di Nadia Angelini

Tutti conoscono quelle famose parole “Sao ko kelle terre…” che vengono considerate le prime parole scritte della nascente lingua italiana… le prime parole “in volgare” e che sono contenute nel celeberrimo documento definito come “carta capuana” o “placito cassinese”.
In tutti i documenti, come anche sentenze “di tribunale”, tutto era scritto ancora in latino.
Anche il placito cassinese lo è, solo che a un certo punto il notaio “verbalizzante” invece di riportare una testimonianza in latino, ha riportato le parole dei tre testimoni esattamente così come venivano pronunciate dagli stessi, quindi in lingua volgare, cioè in dialetto, così come la gente parlava.
In questo caso si stava discutendo sul possesso di una terra, quindi una vera e propria causa, questo è abbastanza risaputo.
Quello che invece pochi sanno, è che le terre per cui si stava litigando, erano in territorio di Aquino, e il nome di Aquino viene ripetuto più di una volta in questo documento così importante, documento dove sono contenute le prime parole “italiane” e per questo all’anno 960 si fa risalire la nascita della lingua italiana, anno in cui la “carta” viene redatta.
Questa preziosa relazione-sentenza verbalizzata e firmata dal giudice, è oggi custodita tra i tesori dell’archivio dell’abbazia di Montecassino.
Ecco come lo storico Nicola Cilento, ricostruisce la vicenda trasmessaci dalla “carta capuana”….

In una giornata di marzo dell’anno 960, il principe dei Longobardi di Capua, Landolfo II, e i suoi figli Pandolfo I e Landolfo III, sedevano dinanzi al loro “Palatium” a render giustizia: come già i loro antichi padri nelle radure delle grandi selve germaniche, essi davano all’aperto il loro “placito” solenne, prerogativa eminente del loro potere sovrano.
Era di primavera, e nella gran piana della Campania, solcata dal Volturno, era già accestita e verdeggiava la canapa, il frutice sottile che da secoli trionfa fra le culture di quella terra “felice”.
C’era gran folla di maggiorenti, chierici e laici, e di uomini liberi appartenenti all’aristocrazia militare che dominava la regione: i signori dei centri maggiori del principato longobardo di Capua-Benevento, i gastaldi o conti di Teano, di Aquino, di Caiazzo, di Alife, di Venafro, di Isernia. Al giudice Arichisi si presentò il venerabile Aligerno, abate del monastero di S. Benedetto di Montecassino, chiamato in causa da un ricco proprietario di Aquino, tal Rodelgrimo, figlio di Lapo. L’abate era accompagnato da Pietro, chierico e notaio, avvocato del monastero e da tre testimoni: il monaco e diacono Teodemondo, il monaco e chierico Mari, il chierico e notaio Gariperto.
Nella lite giudiziaria, promossa da Rodelgrimo, l’abate gli contestava il possesso di alcune terre, già appartenenti al monastero e da lui usurpate.Rodelgrimo esibiva l’”abbreviatura” in cui erano descritti, con la consueta precisione propria dei documenti consimili, i confini delle terre contestate, site nel territorio di Aquino, e dichiarava che esse gli erano toccate in eredità dal padre e dall’avo. Dal canto suo l’abate si disse disposto a dimostrare con prove testimoniali che quelle terre erano appartenute in passato, e per trenta anni, a S. Benedetto.
Presi separatamente dal giudice, i tre uomini di Aligerno, tenendo con la mano levata l’”abbreviatura”, ciascuno per suo conto, resero la loro testimonianza con la celebre formula: “Sao ko kelle, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti”.
Furono poi invitati a giurarla nelle mani dello stesso Rodelgrimo, il quale reggeva gli Evangeli che i testimoni toccarono con la destra. Rodelgrimo non fu in grado, a sua volta, di produrre neppure un testimone a sostegno delle sue affermazioni: perse così la lite, accettando, in base alla prescrizione acquisitiva, l’istituto cioè della usucapione passato da diritto romano in quello longobardo, il buon diritto di S. Benedetto sulle terre contestate; che se egli e i suoi eredi avessero in futuro presunto di violare la sentenza, sarebbero stati multati di “centum bizantios solidos”.
Conclusasi in tale modo la vertenza, il giudice dette incarico al notaio Atenolfo, lì presente, di rogare il giudicato, che fu sottoscritto dal medesimo Atenolfo, dal giudice e da altri due notai.
Questo placito è giunto sino a noi, preziosamente serbato nell’archivio di Montecassino, e primo a pubblicarlo, nel 1734, fu appunto un monaco cassinese, don Erasmo Gattola, il quale era rimasto giustamente sorpreso da “queste parole della balbettante lingua italiana, mescolata alla latinità barbarica”.

Si tratta di un gruppo compatto di quattro pergamene di argomento simile, formate da quattro placiti, precisamente tre placiti e un “memoratorio” (redatto aTeano), sulla proprietà di alcune terre appartenenti agli stessi luoghi (Capua Teano e Sessa).
I placiti riguardano beni di tre monasteri che dipendono da Montecassino e sono stati pronunciati nei principati longobardi di Capua e di Benevento .All’infuori delle prime tre carte di Teano, il “memoratorio”, il tipo è costante nelle sue formule. Dapprima il giudice comunica alle parti il testo della formula, in seguito tre testimoni devono pronunciarla separatamente. In questo modo la formula viene ripetuta, in tre documenti, quattro volte.
Era l’anno del Signore 960…. nel 1960, in tutta Italia è stato celebrato il millenario della nascita della nostra lingua.

L’Inizio rudimentale del “Volgare Italiano”

Quando gli uomini, in modo semplice e rudimentale, cominciarono ad esprimere i loro sentimenti per iscritto, si cominciarono ad avere le prime opere di letteratura.
La letteratura è nata, infatti, dal desiderio innato nell’uomo di esprimere i suoi sentimenti e di comunicare agli altri uomini le sue idee. Sappiamo che anche prima che fosse inventata la scrittura già esistevano componimenti poetici tramandati a voce.
Poi uomini che appartengono già all’epoca in cui è usata la scrittura ricavarono da questo patrimonio poetico popolare, poemi e ballate e ne fecero opere di poesia.
Così nacque la letteratura.
I primi componimenti scritti furono opere riguardanti gli eroi nazionali: nei poemi epici (più importanti fra tutti l’Iliade e l’Odissea) si narrano appunto le gesta di eroi popolari.
La Grecia ha dato, anche in questo senso, un grande contributo artistico e letterario all’Umanità e quando divenne colonia romana trasmise a questo popolo la passione per le arti tramandando le sue opere e i suoi studi.
I romani dal canto loro ebbero il merito di esportare la loro civiltà, così arricchita, in tutto il mondo allora conosciuto, portando non solo la lingua latina a conoscenza di tutti, ma soprattutto le varie forme d’arte ivi compresa la scrittura poetica.
Purtroppo la vastità dell’impero romano rese difficile difenderne l’integrità: popolazioni barbare cominciarono a far breccia nei suoi confini finchè esso decadde.
Con la venuta dei barbari la cultura decadde e i grandi poemi vennero distrutti e bruciati e soltanto una piccola parte di essi fu salvata dai monaci che li nascosero nei monasteri. Decadde anche l’uso della lingua latina e prevalse un linguaggio misto, diverso in ogni paese. Mutata oltre alla pronuncia delle parole era anche la scrittura.
In questo modo con un lento, ma ininterrotto svolgimento, verso l’anno mille vennero a formarsi in Europa 6/7 lingue nuove: il portoghese, lo spagnolo, il provenzale, il francese, il romeno, il ladino, l’italiano.
Vennero tutte chiamate lingue neolatine (nuovolatine) o romanze.
In tali linguaggi fiorirono canti di guerra e d’amore che esprimevano, sebbene in forma poetica rudimentale, i sentimenti, gli ideali e il carattere delle nuove popolazioni.
Questa età che si inizia viene chiamata Medio Evo. Solo con la venuta di Carlo Magno nell’anno 800 si ebbe una rinascita culturale: ebbe il merito di promuovere l’istruzione e per tale motivo prescrisse che in ogni monastero e in ogni chiesa fossero istituite scuole per tutti, promosse lo studio del latino e inoltre arricchì gli ecclesiastici di donazioni affinchè venissero ricopiate le opere dell’antica letteratura latina.
In questo periodo di rinascita culturale, lo stile è ben diverso da quello classico: le opere letterarie sono semplici e primitive ma sentite e spontanee.
E’ questo il periodo della poesia epica che cantava le gesta degli eroi, ricordiamo fra tutti “Il cantar del mio Cid”, “I Nibelunghi”. Ma la “battaglia del latino” venne persa per il semplice motivo che il popolo non capiva più la lingua di Cicerone ed esprimeva i propri sentimenti nella nuova lingua.
Del fatto che il popolo ormai parlava e capiva solo il volgare, si rese conto per prima la Chiesa e corse ai ripari, autorizzando, nel Concilio di Tours (813 d.c.) i loro sarcedoti ad utilizzare il volgare affinchè tutto il popolo capisse.
Con la morte di Carlo Magno, il suo impero decadde e così anche la forma letteraria dell’epoca.
Si affermò, invece, la poesia amorosa, genere diffuso soprattutto nella Francia meridionale.
Il rinnovamento della letteratura fu il frutto di un felice incontro tra il nord ed il sud della Francia: incontro agevolato da una singolare figura di donna: la principessa Eleonora d’Aquitania, nipote del primo trovatore di cui abbiamo notizia, Guglielmo di Poitier.
Fu, infatti la lirica dei trovatori della Provenza a portare note di malinconia e di dolcezza nella letteratura che fino ad allora aveva trattato solo temi eroici. La poesia si sviluppò maggiormente nei castelli feudali e i componimenti poetici erano sempre accompagnati anche da musica.
Tema principale erano le dame e i cavalieri. L’arte trovadorica costituisce la prima importante manifestazione della poesie e della musica cosidetta profana. e prepara la strada all’Ars Nova Fiorentina.
In Italia però, per molti secoli, la lingua volgare, da poco nata, servì solo per gli usi comuni della vita quotidiana.
I letterati quando volevano comporre le loro opere si servivano ancora del latino, che consideravano più nobile e più adatto all’arte.
Ma venne il giorno in cui il latino cominciò a cedere il posto al volgare anche nelle opere letterarie e ciò accadde quando si diffusero i componimenti poetici francesi in lingua d’oil dapprima e poi imitati in un linguaggio misto francoveneto.

Il Volgare alla reggia siciliana di Federico II

La poesia provenzale, di carattere più raffinato, si diffuse maggiormente tra le classi colte, in particolare in una ambiente simile, cioè in una corte: quella di Federico II di Sicilia e di suo figlio Manfredi, per merito dei quali nacque la prima scuola poetica italiana che fù detta “La Scuola Siciliana”.
Tra i più importanti artisti dell’epoca ci furono il bolognese Buvalelli e il mantovano Sardello, ricordati da Dante nel suo Purgatorio.
Alla corte di Federico II avvenne la grande novità: l’imitazione dei trovatori non venne più fatta in provenzale ma in dialetto siciliano, un dialetto naturalmente raffinato, quale poteva essere quello di persone colte che conoscevano almeno due lingue: il latino e il provenzale.
Tra i siciliani non ci furono poeti veramente grandi, ma la loro importanza sta nel fatto d’essere stati i primi a poetare in volgare italiano. Assieme alla poesia profana fiorì anche quella religiosa, sempre in volgare, che si diffuse specialmente in Umbria, ove visse e morì San Francesco d’Assisi, autore del primo componimento poetico in volgare che abbia veramente valore letterario: Il Cantico delle Creature.
Altro francescano che produsse opere letterarie in volgare fu Frà Jacopone da Todi, di spirito focoso e battagliero; nelle sue laudi esaltava la richiesta della punizione Divina

A me vegna la podagra,
mal de ciglio sì m’agrava;
la disenteria sia piaga
e le morroite a me se dia.

Signor mio, non è vendetta
tutta la pena c’ho ditta:
ché me creasti en tua diletta
e io t’ho morto a villania.

Nel Medioevo non tutte le opere assumevano la stessa dignità: alfabetizzazione equivaleva a studio del latino letterario, di teologia e filosofia, e bisognava essere ricchi o religiosi per poter studiare. La letteratura amorosa non si accordava con il pensiero filosofico e teologico ed era perciò relegata ad una posizione marginale, secondaria. Il pensiero religioso si esprimeva solo in latino, ma era chiara l’esigenza di non perdere il contatto coi fedeli, che ormai parlavano idiomi diversi e fu per questo motivo che i sacerdoti venivano perciò invitati a rivolgersi ai laici nel loro idioma per non trasformare la pratica religiosa in un culto senza senso per i fedeli. C’era anche la preoccupazione di rimediare all’ignoranza del basso clero, spesso incapace di somministrare i sacramenti. Nacquero a tal fine trattazioni enciclopediche e svelte operette di piccole dimensioni, importanti non tanto nella letteratura quanto per l’omogeneità culturale dell’Occidente cristiano, che rischiava infatti la frammentazione linguistica e di comunità. Questa cultura, poco ambiziosa perché preoccupata degli incolti, tocca anche l’organizzazione sociale e politica. Per formare i membri della classe dirigente Muratori traccia il modello dell’uomo politico che si ispira ai valori della giustizia e della pace, dell’onestà e della concordia, e sa circondarsi di collaboratori adatti. La trattatistica politica, la letteratura erotica e la divulgazione religiosa sono i settori di minor resistenza al passaggio del volgare perché il fine è quello di raggiungere un pubblico più largo. La diffusione della cultura si potenzia nel ‘2-300.
La cultura volgare prosegue le componenti meno elevate della tradizione mediolatina ancora nella seconda metà del ‘300 e alla metà del 14esimo secolo due opere testimoniano che certi territori continuano ad essere interdetti al volgare: Specchio della vera penitenza di Passivanti dice che è compito del clero approfondire i punti più particolari della fede, e Filocolo di Boccaccio raccomanda di evitare le sottigliezze e le profondità, perché tutti gli autori del periodo, tranne Dante, sono convinti che gli argomenti sottili siano di pertinenza del latino, che dispone di una vasta gamma di possibili adeguatezze lessicali. Gli utenti intermedi e le donne diventano i principali destinatari della letteratura volgare (c’è la necessità di far capire alle donne, che non sanno il latino, il senso della poesia amorosa). Anche Dante in un secondo tempo estese la competenza del volgare oltre che all’amore anche alla guerra e alla virtù. Il risveglio della cultura nel Basso Medioevo è dovuto alla riorganizzazione dell’istruzione scolastica: si sviluppano in quel periodo le prime università di artes, medicina, diritto e teologia. In questo modo si tendeva ad approfondire la conoscenza del latino e delle regole teoriche e concrete per imparare le tecniche di costruzione di qualunque composizione scritta fornendo quindi la possibilità di colloquiare con tutti. Una ramificazione di questo insegnamento considera le regole del discorso orale in pubblico, in tribunale e nell’organizzazione comunale. La scuola di ars dictandi assicura dunque la formazione della classe dirigente e prepara gli studenti a carriere ben remunerate. Il discorso retorico non circola solo nelle università: l’ars dictandi, nata prima e fuori dalle università, nel 12esimo secolo, fiorisce nel 2-300 anche presso le scuole non universitarie.

Istituzione delle Scuole Fiorentine

Mentre il discorso filosofico seleziona rigidamente i suoi adepti, nel settore della retorica maestri e dirigenti degli uffici amministrativi e delle organizzazioni statali sono concordi nell’invocare l’accesso più largo alla scuola di ars dictandi, per favorire un reggimento civile e pacifico. Boncompagno da Signa alla composizione di libri di testo per studenti bolognesi unisce un’attività disinteressata di argomento morale sull’amicizia, sulla vecchiaia, sull’amore.Un’altra figura professionale importante per le vicende e l’espansione del volgare è quella del notaio, che fungeva da interprete traducendo i documenti latini. La retorica è connessa alla filosofia, che prepara alla facoltà giuridica. L’articolazione delle scuole fiorentine riguardava la scuola elementare, per l’alfabetizzazione dei fanciulli, seguita da due indirizzi: uno centrato sulla grammatica (latino) e sulla logica (filosofia), e uno più professionale, che aveva il compito di preparare i mercanti e gli operatori delle aziende commerciali (scritture contabili e lettere mercantili). La cultura dei mercanti s’indirizza, per esigenze di viaggio, alle lingue vive. Così come l’ars dictandi stimola la produzione extrascolastica, che contribuisce alla rinascita della letteratura, così i libri di conti e le lettere d’affari favoriscono la scrittura mercantesca, anche dal punto di vista della confezione del libro mercantile, piccolo, tascabile, poco elegante. Il volgare dei mercanti e quello dei maestri di retorica non sono separati, lo scambio è continuo. Ciò che infatti ci permette di parlare di una letteratura italiana è la lingua, e la consapevolezza nella popolazione italiana di parlare una lingua, pur nata verso il X sec.d.C. e che si emancipa completamente dalla promiscuità col latino solo nel duecento. D’altra parte pare che le lettere dei mercanti servissero per insegnare l’alfabeto ai fanciulli, perciò il volgare poteva perfezionarsi, grazie ad una fonte capace di arricchirlo, come appunto il latino.Se l’egemonia politica a Firenze venne stroncata dalla crisi politica di fine secolo, certo è invece che il fiorentino era destinato di lì a pochi decenni ad imporsi come lingua scritta comune, precedendo di 3 secoli l’unificazione politica. Fuori Firenze, al contrario, non si riscontra la compresenza di fiorentino letterario e parlato, ovviamente per la mancanza del secondo termine. Si registra invece un triangolo i cui vertici sono il latino, il fiorentino letterario e il dialetto locale. inoltre in molti centri i dialetti si erano indeboliti a favore delle scrittorie ibride regionali (koinaì). Per esempio Boiardo non aveva conoscenza del fiorentino come lingua viva, ma l’aveva imparato dalla lettura delle opere e suppliva all’incompleta assimilazione e ai dubbi ricorrendo al latino o alla koiné padana. La strada verso la toscanizzazione non poteva naturalmente essere un processo uniforme. La lingua cambia non solo in conseguenza dell’origine geografica e della cultura, ma anche in relazione ad altri principi che si maturano nel tempo. Si verificò con il confronto tra le lettere e le armi: Orlando sosteneva che il cavaliere non può fare a meno della cultura e dei sentimenti religiosi. La supremazia delle lettere si temperava con le esigenze del mondo della prassi, guadagnando in diffusione e in realismo. Le corti offrivano uno sbocco importante agli uomini di lettere, la cui altra via era la vita religiosa. La stampa poi dal 1470 diffonde il libro (anche in volgare) sostanzialmente in toscano.
Alla fine del ‘300 e soprattutto nel ‘400 tornano a farsi sentire le esigenze del rigorismo morale e di esperienza religiosa manifestatesi nei due secoli precedenti. Il movimento prende il nome di Osservanza, nel senso del rispetto e dell’applicazione delle regole degli ordini, e investe in primo luogo i Francescani, che trovano il loro punto di forza in san Bernardino da Siena. Il popolo si affolla intorno agli oratori, rinuncia alle vanità del gioco d’azzardo o agli ornamenti femminili, le famiglie nemiche si riconciliano e così via. Tuttavia, il latino, grazie al carattere conservatore della Chiesa, restò ancora, per tutto il Duecento e oltre, lingua della cultura ed occorsero parecchi secoli perché il volgare italiano, divenuto ormai lingua letteraria e culturale, raggiungesse tutti i settori del sapere. Chiaro davanzati, riproponendo temi della scuola Siciliana così poeta:

La splendiente luce, quando apare,
in ogne scura parte dà chiarore;
cotant’ha di vertute il suo guardare,
che sovra tutti gli altri è ‘l suo splendore:

così madonna mia face alegrare,
mirando lei, chi avesse alcun dolore;
adesso lo fa in gioia ritornare,
tanto sormonta e passa il suo valore.

Firenze e laToscana con Chiaro Davanzati e Dante si avviavano alla nuova Poetica del Dolce stil novo. C’è chiara e netta propensione a riconoscere in questo sonetto la donna angelicata dell’Alighieri.

Nadia Angelini

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