Rileggiamo Jean Paul Sartre a 110 anni dalla nascita e a 35 anni dalla morte. Dalla ragione alla nausea. Senza alcuna ritrosia e senza farsi venire la “nausea” credo che vada difesa l’opera letteraria di uno scrittore e filosofo come Jean Paul Sartre (1905 – 1980). Perché è un’ opera che va rimeditata e riconsiderata. Esiste una spaccatura tra il suo pensare filosofico e la sua presenza nel contesto letterario e narrativo del Novecento. Dico questo perché romanzi come “Il muro” o “La nausea” o addirittura come “L’età della ragione” non possono essere dimenticati e tanto meno bistrattati per mere visioni ideologiche. Sono romanzi che hanno attraversato generazioni e non solo quelle che si consideravano impegnati nella cultura di sinistra. Sarebbe soltanto un vezzo affermare ciò. Ma hanno lasciato un segno, volente o nolente, anche all’interno di una temperie narrativa che sapeva costruire (in termini di funzioni strutturali e di impalcatura narrante) quadri narrativi e personaggi.
Faceva discutere ma ha innescato una riflessione sul romanzo moderno. Si può accettare (può piacere o meno) o meno ma “L’età della ragione” che risale al 1945 è uno di quei romanzi che ha un risvolto esistenziale profondo pur nella negatività delle tesi esposte dai personaggi. E’ costruito con straordinario senso letterario e non si può prescindere che la sua lezione è stata viva in molti scrittori italiani.
Si pensi a “La nausea”. Si tratta di un romanzo del 1938 sul quale Alberto Moravia ha intrattenuto chiaramente una riflessone per il suo “La noia”. Ci sono, comunque, parametri critici e di natura storico – letteraria che legano la cultura decadente ed in particolare esistenzialista francese con quella italiana. Ma molto di questo paesaggio letterario sartriano ha una attrattiva che rimanda addirittura (l’analisi critica si fa grazie a dei parametri di lettura) ai personaggi decadenti di D’Annunzio. Non c’è da meravigliarsi ma parliamo di letteratura e non di etica o di filosofia.
L’errore che il più delle volte si commette è quello di considerare Sartre come un filosofo che precipita nel nulla e cerca di portarsi con sé anche la spazzatura. Un conto è leggere la “Critica della ragione dialettica” del 1960 o “Apologia degli intellettuali” del 1972 (saggi ideologici e di politica), nei quali anche il relativismo sembra occupare tasselli di uno scenario comunque più ampio e articolato in termini culturali; una cosa completamente diversa è soffermarsi sui racconti de “Il muro” del 1939. Racconti che hanno segnato un tracciato letterario anche se oggi ci si dimentica di questi percorsi perché, in fondo, nonostante tutto, la narrativa di Sarte pone in discussione l’uomo con la sua crisi o con le sue crisi nei confronti della modernità, pone al centro la solitudine e la ragione ma sta a noi raccogliere quel seme che va oltre la proposta del nulla.
Più volte ho avuto modo di leggere i suoi scritti narrativi in diverse fasi ma mi rendo tuttora consapevole che c’è una frattura tra i due mondi: quello della letteratura e quello della politica – filosofia. Mondi che non si incontrano perché nella narrativa non può esistere la concezione dell’assoluto. E’ irrisorio sostenere ciò. Lo stesso concetto di libertà diventa una trasposizione assorbita dal ruolo che rivestono i personaggi e l’immaginazione (termine che da il titolo ad un suo saggio del 1936) rappresenta un riferimento fondamentale e quando l’immaginazione cattura l’estasi nella costruzione del narrato si è certamente lontani da una logica etica. Ma perché la letteratura dovrebbe avere una funzione etica.
La fantasia e l’immaginazione sono il recitativo di un rapporto tra esistenza e arte. Qui non si chiede l’impegno ideologico ma una lettura comparata tra lo scrittore e il lettore. Non credo che siano scritti di formazione o nati per avere una funzione ideologica. Sartre sa essere scrittore immergendosi nella sua esperienza e nella sua laicità ma sta al lettore saper discernere il bene dal male. Io ho letto Sartre per la prima volta in età liceale. Non mi ha scandalizzato e a dire il vero quell’”Età della ragione” mi ha “costretto” a delle lunghe meditazioni e approfondimenti che mi hanno dato la possibilità di scegliere.
La letteratura non chiede giudizi e non impone giudizi. Attenzione a questo. Così come continua a farmi riflettere quel saggio che resta ancora attuale e che risponde al titolo: “Che cos’è la letteratura” del 1947. una vera e propria proposta interpretativa che ci offre lo spunto per rifiutare una letteratura che si pone dentro l’ideologia. Ma non è facile rispondere all’interrogativo ma è proprio da quell’interrogativo che si deve partire per ritrovare la strada di una letteratura che abbia un senso e un orizzonte ben calato nell’umanesimo dell’uomo.
Umanesimo dell’uomo e letteratura della speranza e dell’attesa ma all’interrogativo posto da Sartre bisogna rispondere con le opere e non le teorie soltanto. Ovvero con un progetto letterario. Un altro romanzo da non scordare, oltre a “Il rinvio del 1945, è “La morte dell’anima” del 1949 che chiude una trilogia. C’è d’altronde la pagina della drammaturgia di Sartre che andrebbe rivisitata: da “Le mosche” del 1943 a “Le mani sporche” del 1948; da “Il diavolo e il buon Dio del 1951 a “Nekrassov” del 1956 e così via.
Insomma un incidere in quella produzione sartriana che è letteratura e teatro mi sembra un fatto da non sottovalutare e questo non perché vada completamente avvalorata ed accettata ma perché vada letta e compresa senza sottacere eventuali critiche. Sartre non è uno scrittore (e mi riferisco ancora una volta allo scrittore) che resta nell’immaginario di alcune generazioni. Ora è da dimenticare? Ma lo si legga con attenzione. Discutiamone. (giugno 2015, Pierfranco Bruni)
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