di Emanuela Ientile
Locri (RC) – Dopo un grave episodio di cronaca, in questi giorni è tornata d’attualità, anche nella Locride, la questione dei collaboratori di giustizia. Anche se in Calabria il problema ha riguardato solo pochi casi isolati, non dev’essere persa di vista l’importanza delle testimonianze di giustizia, gli apporti concreti che esse forniscono alle indagini e, soprattutto, l’efficacia dei programmi di protezione. Il 15 ottobre scorso si è tolto la vita Bruno Piccolo, un giovane locrese che aveva deciso di collaborare dando utili informazioni alle indagini sul delitto di Franco Fortugno, il vice presidente del Consiglio Regionale assassinato a Locri il 16 ottobre di due anni fa. Bruno Piccolo proveniva da una famiglia onesta, lavoratrice, lontana da ambienti a rischio. Il trauma causato dalla morte del padre, avvenuta per un incidente sul lavoro alcuni anni addietro, getta Bruno nel baratro della disperazione. La famiglia cerca di reagire, di andare avanti, Bruno, che a quell’epoca ha 22 anni, cerca di sostenere la madre e le due sorelle, ma non basta. Le difficoltà dovute alla perdita prematura del genitore, le cattive compagnie, diventano motivo di sbandamento. Bruno, che nel frattempo prende in gestione un bar nel centro di Locri, inizia a frequentare persone che rasentano la legalità, essi divengono i suoi unici interlocutori e consiglieri. Più volte nel suo esercizio ha occasione di assistere a colloqui poco edificanti. Bruno viene arrestato per alcuni reati che nulla hanno a che fare col delitto Fortugno. La dura realtà del carcere, la solitudine della cella, lo inducono alla riflessione. Bruno rivela fatti ed eventi di sua conoscenza utili alle indagini sull’omicidio del vice presidente del Consiglio Regionale. Ciò comporta il suo affidamento ad un regime di protezione con una nuova identità, in una località segreta che poi si scoprirà essere Francavilla a Mare, in provincia di Chieti, in Abruzzo. A Bruno Piccolo viene attribuità una nuova identità, diventa Bruno Falasco. Vive in un piccolo appartamento, trova un lavoro come barista, ma la “nuova vita” non basta a cambiare davvero le sue sorti. Bruno è solo, lontano dalla famiglia che sente solo al cellulare. Gli amici, quelli veri, sono rimasti a Locri dove nel frattempo viene etichettato come “quello che ha parlato”, “l’infame” non più degno della fiducia di alcuno. Il vescovo di Locri-Gerace, mons. Giancarlo Maria Bregantini, si avvicina a lui diventando, così, il suo padre spirituale malgrado la distanza geografica che divide entrambi, ma ancora non basta. L’idea di togliersi la vita inizia a prendere posto nella mente di Bruno che la considera come l’unica via d’uscita: un primo tentativo, pochi mesi prima, fallisce. Bruno continua a stento a condurre la sua disperata vita, demotivato ed amareggiato. La sera del 15 ottobre il secondo tentativo di farla finita riesce, Bruno muore nella solitudine della sua camera da letto; al suo collo ha stretto una corda legata alla finestra, l’unico strumento che gli permetteva di aprirsi al mondo quando si ritrovava solo con se stesso e con la sua amara realtà. Il giorno dopo, a Locri, durante le celebrazioni per il secondo anniversario della morte di Fortugno, la notizia della morte del “collaboratore di giustizia Bruno Piccolo” si abbatte come una scure sulle coscienze lasciando ombre e dubbi: “ma si è davvero ucciso o lo hanno ucciso?” ed ancora “se non lo hanno assassinato forse lo hanno indotto a farlo!”. Di certo non sta a noi fare ipotesi o avanzare tesi investigative; una breve riflessione forse si. Al rito funebre di Bruno, presieduto da mons. Bregantini, prende parte molta gente comune, assenti le istituzioni. Il vescovo abbraccia, commosso, i familiari del giovane. Già, un abbraccio, un gesto semplice, silenzioso e nel contempo carico di significato: amicizia, solidarietà, vicinanza. Chissà, forse se qualcuno avesse abbracciato Bruno e la sua famiglia con sentimenti sinceri, se gli fosse stato realmente vicino quando perse il padre, magari avrebbe vissuto il dolore del distacco diversamente, forse non avrebbe “sbandato”. Quel che è certo è che Bruno ha pagato un prezzo troppo alto per il suo gesto di grande dignità e senso civico. Durante il rito funebre viene letto il passo del Vangelo, scelto dal vescovo Bregantini, nel quale Gesù resuscita l’unico figlio di una madre vedova. Il presule lo commenta così: “Noi non possiamo ridare la vita a Bruno, ma possiamo ridare dignità a lui, alla sua famiglia ed alla città tutta. Bisogna rivalutare il gesto tenace, coerente che Bruno ha fatto collaborando con la giustizia”. A proposito dei collaboratori di giustizia Bregantini sottolinea: “C’è una cattiva coscienza civica in città, si ritiene assassino chi denuncia il male non chi lo fa. La conversione di Bruno, la decisione di andare controcorrente è un gesto eroico di coraggio”. Bregantini lancia poi un appello per non dimenticare: “Dobbiamo creare un segno in città per questo giovane, intitolargli una piazza, una via, una scuola; un chicco di grano che abbia la forza di crescere”. Il presule durante l’omelia chiede vicinanza, solidarietà autentica e modifiche più efficaci alla legge sui collaboratori e sui testimoni di giustizia. Nessuno è immune dal dolore, dalla solitudine, dalla fragilità, ognuno di noi ha limiti, debolezze, ma possono essere colmati con la forza dei sentimenti. L’auspicio è che la società civile rifletta seriamente sul gesto di Bruno Piccolo, affinché la sua morte non sia vana. Forse saranno utili le parole lette da un bambino, il nipote di Bruno Piccolo, durante il rito funebre: “Preghiamo perché Dio ci aiuti a sopportare questo distacco ultimo e perché zio Bruno possa trovare finalmente la pace”.
Emanuela Ientile
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