GIUSEPPE CALCERANO,
ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO E… DEL FUTURO!
Giuseppe Calcerano è il marito di una mia carissima amica di vecchia data che si chiama Nada. Nada mi fa dono di un libro appena scritto dal marito, “Il Supermondo, La scoperta del gioco del Supermondo con la terra ed altri racconti”, ilmiolibro.it, 2012 per un giudizio da lettrice non certo da critica letteraria: scopro subito che la letteratura di¬venta per Giuseppe, come per tutti coloro che scrivono, luogo privilegiato nel quale dare senso alla pro¬pria vita salvandola dell’oblio.
Così, due dei tre racconti che compongono la raccolta, hanno carattere autobiografico. L’autobiografia è un genere letterario che il critico letterario francese Philippe Lejeune ha definito come “il racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità”. Tutti gli scrittori sono un po’ autobiografici ma il merito sta nel superare il proprio mondo per allargarlo fino all’universalità dell’uomo.
Giuseppe ripercorre gli anni del liceo e dell’Università e, nella sua fluida narrazione, due aspetti mi colpiscono. Uno è un tratto della sua personalità, la curiosità, senza la quale nessun progresso è possibile e alla quale sono molto sensibile anche io tanto da subirne continuamente il fascino! La “curiosità” di leggere questo nuovo libro supera la volontà di concludere la lettura di “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez… E ne varrà la pena perché non rimarrò delusa!
L’altro aspetto è il rapporto sensuale che Giuseppe ha con il mare, con la balneazione, rapporto che mi fa pensare a Albert Camus e che solo chi è nato sulle rive del Mediterraneo può così intensamente sentire. Osserva Camus della sua Algeria: In primavera, Tipasa è abitata dagli dei e gli dei parlano nel sole e nell’odore degli assenzi, nel mare corazzato d’argento, nel cielo d’un blu crudo, fra le rovine coperte di fiori e nelle grosse bolle di luce, fra i mucchi di pietre. In certe ore la campagna è nera di sole. Gli occhi tentano invano di cogliere qualcosa che non sian le gocce di luce e di colore che tremano sulle ciglia. Il voluminoso odore delle piante aromatiche raschia in gola e soffoca nella calura enorme. All’estremità del paesaggio, posso vedere a stento la massa scura dello Chenoua che ha la base fra le colline intorno al villaggio, e si muove con ritmo deciso e pesante per andare ad accosciarsi nel mare (1). Dice Giuseppe della sua bella terra: e, mentre il buio, interrotto solo da uno spicchio di luna, avvolgeva l’isola sprovvista di corrente elettrica, corremmo a buttarci nell’acqua nera e densa che mi regalò la più bella nuotata della mia vita (p. 144).
Entrambi sono accecati e assetati d’estate, di cielo, di sole, di profumi…
Nell’ambito del passato – del tempo perduto proustiano – una particolare riflessione merita il capitolo dedicato alla guerra: fin dal mondo classico (greco – romano) la guerra è considerata come prova della virtù militare, di coraggio e di amor di patria ma qui è vista più con gli occhi di un bambino di cinque anni per il quale lo sconvolgimento della vita famigliare e l’assenza del padre sono avvenimenti insopportabili e indimenticabili. Mediatrice e perno della centralità della realtà della guerra è la figura della madre dello scrittore, che continua a suonare il pianoforte cercando di rassicurare i figli.
E il futuro? Si affaccia con il primo racconto, quello in cui il protagonista asserisce che tutte le cose viventi sono in realtà dei computer (p. 15), dei robot e incontra un appartenente al Supermondo (una di queste bolle venne a posarsi sul prato del mio giardino – p. 9): noi del Supermondo siamo energia pura, intelligenza pura e, semplicemente, esistiamo. Non chiedermi da quando, perché ti ho detto che nel Supermondo, che contiene tutto, il tempo non esiste, quindi la risposta per te sarebbe: esistiamo da sempre e sempre esisteremo ossia, semplicemente, siamo eterni “ (p. 17).
I BAMBINI GIOCANO
diBertold Brecht
I bambini giocano alla guerra.
E’ raro che giochino alla pace
perché gli adulti
da sempre fanno la guerra,
tu fai “pum” e ridi;
il soldato spara
e un altro uomo
non ride più.
E’ la guerra.
C’è un altro gioco
da inventare:
far sorridere il mondo,
non farlo piangere.
Pace vuol dire
che non a tutti piace
lo stesso gioco,
che i tuoi giocattoli
piacciono anche
agli altri bimbi
che spesso non ne hanno,
perché ne hai troppi tu;
che i disegni degli altri bambini
non sono dei pasticci;
che la tua mamma
non è solo tutta tua;
che tutti i bambini
sono tuoi amici.
E pace è ancora
non avere fame
non avere freddo
non avere paura.
Fausta Genziana Le Piane
(1) Albert Camus, L’estate e altri saggi solari, traduzione di C. Pastura e Silvio Perrella, Bompiani
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