si distende col ventre sulla dura terra: ma il corpo non è rinfrescato dal suolo, è invece il suolo a bollire a contatto del corpo. E non c’è chi possa mitigare il male, il flagello scoppia spietato tra quelli stessi che curano, ai medici nuoce la loro stessa arte. Più uno sta vicino malato e più fedelmente lo serve, più presto fa la stessa fine. E quando ogni speranza di guarigione è svanita ed è chiaro che l’esito del morbo sarà solo la morte, la gente si abbandona ai propri istinti, senza più occuparsi di ciò che può giovare: tanto, nulla può giovare. Disordinatamente, senza più nessun ritegno, si attaccano alle fonti, ai fiumi, ai pozzi capaci, e la sete non si estingue che con la vita, a furia di bere. Cosi molti,appesantiti, non riescono più ad alzarsi e cascano e muoiono in acqua[…] Ovunque lo sguardo si volgesse, c’era gente buttata per terra, come le mele marce quando si agitano i rami, come le ghiande, quando si scuote il leccio.

(Ovido, Metamorfosi, 7, 554-585)

E, in ricordo sicuramente degli orrori della pestilenza che colpì Atene nel 430 a. C, Sofocle, nel parodo della tragedia Edipo re (composta probabilmente fra il 433 e il 410 a. C.) affidò al Coro, in versi angosciosi, testimonianti l’esperienza vissuta, nutrita di lutti e di visioni raccapriccianti, la descrizione della città di Tebe devastata dagli orrori della pestilenza, di cui solo l’ indovino Tiresia conosce le cause: il re Edipo, senza saperlo, ha ucciso suo padre e sposato sua madre, e gli dei irati hanno mandato la peste come segno di contaminazione per queste colpe impunite. Una folla supplicante si raduna intorno a Edipo, colpevole della peste che divora la città, per chiedergli di salvarli dalla fame e dal contagio.

[…]La città,
come tu stesso ben lo vedi, troppo
è già sbattuta dai marosi, e il capo
piú non riesce a sollevar dal baratro
del sanguinoso turbine: distrutti
i frutti della terra ancor nei calici:
distrutti i bovi delle mandrie, e i parti
delle donne, che a luce più non giungono:
e il dio che fuoco vibra, l’infestissima
peste, su Tebe incombe, e la tormenta[…]

Anche nell’antica Roma si verificò la peste, ricomparendo regolarmente e tormentando in modo particolare i più poveri della città; periodicamente vittima di catastrofi naturali, terremoti, piene del Tevere, afflitta dal gelo e dalla canicola, pericoli che colpivano prevalentemente gli abitanti dei quartieri più poveri, ammassati in edifici malsani, l’Urbe fu devastata soprattutto dalle epidemie.
La storia dei suoi primi secoli di vita è segnata da questo male, anche allora considerato segno della collera divina; particolarmente violenta nel 459 a.C., sia in città che nelle campagne, sia per gli uomini che per il bestiame, spaventosa fu la peste, per la durata e per il numero delle sue vittime (anonimi, profughi, poveri, consoli, senza distinzione di ceto, stavolta).

La stagione era particolarmente malsana, e vi fu un periodo di epidemie in città e nelle campagne, sia per gli uomini, sia per il bestiame. L’epidemia divenne molto violenta, per- ché i contadini, temendo i saccheggi, si rifugiarono nella città con i loro armenti. Promiscuità di creature d’ogni specie, odori insoliti per i cittadini, ammassi di gente di campagna nei tuguri. E, a tutti questi tormenti, si aggiungevano la canicola e l’insonnia. Le persone, curandosi a vicenda, diffondevano il contagio.

(Livio, Storia di Roma, III, 6, 2-3)

Un’epidemia, che l’anno prima aveva colpito i bovini, quell’anno era passata agli uomini (174 a.C.). Coloro che ne erano presi, superavano raramente il settimo giorno, e coloro che se la cavavano, soffrivano di malesseri prolungati, soprattutto di febbre quartana. Gli schiavi ne furono le vittime più numerose. Le strade erano cosparse dei loro cadaveri, lasciati senza sepoltura. Non si riusciva più nemmeno a seppellire gli uomini liberi. I cadaveri, che né i cani né gli avvoltoi toccavano, andavano in decomposizione. Fu infatti dimostrato che né in quell’anno, né in quello precedente, erano stati visti avvoltoi, quando gli ammassi di uomini e di buoi erano così grandi.

(Livio, Storia di Roma, XLI, 21, 5-7)

Si tennero quindi i comizi; furono nominati consoli Lucio Ebuzio e Publio Servilio. Essi entrarono in carica alle calende del mese Sestile, che allora segnava l’inizio dell’anno. Era una stagione afosa e il caso volle che quell’anno fosse funestato da una pestilenza che colpì la città e le campagne, il bestiame non meno degli uomini; e accrebbero la violenza dell’epidemia i contadini che, per timore dei saccheggi, erano stati accolti in città con le loro bestie. Quel guazzabuglio d’animali d’ogni genere opprimeva con l’insolito lezzo i cittadini, anche, con l’afa e con le veglie, i contadini stipati in case anguste, e i vicendevoli servigi e il contatto stesso diffondevano l’epidemia.

(Livio, Storia di Roma, III, 6, 2-3)

Plutarco, nelle Vite parallele, narrò che ai tempi di Romolo, il primo re di Roma, si abbatté sulla città una grave pestilenza:

In seguito scoppiò una pestilenza, che faceva, morire gli uomini all’improvviso, senza che si ammalassero, e che provocava sterilità di piante e di animali.

(Plutarco, Vite parallele, Romolo, 24,1)

E pure l’imperatore Marco Aurelio contrasse questo morbo; in seguito ad un’epidemia di peste bubbonica, dilagata fra i soldati ed estesasi a tutta la popolazione, morì fra le sue truppe il 17 marzo del 180 a Vindobona (l’odierna Vienna). Nella viva biografia scritta da Umberto Moricca, intitolata I Ricordi di Marco Aurelio, l’autore sottolinea come anche l’ultimo pensiero dell’imperatore filosofo fosse andato al devastante flagello:

Dal giorno in cui cadde malato (10 marzo del 180) Marco Aurelio non volle più né mangiare né bere, e parlò come chi avesse già il piede sull’orlo della tomba. Nel sesto giorno della malattia chiamò al suo letto gli amici, e tenne loro un discorso intorno alla vanità delle cose umane. Tutti piangevano: egli li riprese amorevolmente: Piangete per me? Pensate piuttosto a salvare l’esercito dal pericolo della peste! Io non fo che precedervi: addio!.

(Umberto Moricca, I ricordi di Marco Aurelio)

Nel 542 la “Grande Pestilenza” colpì Costantinopoli (poi si estese ad Alessandria, ed investì pure la Palestina e la Siria), regnando l’imperatore Giustiniano; tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate ci fu un così alto numero di vittime del contagio che la città si fermò quasi del tutto, propagandosi il male velocemente, in modo inspiegabile, dalle classi sociali più povere alle sfere dei potenti. Lo storico Procopio fu testimone e scrittore del decorso della malattia (probabilmente questa fu la prima pandemia documentata), raccontando le atroci sofferenze della popolazione. Alla fine di agosto, infine, la pestilenza allentò la sua morsa, lasciandosi alle spalle morti, cadaveri, ed anche la speranza nutrita dall’imperatore di far rinascere l’Impero romano.
Per secoli, poi, la micidiale malattia scomparve dall’Europa, tornando a manifestarsi nelle zone da cui era provenuta, cioè l’Asia centrale e orientale, ma si ripresentò nel 1347-51 con un appellativo ancora più sinistro, la “Morte Nera”, che non soltanto uccideva, ma trasformava le sue vittime in esseri ripugnanti, causando un’ondata travolgente di crisi economica, innestando un rovinoso ciclo di carestia-peste-carestia. Secondo dati non troppo lontani dal reale la popolazione europea, compresa la Russia, dopo aver raggiunto gli 80 milioni nel 1300, scese, allora, a circa 73 milioni nel 1347, e a circa 48-50 milioni nel periodo immediatamente successivo al contagio. L’alta mortalità, incrementata anche dalle numerose guerre che infierirono sulla popolazione europea tra il XIV e il XV secolo (la Guerra dei Cent’Anni, la Guerra delle Due Rose in Inghilterra, le guerre italiane dal 1350 al 1450, etc.), ebbe ripercussioni non soltanto sulla forza lavoro, ma anche sulla domanda dei beni, con un conseguente forte ribasso dei prezzi.
In Europa occidentale la peste, nata in Cina verso il 1333, e diffusasi rapidamente seguendo le rotte commerciali che portavano verso occidente, ricomparve negli ultimi mesi del 1347, portata da alcune navi genovesi il cui equipaggio, imbarcando mercanzie in Crimea, aveva contratto la malattia, che era tornata a divampare con violenza in tutta l’Asia. Originatasi dal contatto di pulci con roditori infetti nelle steppe dell’Asia centrale, da lì propagatasi in Cina e in India, dilagò con effetti devastanti in Europa, raggiungendo inizialmente, tramite le vie commerciali, le pianure del Volga e del Don, colpendo i popoli dell’Orda d’oro (i Tartari).
L’inarrestabile contagio (“contagio”, secondo Isidoro di Siviglia da contactus, perché inseminava chiunque ne venisse a contatto) si propagò attraverso un episodio accaduto durante la battaglia tra il Khan dell’Orda d’oro e i Genovesi per il controllo di Caffa, in Crimea. Il Khan, resosi conto che la peste stava decimando le sue truppe, catapultò sui Genovesi mucchi di cadaveri infetti, trasmettendo, così, il morbo. L’epidemia, trasportata sulle galere dei vincitori, si estese rapidamente; nel luglio del 1347 fu colpita Pera, nel porto di Costantinopoli, nel settembre Messina, seguita ben presto dalle altre città della Sicilia, ma i centri in cui maggiormente si diffuse furono i porti di Livorno e di Marsiglia, dove le galere, respinte da Genova, erano riuscite a farsi accogliere, perciò nella fase iniziale del contagio le zone più colpite furono la Toscana, la Provenza e la Contea Venaissin. In breve tutta l’Italia e la Francia meridionale furono infettate, e di qui l’epidemia mosse verso nord, raggiungendo la Scozia e la Svezia nel 1350. Chiamata “peste nera”, a causa delle emorragie sottocutanee che deturpavano i cadaveri, variamente flagellò le zone colpite, risparmiando poche aree, fra cui, forse, il milanese.
L’epidemia fu violentissima, mai prima di allora una calamità aveva falciato così tante vittime umane, nel giro di pochi mesi nelle zone interessate morì fra un sesto e la metà della popolazione; al livello europeo si calcola che il numero degli abitanti scese di circa il 25%, passando da 70-80 milioni a 50-60.
La gente dell’epoca era stupita e sgomenta, spesso testimone anche della totale scomparsa della popolazione di un luogo, impreparata a reagire al morbo, ignorante delle ragioni scientifiche che lo scatenavano; c’era chi accusava di portare il contagio i vagabondi e i mendicanti, chi individuava negli ebrei gli “untori”, persino chi ipotizzava che dipendesse da un inquinamento atmosferico causato da un miasma proveniente dal sottosuolo liberato dai terremoti, certo è che era favorito dalle scarse condizioni igieniche e dalle condizioni malsane degli abitati, soprattutto nelle città.
Dalla metà del Trecento alla metà del Seicento la peste, spesso associata o confusa con altre cause di mortalità, come il tifo, il vaiolo, la dissenteria, colpì ripetutamente i Paesi europei in proporzioni spaventose, interessando vaste regioni, spargendo lutti e desolazione; le immagini della Danza macabra, tanto diffuse nell’arte religiosa e nelle stampe popolari antiche, altro non sono che trasposizioni metaforiche della tremenda realtà delle epidemie, che iniziarono, appunto, con la peste nera del XIV secolo.
E diffusa nell’iconografia era anche l’immagine di Dio che scaglia sui peccatori le frecce della peste, eco del mito pagano dell’ira degli dei: gli antichi Greci invocavano Apollo, il dio arciere che aveva il potere di seminare il morbo sulla terra, perché li risparmiasse, i cristiani San Sebastiano, il martire trafitto dalle frecce, perché li proteggesse dal morbo, ma il santo protettore degli ammalati di peste divenne, poi, San Rocco (1350-1380), nativo di Montpellier, perché, come si racconta, al tempo in cui scoppiò in Europa un’altra terribile epidemia, in pellegrinaggio verso Roma, dopo aver abbandonato la famiglia e donato tutti suoi beni ai poveri, mentre i pellegrini cercavano di tornare alle loro case per paura del contagio, si dedicò con molta premura all’assistenza degli ammalati, tanto che non tardò a diffondersi la sua fama di taumaturgo.
Arrivò a Roma e, compiuto il pellegrinaggio, lungo la strada che lo riportava a Montpellier, si ammalò di peste. Solo, senza assistenza, si rifugiò in un bosco per attendere la morte in preghiera, ma fu visitato da un angelo che lo curò, mentre un cane gli portava ogni giorno il pane. San Rocco guarì e ritornò al suo paese natale, dove, poi, morì (ma, secondo un’altra versione della leggenda, sarebbe stato arrestato presso Angera e imprigionato come spia, finendo i suoi giorni in carcere). Rappresentato in abiti da pellegrino, con bastone e conchiglia, accompagnato da un cane che porta un pezzo di pane, spesso nella pittura rinascimentale, come ad esempio nel pannello del pittore fiammingo Quentin Metsys (1466 –1530) fu raffigurato con una piaga sulla coscia per ricordare il tremendo morbo.
La peste fu ritenuta dalla Chiesa e dai moralisti una punizione divina per i peccati dell’uomo (comportamenti sessuali immorali, lussuria, eccessi nel mangiare e nel bere, lusso sfrenato), per questo tanti predicavano una rinascita morale della società, replicavano con la preghiera, il digiuno, la confessione, il rigetto dei piaceri materiali e delle vanità mondane, i voti, le processioni; famosa, secondo la leggenda, quella dei penitenti che ne invocavano da Dio la fine, guidati da papa Gregorio I quando il male infuriava nel 590 (nel Medioevo, poi, i fedeli imitarono l’antico esempio con grandi processioni in cui imploravano l’intercessione del patrono).
Inoltre si assisteva al pullulare di movimenti penitenziali, come i flagellanti (chiamati anche o flagellati, o frustati, o battuti, o cappucciati, o disciplinati, o disciplini, laici organizzati in confraternite che grande successo ebbero a Perugia con la loro spettacolare sanguinosa pratica di sadomasochismo) che si autoflagellavano o praticavano la flagellazione di gruppo, pubblicamente o in adunanze private; ma ci furono anche quelli che, all’opposto, considerando che il morbo colpiva indistintamente tutti, buoni e cattivi, si diedero ad una vita sfrenata.
Soprattutto nel Medioevo la malattia imperversò in Europa, presentandosi in enormi pandemie che annientarono le popolazioni di intere città, come la cosiddetta “peste nera”, epidemia di peste bubbonica, caratterizzata da “bubboni”, cioè da rigonfiamenti al sistema linfatico (ma esisteva anche la peste polmonare, che attaccava il sistema respiratorio, ancora più fatale e virulenta poiché il contagio avveniva da uomo a uomo, attraverso il respiro, causando morte certa in poche ore. Sintomo caratteristico non erano i bubboni, ma la tosse, e, probabilmente, augurando ”Salute” dopo uno starnuto non facciamo che riproporre una formula di scongiuro nata contro questo tipo di peste).
La peste veniva generalmente classificata come una febbre che, generando un eccesso di caldo e di umido, turbava l’equilibrio dei quattro umori corporali (il sangue, la flemma, la bile gialla e la bile nera), e che, similmente alla sifilide, agiva come un veleno, attaccando la “sostanza’”, perciò più virulenta delle malattie che si limitavano ad alterarne le “qualità”. Nei secoli XIV, XV e XVI i medici seguivano ancora gli insegnamenti di Ippocrate che considerava le epidemie causate dall’aria guasta (forse a causa del clima troppo caldo e umido o di una particolare congiunzione delle stelle e degli astri che riverberavano sulla terra i loro influssi maligni) che attaccava i fluidi e gli umori corporei, arbitri della salute degli uomini, la cui alterazione provocava appunto la malattia e la morte, e ritenevano che potesse essere anche causata da vapori maligni e mefitici, come quelli esalati dai depositi di letame, dai cimiteri, dai vulcani.
Nel Trecento per arginare l’epidemia nelle città, che registravano alti livelli demografici, s’incoraggiava le popolazioni ad una maggiore igiene, si praticavano trattamenti medici miranti a far espellere dal corpo il veleno pestilenziale attraverso il sudore, le purghe, il vomito e i salassi, si incidevano i bubboni e i gonfiori caratteristici del morbo per permettere al pus di uscire, si cercava di alleviare i sintomi della malattia, tra i quali la sete e l’insonnia, si isolavano i malati, si ponevano restrizioni a persone e merci, si provvedeva all’immediato seppellimento dei deceduti per l’epidemia in fosse comuni cosparse di calce fuori dalle mura degli abitati e si distruggevano i loro indumenti. Inoltre, ritenendo contagiosa l’aria infetta, per contrastare, in qualche modo, i miasmi dell’aria corrotta, si usava bruciare erbe aromatiche o portare addosso boccette profumate o mazzolini di odori e spezie (nei secoli successivi si bruciava zolfo e altre sostanze, dal Cinquecento in poi si fiutava o si fumava tabacco, per questo spesso è stato possibile identificare il sito delle fosse comuni delle vittime della peste dal rinvenimento di numerose pipe di creta, fumate dai becchini come antidoto).
In tutto ciò, per evitare di respirare l’aria ammorbata delle città colpite, l’unica via di scampo sembrava essere rifugiarsi in luoghi isolati e salubri, come fecero Petrarca e Boccaccio , e come fecero i più abbienti anche durante i secoli successivi -contravvenendo alle regole della quarantena, che miravano a impedire la diffusione delle epidemie- spostandosi, con esodi massicci e bene organizzati, in luoghi esenti e dove minore fosse il pericolo di contagio, affrontando lunghi viaggi, cambiando spesso anche località, dopo essersi consultati con amici e parenti che segnalavano l’iter del male.
In Toscana, penetrata nel gennaio, la peste scoppiò a Fiesole, Prato, Volterra, poi divampò a Firenze soprattutto nell’aprile del 1348. Gli storici narrano di corpi devastati da foruncoli, bubboni grossi come uova o mele, macchie nere e livide su quasi in ogni parte del corpo, di cani, gatti ed altri animali pure contaminati, di contagi avvenuti anche solo velocemente toccando un appestato. Alla fine dell’estate di quel tragico anno, nonostante i provvedimenti dei magistrati fiorentini, come la chiusura delle porte della città, il divieto di entrarvi ed uscirvi (e nonostante le pratiche devozionali, voti e suppliche) la popolazione fiorentina si era presumibilmente ridotta da 90.000 a meno di 45.000 abitanti, mentre a Siena su 42.000 cittadini ne erano sopravvissuti non più di 15.000.

[…]quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, ed in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte; ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi ed alle temine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela ed altre come uno uovo, ed alcuna più ed alcuna meno, le quali li volgari nominavan “ gavòccioli”. E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il già detto gavòcciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere ed a venire; ed appresso questo, si cominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce ed in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade ed a cui minute e spesse. E come il gavòcciolo primieramente era stato ed ancora era certissimo indizio di futura morte, e così erano queste a ciascuno a cui venivano. A cura delle quali infermità ne consiglio di medico ne verrà di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto; anzi, o che la natura del malore noi patisse o che l’ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, cosi di temine come d’uomini senza avere alcuna dottri-na di medicina avuta mai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per conseguente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guerivano, anzi quasi tutti infra il terzo giorno dall’apparizione de’ sopraddetti segni, chi più tosto e chi meno, ed i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano.

(Boccaccio, Decamerone, giornata prima, 9-14)

Ci restano molte testimonianze degli osservatori contemporanei, la cui immaginazione fu colpita dalla violenza e dal carattere di novità di questa epidemia (che segnò un mutamento epocale, giacché tornò endemicamente ad infettare i ratti europei e a propagarsi all’uomo in ricorrenti ondate, spesso ad intervalli di pochi anni), tra cui quella del Boccaccio, per il quale Firenze era tutta un sepolcro, che, nelle belle pagine iniziali del Decamerone descrisse, sì, l’evento doloroso con forte tragicità (per l’accurata rappresentazione del contagio servendosi di un illustre precedente letterario, lo storico Paolo Diacono che aveva raccontato la peste scoppiata in Italia ai tempi di Giustiniano nella Historia Longobardorum, II, 4-5), ma legandolo alla “dolcezza” e al ”piacere”, trasformandone la cupezza in raffinata e leggiadra cornice entro cui incastonare le sue novelle. Basti pensare alla descrizione di Pampinea, all’inizio del libro, della campagna verde e tranquilla, dopo aver drammaticamente illustrato la città devastata dal contagio e la solitudine della casa che ha conosciuto la morte; l’ombra cupa dell’epidemia si allontana, il lezzo della peste si attenua e lascia spazio al lindore, al garbo e alla raffinatezza dell’ambiente e dei personaggi: la mortifera pestilenza (come la definisce l’autore), per Boccaccio è un male cui gli uomini possono opporre solo il loro desiderio di vita.
Ed anche Giovanni Sercambi, nato a Lucca nel 1348, durante la peste, e di peste morto il 27 marzo del 1424, immaginò, nell’introduzione delle sue Novelle, una brigata lucchese riunita nella chiesa di Santa Maria del Corso, intenta ad organizzare un viaggio attraverso l’Italia per sfuggire alla peste.
Altra violenta epidemia si ebbe all’epoca dell’artista più eminente del Cinquecento tedesco, Matthias Grünewald (1480-1528), che pure morì di peste, e che raffigurò questo morbo in una tavola del polittico dell’Altare di Isenheim. L’altare (ora conservato al Musée d’Unterlinden di Colmar) fu realizzato per la chiesa della prioria di Sant’Antonio (a Isenheim, in Alsazia) che apparteneva all’ordine degli antoniti, fondato in Francia nel 1095 da un nobile del Delfinato, Gaston, riconoscente per la guarigione del figlio che era stato colpito dal fuoco di Sant’Antonio. Gli antoniti, inizialmente laici, poi ordinati canonici regolari da Bonifacio VIII nel 1280, sotto la regola di Sant’Agostino, e alla fine del Settecento confluiti nell’ordine dei cavalieri di Malta, erano medici molto abili (i medici dei papi erano proprio antoniti) e nei loro ospedali curavano soprattutto i malati affetti dal fuoco di Sant’Antonio (che, in tutta l’Europa, soprattutto in Francia, mietè molte vittime dal IX al XIII secolo), ma curavano anche altri mali, come la sifilide e l’epilessia. Erano soliti portare gli ammalati alle reliquie del Santo e toccarli con il saint vinage, il vino col quale si aspergevano le ossa di Sant’Antonio a Pasqua e poi, davanti all’Altare a Isenheim, aspettavano il miracolo della guarigione. Inoltre gli antoniti allevavano i maiali, il cui santo protettore è Sant’Antonio, da loro venerato, come erano venerati San Sebastiano, che proteggeva contro la peste, e i due San Giovanni, San Giovannni apostolo e San Giovanni Battista, invocati contro l’epilessia. Nella prima faccia dell’Altare di Isenheim compaiono, appunto, i quattro santi venerati dalla comunità degli antoniti, ed è alle spalle di Sant’Antonio che Grünewald pose, fra l’imperversare dei mostri infernali dai ripugnanti aspetti, che da tutte le parti assalgono il Santo, il demone apportatore di peste, che manda in frantumi i tondi della vetrata col suo soffio malefico. E nelle Tentazioni di Sant’Antonio, tavola che costituisce uno degli sportelli della seconda faccia dell’altare, collocò in primo piano una vittima del tremendo morbo, con il corpo martoriato da gonfiori, pustole, macchie rosse, nere e blu: erano, quelli, i segni ben visibili della cosiddetta peste bubbonica, che, nella sua forma più letale, quella polmonare, si propagava dall’uno all’altro come un comune raffreddore, tramite gli starnuti.
Anche all’epoca di Grünewald la peste (che non era l’unica malattia epidemica, c’erano anche il vaiolo e la sifilide, ma la peste era la più terribile all’aspetto) era considerata una punizione divina, perciò causava dolore fisico e tormento, come ben espresso dalle parole di Sant’Anastasio, vescovo di Alessandria (citate anche nella Legenda Aurea,1 fonte letteraria di questo sportello) scritte sul cartiglio che si trova in basso sulla destra del dipinto:

Bone Jhesu, ubi eras, quare non affuisti ut sanares vulnera mea?
Buon Gesù, dov’eri, perché non mi soccorresti per sanare le mie ferite?

La peste restò endemica in Europa ancora per tre secoli, e le vittime del terribile flagello, nonostante le precauzioni e i provvedimenti intrapresi dalle autorità, come il miglioramento dell’igiene pubblica (attraverso una maggiore pulizia delle strade dai depositi di letame e cumuli di immondizie che ammorbavano l’aria), le procedure di quarantena, per conservare all’esterno degli abitati le merci d’importazione, e l’isolamento dei forestieri in lazzaretti utilizzati come ospedali quando scoppiavano le epidemie di peste (poiché si era, infine, giunti alla conclusione che era attraverso le merci e il viaggiatori che si diffondeva il morbo) che, sicuramente, contribuirono a migliorare lo stato della salute civica. La Germania e l’Inghilterra arrivarono in ritardo su questi provvedimenti; Norimberga dovette attendere l’epidemia del 1562 per costruire un lazzaretto, mentre Londra ebbe il primo soltanto alla fine del secolo ma, siccome lì era possibile ospitare solamente una piccola parte degli ammalati, il governo londinese varò una severa legge che impediva a chiunque di lasciare la casa ove fosse stato riscontrato un caso di peste, e le porte delle abitazioni infette venivano pubblicamente segnate con una croce: si pensava, così, che solo gli incaricati delle registrazioni dei nuovi casi e i becchini, che di notte percorrevano le strade con i carri dei cadaveri per seppellirli nelle fosse comuni fuori della città, rischiassero il contagio.
Numerosi i rimedi improvvisati, imprecisi, talvolta anche grotteschi, come la strana divisa indossata dai medici, che comprendeva una curiosa maschera il cui becco conteneva erbe aromatiche e spezie.
Non esistono dati precisi, ma si pensa che intorno al 1430 l’Europa avesse perduto, rispetto a cent’anni prima, oltre un terzo degli abitanti; in vaste regioni, poi, il calo demografico superava il 50%. A Norimberga un medico registrò che nel corso del 1494 in città c’erano stati più di ottomila decessi; nel 1550 morirono di peste a Milano settantamila persone, nel 1575 ne morirono quarantamila a Venezia, e nel 1580 sessantamila a Roma, poi, per cause ignote, gradualmente il morbo sparì. L’ultima nazione che vide scomparire questo tremendo flagello fu l’Inghilterra, dopo la “grande peste” londinese del 1664-1666, che mieté addirittura settemila vittime la settimana (secondo un calcolo approssimativo, ma forse le vittime furono molte di più), e che fu narrata dallo scrittore Daniel Defoe (nato in un sobborgo di Londra) nel Diario dell’anno di peste (“A journal of the plague year”) pubblicato nel 1722, servendosi, probabilmente, del taccuino di memorie redatto da suo zio Henry Foe, poiché all’epoca della tremenda epidemia Daniel aveva solo 5 anni. Cronaca dettagliata, racconta della peste nella città di Londra dalle drammatiche condizioni di vita, sovraffollata e carente delle più elementari strutture igieniche, dello sterminio delle famiglie colpite dal morbo, delle reazioni delle persone, dei modi di arginare l’epidemia e di curarsi, fino al grande incendio che distrusse praticamente i 3/4 della città nel 1666, che la tradizione popolare ritenne la causa della fine dell’infezione, ma gli scienziati pongono l’accento sul miglioramento delle condizioni igieniche e sulla sostituzione in Inghilterra del ratto nero (causa della peste) col ratto bruno, che si tiene lontano dall’uomo.
L’alto numero di vittime non deve stupire, considerando le condizioni malsane in cui viveva la popolazione e la mancanza di cure mediche valide, per cui sovente la gente dava credito a stolte dicerie (come la propagazione del contagio da parte degli untori, avallata persino dalle autorità sanitarie, come si pensò nella peste di Milano del 1630) e seguiva più volentieri le pratiche empiriche e superstiziose (ed anche eccentriche, come le cure propugnate da personaggi bizzarri, uno di questi, Salomon Eagle, durante la peste del 1664-1666 percorreva le strade londinesi con un paiolo colmo di carboni ardenti in testa e gridando preghiere di pentimento).
Tremenda fu anche l’epidemia di peste bubbonica che imperversò in tutta la Lombardia e nelle regioni vicine nel 1630, causando ovunque lutti e sofferenze; alto fu il tributo di vite umane a questa immane calamità, che lasciò un ricordo indelebile nella memoria collettiva, preceduta da una grande carestia che compromise i raccolti, aumentò i prezzi ed impedì ai più poveri di procurarsi il cibo, debilitò il fisico delle persone e le predispose al rischio del contagio.
In questo contesto si sviluppò nella primavera del 1630, portata in Italia dalle terribili milizie tedesche dei Lanzichenecchi dell’imperatore Ferdinando II, che saccheggiavano, impegnate nella guerra di successione del ducato di Mantova; entrate in Valtellina, e calate verso la pianura, diffusero rapidamente il morbo in tutta la Lombardia. Scarsità di prevenzione, mancanza di provvedimenti immediati, anche di cure perché molti medici, per timore di contrarre il morbo, si nascondevano o fingevano di non essere tali, fecero attecchire ben presto le radici del male. I primi sintomi si manifestarono con mal di testa acuti, febbri violente, tremiti, convulsioni, bubboni al collo, alle ascelle e all’inguine, poi vesciche purulente che si diffondevano in tutto il corpo. Gli appestati venivano trasportati, troppo tardi per arginare il contagio, in uno speciale recinto, il lazzaretto, dove si tentava di curarli isolandoli dai sani, ma spesso nulla potevano le medicine e i rimedi empirici, fulminante era la morte, che sopraggiungeva dopo solo quattro giorni dall’insorgere dei sintomi. I morti appestati venivano condotti al cimitero dai monatti, in genere persone insensibili, impietose, avide, che raccoglievano e ammucchiavano i cadaveri alla rinfusa, conducendoli senza riguardi alla sepoltura.
A Milano (già gravemente colpita dalla peste cinquant’anni prima), questo morbo, al quale i medici non sapevano o non osavano dare un nome, decidendo troppo tardi d’isolare gli ammalati e di istituire un corpo sanitario adeguato, imperversò subito con furore (si calcola che prima del 1630 Milano contasse più di centomila abitanti; nel 1632, ad epidemia finita, erano solo 47.462). L’aspetto della città, nel pieno fervore del contagio, era miserando: ovunque imposte sbarrate, botteghe e farmacie aperte solo per poche ore al giorno e con vasi pieni d’aceto ove lanciare le monete dei pagamenti perché si disinfettassero, case infette contrassegnate per evitarle come si evitava il contagio, oggetti ed indumenti infetti bruciati, ammalati agonizzanti nelle strade, lugubri carretti carichi di morti condotti dai “monatti”, perlopiù gentaglia che si prestava al triste compito per far bottino alle spalle dei morti, alcuni avevano anche il compito di entrare nelle case per disinfettare le pareti con incenso, storace e pece, ovunque il terrore degli “untori”, cioè di coloro che, secondo la fantasia popolare, ubbidendo al demonio, o a misteriosi mandanti, avevano l’incarico di diffondere il male ungendo abiti e porte con un unguento pestifero.
La tragica realtà della peste di quel tempo, con tutti i suoi orrori, fu descritta anche nei Promessi sposi dal Manzoni che, per la documentazione, attinse alle cronache e alle opere di storiografia del Seicento: De peste Mediolani quae fuit anno MDCXXX, “La peste che scoppiò a Milano nel 1630”, e Historiae Patriae, “Le storie della patria”, di Giuseppe Ripamonti (1573-1643), il Raguaglio di Alessandro Tadino (1580-1661), medico milanese che diagnosticò la peste e le sue cause, ma anche alle opere dell’economista Melchiorre Gioia (1767- 1829), suo contemporaneo.
A Milano infuria la pestilenza e la morte miete a migliaia le sue vittime con la sua falce che pareggia tutte le erbe. Gli uomini sono diventati duri, insensibili di fronte al dolore altrui, ma la donna che ha visto morire una delle sue figliolette, e che, tra poco, la seguirà nello stesso destino, insieme all’altra sua figlia, entrambe toccate dallo stesso male, con malinconica dolcezza la compone e l’affida al turpe monatto.
Stupenda per ricchezza di motivi umani e poetici, una tra le più significative dell’arte narrativa di ogni tempo, la descrizione che il Manzoni offrì della madre, la madre di Cecilia, (figura delicata, gentile […] che si illude di poter dare alla propria bambina un posto diverso, di poterla mandare al cimitero con tutte le cure, di poterla isolare quasi dallo scempio e dalla turpitudine, Villaroel.),2 affranta dalla sventura ma dignitosa anche quando consegna la figlioletta al monatto (Un turpe monatto uno di quei becchini dall’aspetto ripugnante, che raccoglievano i cadaveri degli appestati. Di fronte a quel dolore pacato e profondo perfino il monatto, reso insensibile dal mestiere, crudele, prova una specie di soggezione ed ha senz’acccorgersene, un attimo di esitazione una mano sul petto come per giurare che manterrà l’impegno), immagine vivente del dolore, affrontato, però, con cristiana rassegnazione, perché lo scrittore, illuminato dal credo, non considerò la peste un castigo di Dio, ma una prova per il rafforzamento della fede.

Il monatto si mise una mano sul petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, si affacendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise li come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco e disse l’ultime parole: — addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per tè e per gli altri. — Poi voltatasi di nuovo al monatto: — voi — disse, — passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.
Cosi detto, rientrò in casa e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle cosi indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo potè vedere; poi disparve. E che altro potè fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morir insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.

(A. Manzoni, I Promessi sposi, cap.34)

Nel secolo successivo la peste si ripresentò nelle Americhe. Era il 6 marzo del 1900, l’Anno del Ratto, secondo il calendario cinese, quando nel quartiere cinese di San Francisco in uno scantinato fu trovato un uomo morto di peste bubbonica, portata dall’Asia, probabilmente dal piroscafo Nippon Maru, salpato da Hong Kong, che aveva 11 clandestini a bordo (due morirono e dall’autopsia emerse che erano affetti da peste), forse già infetti, o forse infettati da ratti nella stiva; le autorità presero subito, però, tutti i provvedimenti del caso, e riuscirono a circoscriverla velocemente. Da allora si ritiene malattia relativamente rara negli esseri umani, anche se non mancano episodi, fortunatamente isolati, dovuti al contatto con roditori selvatici, che fanno ipotizzare che non sia scongiurata del tutto la minaccia di una pandemia di peste, tremendo male che ancora nel Novecento suggestionò la fantasia di
uno scrittore: Albert Camus. Nel suo romanzo del 1947 intitolato, appunto, La Peste, di successo immediato ed immenso (tanto da fargli annotare, meno di tre mesi dopo la pubblicazione, Fa più vittime di quanto pensassi!) immaginò scoppiata ad Orano, in Algeria, un’epidemia di peste, che descrisse clinicamente, ricordando un’altra grande epidemia, quella di tifo pure scoppiata in Algeria nel 1941-42. Attraverso le azioni e le riflessioni dei personaggi Camus intese evidenziare la fragilità della condizione umana cui si può porre scampo solo attraverso la solidarietà che unisce gli uomini.

1) La Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (1228-1298) è una raccolta, scritta in latino, di vite di santi, che grande successo ebbe soprattutto nel Medioevo.

2) Manzoni A., I Promessi sposi, edizione CDE SPA Milano.

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