Recensione di Mirella Morelli
Come considerare “L’età bianca”: un romanzo di formazione? Un romanzo pasicologico-intimistico? Un romanzo di costume? Un’autobiografia?
Molto probabilmente è un’autobiografia che include tutte le precedenti definizioni.
“L’età bianca” è difatti una storia vera, socialmente ben contestualizzata, che ripercorre – attraverso la maturazione alla vita dello scrittore Alessandro Moscè – molti eventi che hanno segnato la società italiana degli anni Ottanta e Novanta.
La narrazione autobiografica sceglie la più impersonale terza persona, come se Alessandro osservasse dall’esterno eventi non suoi di cui ci fa la cronaca, in un azzeccato tempo presente che ha un preciso intento: rendere estremamente attuale, urgente e senza soluzione di continuità ogni accadimento del passato non ancora risolto.
Perchè la verità è che gli eventi di ieri non si sono mai conclusi, fino a farne ancora un drammatico oggi: Alessandro è fermo lì, ancora e sempre lì, a quel 1983 in cui si ammalò e poi salvò da un terribile sarcoma di Ewing. A quell’adolescenza che che dà il titolo al libro e che lo scrittore definisce “L’età bianca”, appunto, per la sua innocenza.
L’ieri che è l’oggi, fermo immobile.
“Va tutto bene” disse Mario Campanacci.
“Grazie” rispose la madre di Alessandro.
“Non sembra, ma sei un colosso”
“Un colosso?” chiese.
“Già. Solo un altro caso mi è capitato. Gli altri se ne sono andati. Ma tu, a quale santo ti sei raccomandato?”
E’ la domanda che gli pone e si pone il luminare che lo ha operato.
La domanda che al contrario Alessandro sembra continuare a porsi negli anni è: come fa la vita a riprendere quando ci accade qualcosa di terribile, e poi di miracoloso, infine quasi di sovrumano?
Come affrontare e raccontare all’altra metà del cielo -Elena, l’amore dell’adolescenza- di essere quasi un semidio?
Ancora, come far capire a chi non ha aspettato con noi lastre, scintigrafie, TAC, interventi ed ansie di referti; a chi non ha visto al proprio fianco bambini con braccia e gambe amputate poi morire, e genitori attoniti al capezzale, la disperazione di essere sopravvissuti?
Alessandro ha questo segreto, nel suo passato.
E finché non riuscirà a raccontarlo sarà sempre lì.
Come in un fermo immagine.
Il romanzo fa un balzo in avanti fino a venti anni dopo, quando Alessandro Moscè è ormai un giornalista e uno scrittore di successo che ha avuto la forza di raccontare in un precedente libro la sconfitta della malattia; eppure non ha il coraggio di parlarne intimamente a lei: la ragazzina simbolo de “L’età bianca” diventata donna, ormai sposata e con figli, ma con la quale manca perfino il saluto per strada… fino a quando capisce che non può continuare a sognarla e mitizzarla, cercandola in ogni altra donna:
“Alessandro deve dire molto di più a Elena (…)
Non è facile vincere la timidezza con battute scherzose.
Ora Elena sorride un po’ più rilassata.
Sullo sfondo si erge il Palazzo del Podestà.
Il monumento pubblico costruito da bozze in pietra di Vallemontagnana corona Elena come spuntasse dai merli e dalle monofore della facciata.”
Il romanzo “L’età bianca”, pur nell’unità di racconto, contiene in sé più atmosfere ed ognuno può trovarvi e preferire la propria.
La prima parte è come un vagare della mente. Un Alessandro del tutto immerso in se stesso, bloccato sull’età giovanile, concentrato su un amore che lo accompagna silenziosamente da sempre, in una sorta di negazione della vita del “dopo” e un perdurare della malattia nell’animo. Qui la scrittura è pensosa, sognatrice, intima e a tratti sofferta.
La seconda parte del romanzo ha invece l’atmosfera della determinazione: rappresenta l’oggi che deve divenire per davvero il presente.
Si sente il respiro di Alessandro che guarda il mondo esterno rendendosi conto che per tutti la vita è continuata…
Anche per lui, che ora deve affrontarla per davvero, così come deve affrontare una Elena ormai donna adulta. Ora la scrittura si fa dapprima ariosa e quasi spensierata, per poi prendere sopravvento uno stile incalzante, frenetico, a testimoniare l’urgenza di riprendersi il presente dopo tanti fermo immagine.
C’è bisogno però di un viaggio a Bologna perché il cerchio si chiuda, anche se è chiaro che Elena è solo una comprimaria, una scusa per darsi un motivo a riappropriarsi della propria esistenza. Una comparsa, in un dramma tutto proprio.
“Volevo che vedessi questo posto orrendo.”
“L’ho visto, andiamocene.”
“Non hai visto i morti.”
“Quei bambini non torneranno più. Fattene una ragione. Basta. Ne abbiamo parlato mille volte.”
“Non lo accetto”(…)
“Il tuo difetto è di non perdonarti. Tu vivo, gli altri morti. Non perdoni la tua sopravvivenza. Come è successo a qualche internato nei campi di concentramento.”
Lasciali andare! -dice Elena, riferendosi ai bambini che erano con lui in ospedale e che ha visto morire. Lasciali andare!- è la supplica che gli rivolge allorchè tornano all’Ospedale Ortopedico Rizzoli, dove Alessandro violenta e devasta e spacca le stanze vecchie e abbandonate, lì dove ancora dimorano tutti i suoi fantasmi, quelli che gli impediscono una ”esistenza viva” per davvero.
E’ la parte migliore de “L’età bianca” questa del viaggio fino al camerone maledetto. Il pathos è davvero elevato.
Si entra e poi esce da pagine di disperazione con lo scrittore, si affrontano insieme a lui le paure, per sconfiggere finalmente i draghi: le povere anime innocenti cui non è stato fatto lo stesso dono fatto a lui – continuare a vivere!
In conclusione mi sento di definire “L’età bianca” di Alessandro Moscè come la storia di chi è nato tre volte: la prima, anagraficamente; la seconda, quando si è salvato dalla malattia rarissima; la terza, quando libera i suoi fantasmi e può iniziare a vivere, convincendosi ora davvero –come dice nella dedica iniziale– che non morirà mai.
Sinossi:
Dopo trent’anni Alessandro incontra il suo amore giovanile, Elena, che lo aveva rifiutato.
Questa volta instaura con lei una complicità sentimentale che prende il sopravvento e investe il mondo di entrambi, chiuso attorno alle abitudini della provincia.
Quasi per una resa dei conti con il destino, Alessandro, accompagnato da Elena, si reca nell’ospedale in cui era stato ricoverato da bambino e da dove sorprendentemente era uscito vivo.
Davanti all’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, tornano a galla i ricordi: le partite della domenica “in bianco e nero”, l’idolo dell’infanzia Giorgio Chinaglia, il centravanti della Lazio nel frattempo scomparso, ma affiora anche la consapevolezza, un po’ dolce e un po’ amara, che prima o poi bisogna dare un taglio netto alla nostalgia e alle malinconie e aprire un capitolo nuovo dell’esistenza.
Se ne “Il talento della malattia” l’autore raccontava la guarigione da un terribile sarcoma di Ewing avvenuta negli anni Ottanta, oltre che per le cure mediche, anche grazie alla sua passione per il calcio, ne “L’età bianca” affronta la seduzione dell’adolescenza e i suoi tormenti, l’amore, la reticenza nel donarsi e il timore di mettersi a nudo, la passione per la scrittura e l’incontro con grandi poeti contemporanei come Mario Luzi, nella memorabile cena in un ristorante di Senigallia.
Un libro che parte da una vicenda autobiografica, attraversa l’Italia degli anni Ottanta e Novanta e alla fine si rivela una storia universale.
Avagliano Editore 2016
“L’età bianca” di Alessandro Moscè – Cultura al Femminile
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