di Renato Filippelli

Rec. Claudio Angelini

fatti - DAI 
 FATTI ALLE PAROLE 

Conoscevamo Renato Filippelli (già docente all’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa “di Napoli, filologo, poeta, critico) come colui che celebra poeticamente l’”epos” del sentimento forte, genuino, sorgivo della gente fra cui ha avuto i natali, appartenente alla civiltà agricolo–patriarcale del Lazio meridionale, ora pressoché scomparsa. Il registro del suo stile era ricco e vario, a seconda che l’autore intrecciasse alle vicende della comunità, conteste soprattutto di lavoro, sacrificio e affetti familiari, i riferimenti alla sua storia personale, scandita da eventi, simili a quelli dei conterranei, connessi alla terra o al distacco da essa, ora tristi, ora di festosa coralità. E la sua parola era altamente suggestiva, come quella che dalla partecipazione fantastica tragga materia di creazione e rappresentazione. Ora, il titolo di questo nuovo volume, molto accurato nella forma (“Dai fatti alle parole”, pagg.80, Sigma libri editore, € 9,00), condensa in sé il nuovo intento poetico dell’autore, che non è più quello di far balzare l’immagine, o l’azione, dalla parola. Nel Vangelo di Giovanni il Verbo, la Parola, si fece carne, e divenne fatto, realtà. In questo libro di Filippelli l’autore, rievocando i fatti, inventa e pone la parola, che è nostalgica e lirica sintesi del fatto. In questa fase della vita, umana e artistica, di Filippelli, il verso si fa più delicato, raccolto, soffuso d’una musica lieve come una brezza;  il suo compito infatti

non è più quello d’esaltare, o plasmare, ma di lenire, riconciliare. E’ un volume di liriche, questo di Filippelli, che assomiglia a un diario; il poeta vi trascrive alcune quotidiane esperienze che egli vive con i suoi familiari più stretti, i figli, i nipoti, e persino con animali domestici. Sullo sfondo d’una natura spesso scabra, benché sempre amata, l’elocuzione contenuta tende ad addolcire i toni del dramma, in cui si contengono gli interrogativi più inquietanti dell’esistenza, quelli ai quali solo la fede può dare risposta. Benché, per la concisione stessa dei testi, talune questioni sembrino a volte sfumare nelle probabilità senza fine delle cose, bisogna riconoscere a Filippelli d’aver elaborato, nella presente silloge, un modello letterario che potremmo definire “idillio morale”. Una espressione lirica cioè, in cui il sentimento nostalgico convive con la ricerca morale, in un breve ma denso ambito metrico. E non c’è, si badi, incompatibilità di forme e contenuti fra quest’ultima fatica di Filippelli e i volumi poetici precedenti, fra l’io giovane e l’io maturo che presagisce il declino di sé e delle cose intorno a sé. Il primo cercava nel silenzio l’intensità del sentimento, il secondo cerca nel silenzio il significato di ciò che è stato, ma come se quel significato fosse il sentimento supremo, dispensatore d’oblio. E’ quanto, ad esempio, emerge da una lirica come “… Di un tardivo cultore del silenzio”, dove si legge: “Svezzami/ dalle parole, futile mia gloria/ . Oppure il poeta è proteso verso un simbolo definitivo, come nella lirica “Di un padre in vena di generose confidenze a Dio”, in cui traspare il ritegno, da parte dell’autore, di dare ai familiari visione del proprio invecchiare, quasi si trattasse di disperdersi in un mare buio, che pure dona sensazioni arcane e primigenie, grazie a cui è lecito sperare che l’enorme distesa, con dolci, folgoranti immagini in movimento, si tramuti a un tratto nella beatitudine celeste. Lo sviluppo tematico, in questo volume di Filippelli, se non è molteplice e articolato come nelle raccolte precedenti, è tuttavia più profondo, e più sicuro, quasi che il poeta, individuato il nucleo del suo discorso, procedesse per deduzione, con tocco lieve e suadente. Così nella lirica “… Di un vecchio grato all’indulgenza del figlio”, notiamo che Filippelli tratta il mondo fenomenico come causa d’un nuovo rapporto fra padre e figlio. Il figlio non è più guardato come si guarda mentalmente a un progetto, ma “sentito” come richiamo sempre più forte all’esame di coscienza, al bilancio. Che è positivo, perché il suo animo ora, più che il corpo, è contemplato come frutto d’amore. I passati contrasti, con le persone e gli accadimenti, generano ora immagini blande (“… Di un testimone di stranezze primaverili”), crepuscolari quasi in senso letterale. Non c’è più strascico di fede in lotta, in queste espressioni, semmai testimonianza di fiduciosa rassegnazione in un ordine eterno delle cose. Anche questa raccolta s’espande come sfogo dell’animo, in Filippelli, non foss’altro perché, come in certi squarci in cui pare cerchi la complicità del lettore (“… Di cacciatore in cacciatore”), all’ansia di comunicare s’alterna la ricerca d’intima solitudine, in cui noi soltanto possiamo obiettivamente giudicarci. Ma al fondo della propria coscienza Renato Filippelli, in quest’ultimo gioiello poetico di cui ci ha fatto dono, rinviene, manifestato talora nella maniera più innocente, un desiderio di riconciliazione universale, di dare cioè un senso benigno e provvidenziale a tutte le cose. La sua attitudine talora è francescana, talaltra ancora incline lievemente al dubbio, ma l’armonia del verso spesso è stupenda e sembra porsi in cima a ogni cosa: ”Un vento/ di flauti si spegneva nell’arreso/ silenzio…” (“… Un vecchio camminante nei luoghi dell’infanzia”). Questo dimostra che Filippelli è vero interprete della sensibilità moderna, ma con salde radici antiche.

Claudio Angelini

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