piz - CINEMA, ADDIO ALLE "PIZZE" DA GENNAIO FILM SOLO IN FORMATO DIGITALE
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Otto registi su dieci girano ormai solo in digitale, ma con la cellulosa scompaiono aziende e mestieri

Sarà, come sempre, una lunga striscia di triacetato di cellulosa. A Natale la pellicola riempirà le sale italiane: l’ennesimo cinepanettone, o magari l’ultimo cartone della Pixar. Questa, però, sarà l’ultima. Il cinema sta cambiando forma, come da intesa tra distributori ed esercenti: da gennaio i film, al netto di qualche ritardatario, viaggeranno solo in formato digitale. Alle “pizze” resta solo qualche mese di vita. Ed è probabile che l’ultima pellicola oggi sia ancora negli Stati Uniti. A Rochester, Illinois, nella fabbrica della Kodak, rimasta la sola azienda al mondo a produrla in modo industriale. La giapponese Fuji è stata rapida a riconvertirsi, ora vende cosmetici. Kodak invece no e la rivoluzione digitale, tra cinema e fotografia, l’ha trascinata alla bancarotta. Con fatica ora cerca di ripartire e il piano di risanamento prevede un piccolo spazio per la pellicola. Intanto però il mega stabilimento di Chalon, in Francia, è stato degradato a semplice magazzino. E l’ufficio di Roma, che per decenni ha soddisfatto le richieste di Cinecittà, ha chiuso. Il materiale si ordina online, e arriva dall’America via nave.
Del resto, perfino tra i registi i fanatici della pellicola sono rimasti una minoranza. «Otto su dieci ormai girano in digitale», assicura Richard Borg, amministratore delegato in Italia di Universal. L’immagine non ha la stessa profondità, si perde la “grana”, sostengono i più ostinati. Ma nulla che non si possa simulare a computer. Così si sono convinti anche Steven Spielberg e Giuseppe Tornatore. Resiste Paolo Sorrentino: le immagini della Roma decadente de La grande bellezza sono impresse su pellicola. Anche se poi convertite per il montaggio che da tempo è interamente computerizzato. Troppo comodo poter saltare avanti e indietro a piacimento nel girato, anziché avvolgere e riavvolgere il nastro. Più accurati il trattamento del colore e l’aggiunta degli effetti.
«La Grande Bellezza» di Sorrentino è uno dei pochi film ancora girati in pellicola. Otto registi su dieci ormai usano il digitale.
Ad essere in ritardo sono alcune sale cinematografiche, specie le più piccole. All’ultimo rilevamento ancora il 35% non aveva fatto la conversione. L’ultima pellicola arriverà in Italia soprattutto per loro. Anche se gli stampatori, i centri dove realizzare le “pizze” definitive dei film, non saranno facili da trovare. Prima Technicolor e poi Deluxe, i due leader di mercato, hanno chiuso i loro stabilimenti italiani. L’ultimo, lo scorso gennaio, è stato l’impianto Deluxe di Mentana, alle porte di Roma. «Stampavamo per tutto il mondo, al ritmo di 500 copie al giorno», racconta Maurizia Graziosi, ultimo amministratore della società in Italia, che ora ha aperto uno studio di postproduzione (digitale) nella Capitale. «Abbiamo aperto nel 1999 – ricorda – i periti chimici e gli operai assunti tra i giovani del Comune e poi formati nella fabbrica di Londra». Nell’enorme macchina per sviluppare, di fatto un intero edificio, si lavorava al buio, finché la pellicola non usciva per essere asciugata. Un unico pizzone gigantesco di 600 metri, che poi veniva tagliato e confezionato. Prima della chiusura, con licenziamento collettivo per i 120 dipendenti, da lì sono usciti titoli come Il gladiatore o The Aviator. Ora è rimasto un laboratorio a Cinecittà, con una capacità di appena 50 copie al giorno. Mentre i grandi centri stampa sono solo due nel mondo, a Los Angeles e Bangkok.
Questione di costi. «Con il passaggio al digitale arriveremo a dimezzare le spese di distribuzione», spiega Richard Borg. Forse perfino di più, se stampare una copia in pellicola costa dai 500 ai 700 euro, mentre un hard disk digitale, il Digital Cinema Package (DCP) che la sta sostituendo, viene da 150 a 200. Per chi le trasporta, la differenza è tra 35 kilogrammi di “pizze” e un kilo di scatoline di plastica. Corrieri specializzati, come Stelci e Tavani o Eurolab: «Veloci e flessibili perché spesso le pellicole sono pronte all’ultimo minuto», racconta Borg. «Sicuri per evitare che nel tragitto siano piratate». Con gli hard disk è diverso. I dati sono codificati, possono essere letti solo quando il distributore fornisce la chiave. Una volta scaricati sul server di un cinema, la stessa memoria serve altre sale, circa una decina. E quando la trasmissione sarà via satellite o in streaming, dei corrieri non ci sarà neppure più bisogno. Un ulteriore risparmio.
La tecnologia era pronta da una decina di anni. Le major dovevano solo trovare il modo giusto per imporla, convincendo gli esercenti a sostituire i loro proiettori analogici da 35 millimetri con un impianto digitale. Investimento di circa 55mila euro, da moltiplicare per ogni sala. La chiave, sperimentata prima negli Stati Uniti e poi introdotta in Italia, è il Virtual Print Fee, un contributo che i distributori versano ai cinema per ogni copia distribuita in digitale. Un sistema in cui si sono inserite società terze, come l’inglese Arts alliance. Installatori di proiettori, ma anche un po’ banche: hanno finanziato agli esercenti gli impianti, per poi riscuotere dai distributori i contributi, con i dovuti interessi.
I piccoli protestano, molti dicono di non farcela. «In Italia abbiamo circa 3500 schermi, quelli in difficoltà saranno 500», stima Luca Proto, vicepresidente di Anec, Associazione esercenti cinema e proprietario di diverse sale nel Triveneto. «Ma il ritmo della conversione aumenterà nei prossimi mesi». Qualcuno però finirà per chiudere, anche perché da gennaio chi vorrà una copia in pellicola dovrà sostenere parte delle spese per la stampa. Un lavoro, di certo, scomparirà: quello dei proiezionisti, che oggi si apprestano a inserire nel proiettore la l’ultima pellicola: «Un po’ elettricisti, un po’ meccanici, dei tuttofare», racconta Proto. Capita, seduti nelle ultime file, di sentire un fruscio, di intravederli nella cabina. Con il digitale, un paio di operatori al pc bastano per gestire una decina di sale.
Il destino della cellulosa per il cinema, allora, è quello che già vive nel mondo della fotografia. Non scomparire, ma diventare un prodotto di nicchia. Così a Ferrania, tra le montagne della Liguria, in una fabbrica che ai tempi d’oro sfornava 500milioni di metri quadri di pellicola l’anno ma che ha chiuso nel 2009, un artigiano toscano sta per rimettere in funzione la vecchia macchina prototipatrice. Quella su cui venivano sperimentate le pellicole da realizzare nell’impianto principale. «Vogliamo ricominciare a produrre per gli amatori e i registi indipendenti», dice Marco Pagni. E lo farà coinvolgendo i chimici del Polo Tecnologico, ma anche i vecchi dipendenti dell’impianto, una decina. Altra pellicola, altro film. In fondo, il prodotto dell’industria cinematografica continueremo tutti a chiamarlo così. (16 agosto 2013)

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