di Letizia Lanza
da Modulazioni.it di Franco Santamaria
Scrive giustamente Lorenzo Fort nella rivista online «Senecio»: «Quante volte, nell’assistere al degrado morale della società odierna nei vari campi, dalla politica – una politica ‘urlata’, fatta di intrallazzi, inciuci, franchi tiratori, voltagabbana, dispetti (recente il caso dell’elezione di Villari alla Commissione di Vigilanza RAI: ma l’hic manebimus optime di liviana memoria è prassi consolidata) – allo spettacolo – con i reality, i grandi fratelli, il solletico agli istinti più bassi e volgari della gente – allo sport – corruzione, giri d’affari a dir poco vergognosi e scandalosi, violenza fuori e dentro gli stadi – alla vita quotidiana con sopraffazioni e angherie di ogni sorta, ebbene, quante volte nell’assistere a tutto ciò ci siamo vòlti indietro, (quasi) rimpiangendo il buon tempo andato: abbiamo applaudito al crollo della prima Repubblica e oggi (quasi) rimpiangiamo quei tempi in cui sì, è vero, erano in molti che “mangiavano”, ma per lo meno “sapevano stare a tavola”. Come a dire che oggi ancora in molti “mangiano” sulla pelle della gente comune, ma a questo aggiungono, novelli Trimalcioni, tutta la volgarità e l’arroganza dei parvenues».
Tutta una serie di atti che definire vituperevoli è dire poco.
Ai quali s’intrecciano forme ancor più gravi (se possibile) di violenza, con scene raccapriccianti divenute ormai una costante quotidiana. I casi, tutti condannabili, taluni gravi, gravissimi – veri e propri crimini – purtroppo si sprecano: tra tanti possibili esempi, e tra le relative denunce, più o meno vibranti e sincere, cito, essenziale come incisivo, l’intervento di Fabrizio Paladini su un mostruoso fatto di cronaca: «Il passatempo degli idioti e dei vigliacchi è quello di prendersela con i più deboli su cui è facile infierire. I tre di Nettuno non sono diversi da quelli di Rimini quando venne bruciato Andrea, il barbone che dormiva sulla panchina o da quelli di Pavia o di Roma. Razzismo? “Volevamo colpire un barbone, non era importante da dove venisse” ha detto il più giovane dei tre autori della violenza. Quello che conta è il gesto da condividere, il racconto da poter fare agli amici, magari col supporto del video girato col telefonino. Non è una pianificata azione di razzismo, non è questo il caso di una ritorsione xenofoba – afferma il giornalista – ma sembra più la conseguenza di un disperato vuoto cerebrale comune purtroppo a tanti. Ad aggravare il tutto c’è però il clima in cui i “diversi” sono stati spesso irresponsabilmente additati come “colpevoli” e la assoluta certezza che la pena è un optional di poco conto. Se le amministrazioni fanno della battaglia ai lavavetri, ai mendicanti, agli zingarelli l’arma demagogica per sfruttare il malcontento, è statisticamente certo che gli idioti di cui sopra si sentiranno più legittimati ad attaccare il barbone o l’immigrato. “Abbiamo picchiato un negro, e allora? Che avremmo mai fatto di male?” disse un ragazzo fermato (e subito scarcerato) nel popolare quartiere romano di Tor Bella Monaca dopo un raid contro un immigrato» (Le bravate perpetrate da idioti, «metro», 3 febbraio 2009).
A ben chiarire l’allucinante meccanica, un eloquente come particolareggiato articolo di Carlo Bonini, uscito in un altro autorevole quotidiano: «Racconta Luca, diciannove anni, che la decisione di “farsi l’indiano” l’hanno presa quando restava un euro di benzina sul contatore del self service notturno appena fuori Nettuno. Con Francesco, ventinove anni, e il ragazzino di sedici che era con loro, hanno tirato fuori una delle bocce di birra da mezzo litro che gli avevano fatto compagnia per tutta la notte e quell’euro di verde l’hanno infilato lì dentro. Sì, proprio lì dentro, anziché nel serbatoio della Twingo nera su cui avevano ossessivamente ronzato, come ogni sabato, tra Anzio e Nettuno, tra Nettuno e Anzio. Ma sì, “il razzismo non c’entra”, “solo uno scherzo al barbone”, “una bravata”, dice ai carabinieri Luca, il primo … a sciogliersi in una confessione che i militari ritengono “piena”. Diciannove anni, una vita da studente in una casa dignitosa di “una famiglia apposto” di Nettuno. Uno schizzo di rabbia e adrenalina, “un’emozione per chiudere la serata”, per vincere la noia di un sabato sera qualunque e non farla passare liscia a quel tipo dalla pelle olivastra con cui si erano “attaccati” poco prima delle 4 del mattino, quando la Twingo nera aveva raggiunto il piazzale della stazione e Navtej Singh Sidhu aveva avuto la sfortuna di incrociare i suoi passi con quelle tre ombre barcollanti. “Eravamo fatti di alcol e hashish”, dice ancora Luca. Ma abbastanza lucidi da provocare un disgraziato. Il primo che capitava. Navtej. Gli si fanno sotto in due. Gli chiedono soldi, lo insultano. Singh li manda al diavolo. Loro girano i tacchi, ma solo per promettere che non finisce lì. Il distributore di benzina notturno è lontano pochi chilometri. Il lavoretto da fare all’indiano – dice Luca – è un’idea di Francesco, 29 anni. Con la boccia di benzina gli inzupperanno gli stracci che gli coprono le gambe. Con una bomboletta di vernice spray grigia gli imbratteranno il viso. Poi, lo “accenderanno”. Così, tanto per fargliela fare addosso. “Perché – giura Luca – l’idea era di spegnerlo subito”. L’idea, forse. Perché le cose, come è noto, vanno diversamente. Alle 4 del mattino, quando la Twingo nera torna sul piazzale della stazione, Navtej, sfinito dalla stanchezza, si è già accucciato da un po’ su una delle panchine dell’atrio. Dei tre ragazzi, Luca rimane alla macchina. Francesco e il più piccolo entrano nella stazione deserta e gli si avventano contro. Lo “accendono” e si “sorprendono” nel vederlo ridotto a una torcia umana che, gridando, cerca la salvezza verso il piazzale. Scappano. Il tempo di risalire sulla Twingo, rollarsi un’altra canna per calmarsi un po’ e andarsene a dormire che ancora non albeggia» (Un’emozione forte per finire la serata, così abbiamo acceso quel barbone, «la Repubblica», 2 febbraio 2009).
Come di continuo si vede, tante sono le manifestazioni di (anche infame, orrenda) intolleranza o di (anche mostruosa) crudeltà, originate appunto da una indiscriminata, comunque colpevole se non altro perché aprioristica e preconcetta ostilità nei confronti del Diverso: una ostilità, o per lo meno un sospetto, un “non gradimento”, del tutto indipendenti da effettivi comportamenti o aspetti negativi – che pure in parecchi casi esistono e vanno ovviamente censurati (anzi, più o meno duramente puniti, benché, di sicuro, non con il “giustizialismo faidate”)!
Mostruosità in serie, dunque. E, quel che è peggio, con sempre maggiore frequenza da imputarsi alla cd. “gente normale”, ossia quella che, per tradizionale definizione (e convincimento), costituisce la parte “sana”, “benemerita”, “affidabile” della società: secondo gli schemi consolidati, il Bene contro il groviglio del Male.
Una realtà che, sempre più spesso, si presenta appunto rovesciata – sul piano letterario richiamando tout court un mio recente lavoro (Mirabile bruttezza, Studio Editoriale Gordini, Padova 2008) – nel quale, come avverte la quarta di copertina, in negativo ma anche in positivo campeggia «l’Altro, il Diverso. Da Aristotele a Donna Haraway, un file rouge s’intreccia a incoronare il Reietto – esposto in una poliedrica galleria di ritratti, dove i mostri più orrendi sfilano assieme al misero insetto kafkiano o agli inquietanti androgini del cyborg».
Di rilievo la premessa di Armando Pajalich, anglista di Ca’ Foscari, da cui cito qualche passaggio fortemente polemico nei riguardi di qualunque sopraffazione a opera della cd. Normalità: «Ogni cultura egemone perentoriamente impone i propri vincenti parametri … rifiutandosi di vedere all’interno della cultura Altra anche ciò che potrebbe rendere migliore, o più “felice”, la cultura egemone stessa: il dialogo non è possibile; l’unica opzione per il vincente è la negazione – il non-essere – dell’Altro … L’Impero non è somma di individui con rispettive differenze, bensì astrazione perentoria, discorso, concetto. Simulacro fondato su miti più che sulla Storia e le storie. L’unico modo per imporlo è la coercizione autoritaria anche al suo interno. Di conseguenza, terrorista non è solo il ribelle armato che resiste alle armi dell’Imperatore, ma anche chi pure appartenendo alla cultura egemone non vi si adegua: l’idealista, l’egualitario, il pacifista, la persona innamorata del divino o turbata dalla carne, quella innamorata di un individuo di altro colore, l’intellettuale scettico e chiunque si rifiuti di osannare il Simulacro. L’Impero ammette l’ipocrita – anzi: lo predilige – ma non può ammettere lo scettico» (p. 7).
Parole (amare) di Verità, senza dubbio veruno.
E danno ragione, appunto, delle tante forme di violenza che non di rado la cd. Parte Giusta – rappresentata vuoi da singoli individui “normali” vuoi da un’intera classe politico-socio-economica, ovvero (in ambiti i più svariati, anche all’interno della Cultura Alta) da una presidenza o da un gruppo dirigente – esercita (da sempre ha esercitato, ma oggi in maniera più scoperta, plateale addirittura) nei confronti di chi è “altro da”.
Il che, superfluo ripeterlo, in particolare ai nostri giorni non può non avallare – se non addirittura incoraggiare, incitare – comportamenti che, si è visto, giungono a perversità inaudite e, quel che è peggio, in qualche modo “legalizzate”. Lo conferma in pieno Beppe Sini – che, al riguardo di una ennesima infamia istituzionale (il cd. “pacchetto sicurezza”), si esprime in asse con Lorenzo Fort: «“Senatores boni viri, senatus mala bestia”, recita l’antico adagio; quando poi anche i senatori sono quel che oggi sono, il senato partorisce quel che ieri ha partorito: un mostro giuridico che con la scusa della “sicurezza” (di chi? da cosa?) promuove l’odio e il crimine, esalta la violenza, distrugge la civile umana convivenza, instaura dei cannibali il regime» (Le ultime cose. “Senatus mala bestia”, «Notizie minime della Nonviolenza in cammino» 723, 6 febbraio 2009).
© Letizia Lanza
http://digilander.libero.it/letizial/index.htm
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