Michela Murgia - Dare la vita

Dare la vita di Michela Murgia, Rizzoli 2024 – Recensione

 

Questo è l’ultimo libro di Michela Murgia. Alcune pagine le ha scritte il 7 agosto 2023, tre giorni prima di morire. Il curatore è Alessandro Giammei, professore di Letteratura italiana a Yale, nonché uno dei quattro “figli d’anima” della scrittrice. È un piccolo saggio sulla famiglia e sulla genitorialità, sul proteiforme microsistema sociale e i suoi rapporti interni, che dalla notte dei tempi è alla base di ogni collettività e di cui Murgia ci racconta vecchie e nuove mutazioni. Il linguaggio è limpido e piano, con qualche possibile inciampo nella lettura ad alta voce a causa dell’uso frequente dello schwa. L’attacco al familismo amorale (Banfield e Fasano) è schietto e intransigente: la nota tendenza italiota a favorire e privilegiare gli interessi del proprio nucleo familiare a scapito di quelli della collettività è alla radice di molti comportamenti illegali, compresi quelli delle mafie.

Murgia ci spiega la propria concezione di famiglia, che chiama queer, «interamente fondata sulla scelta reciproca». Lo fa rigettando le definizioni: «nominare vuol dire definire e definire vuol dire sigillare per sempre una parola, inchiodandola a un solo senso». Chi è queer rifiuta di recludersi nella propria identità di genere come in una gabbia, non accetta l’idea di binarismo (o questo, o quello) e di normalità, vive e si muove nel solco di «una esplicita progettualità antinormativa». Allargare semplicemente i confini della normalità senza problematizzarli non è queer. Qualche tempo fa si riteneva il coming out un atto politico, oggi non più: definirsi non è più espressione di coraggio e di libertà ma soggezione a una logica normativistica e binaria. La queerness è ineffabile come l’Uno plotiniano: di essa si può solo dire ciò che non è.

La brevissima riflessione sulla fedeltà è insieme conturbante e consolatoria come un’agnizione. «La fedeltà è l’altro nome del possesso, l’umore dove fermenta la tossina della gelosia»: lo abbiamo sempre saputo, in fondo, ma ugualmente abbiamo soggiaciuto alla logica conformista di quello pseudovalore. Abbiamo esercitato sugli altri un controllo ignobile: quello sui pensieri, sul corpo, sui comportamenti, e abbiamo lasciato che loro facessero lo stesso con noi. Abbiamo confuso la fedeltà sessuale con l’affidabilità, che è tutt’altra cosa, quella sì valore supremo, responsabilità esercitata nella più completa libertà. «Magari proverò un po’ di gelosia sessuale, ma voglio che lei si senta libero di andare a letto con altre donne purché questo non guasti il nostro amore» scriveva Simone De Beauvoir a Nelson Algren nel 1947: ecco un’attestazione d’intelligenza affettiva che forse Murgia aveva presente nel momento in cui rifletteva su questo tema.

“Prometto di non lasciarti mai” è uno dei titoli dei brevi capitoli del libro di Murgia. Ecco un esempio di impegno che nasce da un’idea granitica e grandiosa di sé e dalla paura e dalla negazione del cambiamento. Certo Murgia aveva letto Nietzsche, che, in Umano troppo umano, scrive:«Ciò che si può promettere. Si possono promettere azioni, ma non sentimenti, perché questi sono involontari. Chi promette a qualcuno di amarlo per sempre […] o di essergli sempre fedele, promette qualcosa che non è in suo potere». Le aspettative legate a promesse come queste si traducono non di rado in separazioni strazianti, quando non violente e omicide. La queerness accoglie il panta rei come strutturale al nostro mondo e alle nostre vite; ma accettare e sostenere il cambiamento non significa ridurre tutto all’effimero dell’attimo, bensì metterci in grado di rinnovare e amare l’energia vitale negli altri e in noi stessi.

Sulla maternità/paternità Murgia si esprime con chiarezza cristallina: è una scelta d’amore che non può essere ridotta a mera funzione biologica e animalesca; riprodursi deve essere inteso come generazione di volontà. Sulla Gestazione Per Altri – che Murgia opportunamente distingue dalla maternità per altri – , l’autrice subito confessa di non avere certezze. E marca la sua distanza da certo femminismo risolutamente contrario alla surrogazione in nome di un presunto legame “naturale” tra gestante e feto, che rimanda a una mistica essenzialistica di stampo aristotelico, e di un preteso cappio economico al collo delle gestanti surrogate. Murgia argomenta su questo punto non senza qualche slabbratura logica. Soprattutto mi pare un po’ forzato assimilare aborto e GPA sulla base delle ragioni economiche di entrambe le scelte. Il ragionamento di Murgia è il seguente: se la legge italiana consente l’interruzione di gravidanza per ragioni di disagio economico (art. 4 della legge 194/78), perché mai le stesse ragioni non dovrebbero consentire di prestarsi a una GPA? A me pare che abortire per ragioni economiche significhi evitare le conseguenze negative di un fatto già accaduto, cosa diversa da avviare una gravidanza surrogata per le stesse ragioni. In questo caso si decide a monte di vendere la propria capacità riproduttiva, nel primo caso si ripara a valle una falla che si è già determinata. Aggiungo che l’aborto “di necessità” resta una tragedia per la donna, vinta dalla mancanza di giustizia sociale, di occupazione e di stabilità nel lavoro. Come osserva Murgia, «nessuna dovrebbe essere costretta ad abortire o a partorire perché ha bisogno di soldi». Ma, visto come vanno le cose, risulta ormai indispensabile una legge che regolamenti la gestazione surrogata, anche al fine di porre limiti allo sfruttamento della portatrice gestazionale. Murgia insiste sull’equiparazione delle ragioni economiche sostenendo che anche nel caso delle badanti dell’Est Europa, che vengono ad accudire i nostri vecchi, si verifica una sconcia e ipocrita compravendita della povertà. Qui mi pare si possa replicare che se pure quello delle badanti fosse solo odioso sfruttamento del loro tempo sottratto agli affetti nel loro Paese, peggiore sarebbe lo sfruttamento dei corpi. Se è vero, come sostiene Murgia, che vale per la GPA lo stesso problema etico che si pone per la remunerazione di qualunque altra prestazione in condizioni di povertà, allora potremmo pensare anche alla possibilità di legalizzare la cessione di organi a pagamento. Se è possibile vendere l’uso temporaneo del proprio apparato riproduttivo (e non solo: una gravidanza comporta stress da superlavoro per tutti gli organi e apparati), perché non dovrebbe essere consentito vendere un lobo del fegato, un rene, un polmone, per le stesse insuperabili ragioni economiche?

Molto opportunamente e con l’onestà intellettuale che la contraddistingue, l’autrice trasferisce la sua riflessione sul campo fertile delle obiezioni. Se pure fosse legalizzata – sostiene –, la GPA resterebbe un’opportunità solo per gente con i soldi (minimo centocinquantamila euro a gravidanza). Inoltre restano aperte moltissime questioni legate ai rischi e ai diritti: se il bambino atteso fosse malato? Si può imporre alla gestante di abortire? Se i genitori intenzionali cambiassero idea durante la gravidanza e non volessero più quel bambino, neppure se sano? Ha il bambino il diritto di sapere com’è stato concepito? Dunque serve una regolamentazione. Prima della legge sul divorzio gli uomini se ne andavano lo stesso lasciando nei guai la moglie e i figli; prima della legge sull’aborto le donne abortivano lo stesso, spesso rimettendoci la vita. Ora chi vuole e ne ha i mezzi avvia comunque una GPA: come può uno scoglio –legale – arginare il mare – il legittimo desiderio di genitorialità –?

Non ci sembri quella della GPA una questione nuova. Basti leggere dei profeti biblici Abramo e Giacobbe, indotti dalle rispettive e infertili consorti a unirsi nella carne con schiave giovani e obbedienti al fine di generare l’attesa prole. Anche nella Bibbia resta ineludibile la questione di classe: sono le schiave a dare figli alle loro padrone; tuttavia è interessante notare che nel Vecchio Testamento è la volontà, l’intenzione dell’aspirante genitore a decretare l’appartenenza filiale, e non il seme, l’ovulo o l’utero.

Da sempre capita, nella nascita biologica, che l’esercizio dissennato della propria genitalità (etero) diventi esercizio dissennato della propria genitorialità. In quei casi il concepito giunge indesiderato e in un contesto non protetto e non strutturato. Viene”gettato nel mondo”, direbbe Heidegger, in una condizione esistenziale che non ha scelto e programmato, né lo hanno fatto per lui i suoi genitori de iure. Quanto Invece un figlio logico, cioè frutto di una scelta consapevole, di una ricerca di anni superando infinite difficoltà, è davvero desiderato, atteso, fantasticato! Ormai i figli sono eventi rari e anche le classi più disagiate non hanno bisogno di generarne come forza lavoro: un tempo i genitori impiegavano i propri bambini nelle fattorie e più tardi, con la Rivoluzione industriale, nelle fabbriche e nelle miniere. Oggi, invece, la manodopera a basso costo da sfruttare proviene da oltremare, riflette Murgia.

L’ultima parte del libro è squisita prosa lirica e risale al 2008. Esaurita la tensione dialettica, la riflessione caustica, placata l’urgenza di dire quel che andava detto, Murgia racconta a una figlia immaginaria l’età mitica di un matriarcato in cui le donne scrutavano il mare, decidevano le guerre, sventravano le bestie, danzavano al suono dolce di un flauto, partorivano tra le pietre dei menhir, legiferavano, ordivano tremente vendette, impastavano il pane, raccoglievano erbe per curare o per uccidere, facevano riti e profezie. Ma le racconta anche certe vergogne e certi dolori del femminile che appartengono alla storia più recente: donne monarchiche, nazionaliste, belliciste, senza figli, precarie, sole, ferite, rapite, uccise. «In quel mondo, ogni cosa era puttana […]Ma io glielo dirò lo stesso, perché per una madre ogni silenzio di verità è un aborto […] Io non tacerò e lei mi ascolterà».

Cristiana Bullita

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