di Claudio Angelini

Nel secolo XX si sono palesate in Europa, da un punto di vista politico e culturale, gravi ineguaglianze e ingiustizie che hanno travagliato la storia dell’uomo. E, parlando di poesia, dobbiamo riconoscere che il XX secolo ha avuto di essa visioni e interpretazioni parziali. Vogliamo qui ricordarne brevemente alcune fra le più importanti, per dimostrare che i critici si disponevano solitamente ad osservare l’arte e la poesia da una prospettiva limitata, che era quella della classe non solo sociale, ma culturale, economica e politica cui appartenevano.
Tra fine Ottocento e i primi decenni del Novecento s’impone in Italia la figura di Benedetto Croce, di cui peraltro abbiamo sempre ammirato la limpidissima prosa. Il Croce prende anzitutto posizione contro il positivismo, lo scientismo e il naturalismo di fine 800, di cui intuisce l’evoluzione in senso materialista – socialista. Ma certo egli nella sua speculazione riflette gli interessi della borghesia fondiaria d’origine borbonica della seconda metà del secolo decimonono. Il filosofo abruzzese, liberale in politica, crede nello storicismo e nello spirito assoluto; ma certo per lui lo spirito non soffia dove vuole. Un artista è tale se coltiva se stesso nell’ordine, nel ritiro, nella quiete della contemplazione che può offrire solo una condizione sociale agiata. I ribelli, i disordinati, i “maledetti”, per Croce non hanno titolo per chiamarsi artisti. Noti sono del Croce la reticenza sui problemi sociali, psicologici, il disprezzo per il verismo che per lui era la rappresentazione del brutto, e la sua condanna senza appello non solo di quasi tutto il barocco ma anche dei grandi scrittori del decadentismo quali Rimbaud, Baudelaire (che salva solo per alcune poesie) e persino Proust. Fatto curioso, infine, il disprezzo che Croce aveva per Freud e la psicanalisi. E possiamo capirne il perché: nella dottrina di Freud sopravvive una concezione di tipo positivista o iperscientifico della realtà. Anch’essa infatti rispecchia l’estrazione del suo fondatore, che era di origine e mentalità borghese-ebraica, mercantile-liberista. Per Freud l’artista è una sorta di genio folle nel quale l’istinto sessuale si è sublimato dando luogo a quell’ aspetto particolare del Super-Io che è appunto l’arte. E’ evidente il debito di Freud, dello scienziato, con le filosofie irrazionali di Schopenhauer e di Nietzsche. Per Freud dunque anche l’artista è un uomo represso nei suoi istinti inconsci, che comunque riesce ad esprimersi, sia pure in maniera sublimata, come dice lui. Certo, lo scienziato viennese non è nemmeno sfiorato dall’idea che l’artista, spesso, è un uomo che è già fortunato quando a malapena riesca a manifestare qualcosa di ciò che ha dentro, cioè delle sue aspirazioni coscienti, perché letteralmente travolto e schiacciato dai meccanismi d’una società omologata dal potere e organizzata in maniera più che classista, castale, per quanto attiene a ogni forma d’espressione.
Dall’una e dall’altra estetica, quella di Croce e quella di Freud, è esclusa in ogni caso una prospettiva metafisica dell’arte e dell’individuo, che vengono considerati solo in relazione alla classe di appartenenza dell’individuo stesso. E qui appare una prima antinomia, fra potere della scienza e suggestione delle manifestazioni irrazionali. Freud, che nel suo approccio scientifico all’animo dell’uomo aveva creato il concetto d’inconscio, si rendeva tuttavia conto che la psicanalisi non avrebbe mai potuto divenire scienza, altrimenti sarebbe crollato il concetto stesso d’inconscio su cui si reggeva. Del resto, la contraddizione è insita nel pensiero stesso del citato Nietzsche, e nella sua concezione classista dell’arte; l’individuo comune, dice Nietzsche, è incapace di arte perché naturalmente pigro. La vera arte la crea l’individuo d’eccezione che, conquistando il potere, attua una nuova concezione del mondo. Ma qui i risvolti del discorso sono molto attuali; Nietzsche infatti non dice che nell’individuo la pigrizia, e la mediocrità, sono indotte proprio dal potere, comunque conseguito. E’ il potere infatti a essere fatalmente pigro; il motivo principale per cui agisce, finché agisce, è quello di escludere gli altri e mantenere se stesso, cioè godersi, nella pigrizia, gli agi e i privilegi del proprio stato, del potere, appunto. Tutte queste antinomie, o contraddizioni, sono dunque possibili quando manchi, in una concezione estetica generale, una visione delle aspirazioni più profonde e autentiche dell’animo umano. Aggiungiamo qualche altra breve considerazione, prima di arrivare alle conclusioni. Sappiamo che negli anni 60-70 in Europa certa parte del pensiero marxista s’è appropriata del substrato scientifico, o presunto tale, delle tesi freudiane. E questo dopo che per decenni la psicanalisi era stata, nell’ex Unione Sovietica, bollata col marchio d’infamia perché presentata come scienza degenerata al servizio della società borghese, corrotta e alienata dai suoi vizi endemici. Là dove per lo scienziato viennese all’origine del conflitto, o del trauma psicologico, con la violenza che ne può conseguire, c’è il condizionamento culturale e religioso (mai sociale; la psicanalisi era, ed è ancora, un sussidio terapeutico per ricchi), per l’estetica strutturalista di matrice marxista all’origine di tutto c’è la cosiddetta struttura sociale. Si tratta d’un concetto non molto chiaro, in cui però grossomodo si afferma che l’uomo (che ora è forma, e non più sostanza), volendo rimuovere tutti gli ostacoli posti al suo essere, alla sua azione, finisce col perdere se stesso nelle maglie della struttura che lo condiziona, al punto da annullarlo. Anche perché lo strutturalismo studia non l’uomo, ma il complesso trasversale dei suoi condizionamenti culturali, religiosi e sociali. L’arte ritorna così ad essere una decifrazione dei modi in cui il mondo agisce sull’inconscio, ma inconscio non significa più individuo (l’uomo è morto, così come per Nietzsche era morto Dio), significa struttura, cioè quasi un’entità kantiana astratta e trascendente. Sono queste le insanabili antinomie, avrebbe detto Kant, in cui cade il pensiero contemporaneo. Non intendiamo dilungarci; si dice che oggi l’umanità vada verso un superamento delle culture nazionali, e verso la cosiddetta globalizzazione. Sarebbe un bene se delle varie culture si mantenesse tutto ciò che per profondità ed estensione di significati è diventato patrimonio universale umano e si consentisse, pur nell’attuazione del mutamento, a tutto ciò che può diventar parte di questo patrimonio, di diventarlo. La poesia allora sarebbe investita d’un ruolo d’importanza primaria. Potrebbe non più essere espressione minoritaria di classe o cultura; potrebbe invece rinvenire, a somiglianza d’un credo religioso che continuamente s’approfondisca e si rinnovi nell’impegno, ogni elemento atto ad accomunare gli uomini, anziché a dividerli. In altre parole potrebbe porsi al di sopra del contingente non solo in senso temporale, ma anche spaziale, e attingere l’essenza primordiale, metafisica della natura umana. E’ auspicabile dunque che nel futuro si esprima una poesia nei cui valori di forma, ritmo e contenuti coesistano e si riconoscano le aspirazioni non più d’una classe singola, ma d’ogni comunità, d’ogni popolo ed etnia che costituiscano un’unica grande società e nazione, la nazione degli uomini del mondo.

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