Ennesimo atto di denuncia contro il malaffare da parte del dr Antonio Giangrande, ignorato e perseguitato presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”.

“Non ci posso credere!!!!”, direbbe ognuno di noi, se avesse un minimo di coscienza, parafrasando da celebre frase di Aldo, del celebre Trio comico Aldo Giovanni e Giacomo, leggendo il dossier e vedendo i video pubblicati sul sito www.controtuttelemafie.it.
“Non vorrei che la lotta alla mafia diventasse l’alibi per non denunciare il più grave problema della Calabria, che non è la “ndrangheta, ma il malaffare che governa la Regione”, dice Alberto Cisterna, sostituto procuratore nazionale antimafia.
Si dice Calabria, ma si intenda Italia.
Baronie e nepotismo sanitario sono le ultime nostre preoccupazioni.
Le competenze sono un refrain della cronaca sanitaria. Il più delle volte le spiegazioni sono ineccepibili, i regolamenti inflessibili, non ci sono comportamenti contrari alle gabbie dei protocolli. E’ uno stillicidio. Ci sono mancati o ritardati interventi per incompetenza funzionale. Ci sono le opere pubbliche incomplete per competenze frantumate.
L’elenco delle negligenze è impressionante. I laboratori restano più volte incustoditi con i frigo e gli armadi aperti nonostante la presenza di sostanze radioattive. I depositi di colture batteriche e virali di malattie infettive e tropicali non hanno serratura: senza sorveglianza, il congelatore con le provette a rischio contagio è sempre accessibile a chiunque. Per giorni nessuno pulisce. Infermieri e portantini spesso fumano anche quando spingono gli infermi su lettighe e carrozzelle. Ogni volta che salgono o scendono dalla rianimazione o dal pronto soccorso o dalle sale operatorie, i ricoverati, anche quelli più gravi, nudi sotto le lenzuola, intubati o con l’ossigeno, seguono lo stesso percorso dell’immondizia.
Finiscono così in mezzo ai sacchi neri e agli scatoloni gialli ammassati nei sotterranei, o in coda ai carrelli della rimozione. E quando gli addetti lavano con getti d’acqua i depositi dei rifiuti, le ruote dei lettini si inzuppano di liquami e trascinano tutto lo sporco in reparto. Verrebbe da sorridere se si pensa che, per legge, perfino le mozzarelle di una pizzeria vanno tenute sempre lontane dalla spazzatura.
La competenza di professori e direttori si ferma al proprio reparto. La maggior parte di loro non ha nemmeno il tempo di guardar fuori. Impegnati come sono a dividere le giornate tra ospedale pubblico e cliniche private. Perché mai dovrebbero battersi per il datore di lavoro che dà loro sì prestigio, ma con il quale guadagnano meno? Dopo tutto, proprio queste condizioni favoriscono l’esodo dei pazienti verso la sanità privata, o no? Fino a concepire l’obiezione di coscienza all’aborto nelle sedi pubbliche, ma ad accettarlo di farlo in quelle private.
Ogni anno in Italia la mancanza di igiene in corsia provoca un’ecatombe: tra i 4.500 e i 7 mila morti per infezioni prese durante il ricovero. Per altri 21 mila decessi le infezioni ospedaliere sono una concausa. I pazienti italiani che si ammalano in ospedale oscillano tra i 450 mila e i 700 mila all’anno. E nel 30 per cento dei casi si tratta di contagi sicuramente evitabili. Sono stime molto variabili di anno in anno, raccolte dall’Istituto superiore di sanità.
Ma a svelare la «malasanità» Regione per Regione è il dossier dei carabinieri del Nas al termine dell’indagine ispettiva.
Si scopre così che su 854 nosocomi visitati ben 417 sono stati sanzionati.
Disastrosa è la situazione del Sud con la Calabria (36 irregolari su 39) e la Sicilia (67 su 81). Più che di ospedali, in queste zone si potrebbe parlare di vere e proprie fogne a cielo aperto dove i rifiuti si accatasta o nei corridoi, dove c’è muffa e ruggine nelle stanze e nei corridoi, dove gli impianti non sono a norma, le apparecchiature non funzionano, i medici troppo spesso non vanno al lavoro.
A tutto questo si aggiunge una doppia denuncia su due fronti diversi, che rivela ancora una volta lo stato preoccupante delle nostre strutture sanitarie: malnutrizione e cartelle pazze.
Sei pazienti italiani su dieci vengono dimessi dall’ospedale in uno stato di malnutrizione. Di questi, tre erano già così al momento dell’accettazione e gli altri erano a rischio. Eppure basterebbero 15 minuti di attenzione in più entro 24 ore dal ricovero: il tempo necessario per uno screening nutrizionale.
Ma non basta. Perché gli ospedali sono diventati anche una miniera di troppi errori nelle cartelle cliniche dei pazienti italiani. Sbagli di trascrizione e scrittura illeggibile, anche solo semplici sviste possono portare a gravi conseguenze.
Provocano più vittime degli incidenti stradali, dell’infarto e di molti tumori. In Italia le cifre degli errori commessi dai medici o causati dalla cattiva organizzazione dei servizi sanitari sono da bollettino di guerra: tra 14 mila (secondo l’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri) e i 50 mila decessi all’anno, secondo Assinform. Il che significa circa 80-90 morti al giorno (il 50% dei quali evitabile), 320 mila le persone danneggiate. E con costi pari all’1% del pil: 10 miliardi di euro l’anno.
La sanità italiana spende ogni anno più di 500 milioni di euro solo per assicurarsi contro il rischio di ferire o uccidere i pazienti. È una spesa fuori controllo che ha l’effetto di una tassa occulta sulla salute dei cittadini: almeno mille miliardi di vecchie lire che, a ogni scadenza di bilancio, si trasformano in costi ospedalieri finanziati dallo Stato, finendo così per gravare su tutti i contribuenti. A differenza dell’Irpef o dell’Ici, questa imposta segreta sulla malasanità continua a salire a ritmi vertiginosi – nell’ultimo decennio l’aumento medio è di oltre il 20 per cento ogni 12 mesi – seguendo dinamiche inarrestabili: l’esborso finale è sempre variabile e imprevedibile, perché corrisponde all’insieme dei risarcimenti liquidati in migliaia di vertenze individuali. Oggi si contano circa 30 mila denunce all’anno per vere o presunte colpe professionali di medici e infermieri o per disservizi delle strutture sanitarie.
Roberto T. era un bambino di sei anni, sano e molto intelligente, quando è diventato vittima di un orrore ospedaliero che ha convinto i giudici di Milano a infliggere il più elevato risarcimento individuale documentabile negli ultimi vent’anni. Ricoverato all’ospedale Buzzi per una semplice operazione alle tonsille, il bimbo entra in coma e dopo tre giorni ne esce cieco, paralizzato e con un deficit mentale del 90 per cento. La causa civile intentata dai suoi disperati genitori ha fatto scuola, perché ha segnato uno spartiacque nella valutazione delle prove scientifiche in un caso che sembra riassumere tutto quello che non dovrebbe succedere in un paese civile. Per cominciare, i tempi. L’intervento chirurgico (tonsillectomia) risale al 16 marzo 1989, la sentenza di primo grado è del 21 febbraio 1997, quella d’appello del 6 novembre 2001, per cui le condanne diventano definitive nel 2002: giustizia è fatta, ma dopo 13 anni.
Secondo problema. Come in tutti i processi sanitari, di fatto a decidere sono le perizie. Firmate da altri medici, cioè da colleghi degli imputati. Nelle motivazioni si legge che il primo collegio di periti aveva escluso qualsiasi responsabilità dei medici del Buzzi. Se nonché il giudice istruttore scopre gravi lacune nel referto, s’infuria e nomina un secondo collegio, che invece accerta “colpe evidenti” del primario e di altri tre dottori. In appello, l’inevitabile terza perizia riconferma l’accusa ai quattro medici di non essersi accorti neppure che il bambino sotto i ferri aveva “una vistosa emorragia interna con perdita di mezzo litro di sangue”, che gli ha bloccato la respirazione. Tutti i periti sono d’accordo solo nel condannare il Buzzi, l’ospedale dei neonati di Milano, che all’epoca “non aveva nemmeno una rianimazione”. Nel frattempo ai baroni innocentisti, benché smentiti dalle altre due squadre di periti, non succede nulla: continuano a lavorare anche per i tribunali, perché la medicina non è una scienza matematica.
Al di là delle deviazioni illegali, la malasanità è sicuramente diventata un business per gli avvocati, fino a prova contraria lecito. Questo vale sia per i risarcimenti del danno, sia per le ingiunzioni di pagamento alle ASL per le fatture non pagate ai fornitori.
A tutto questo si aggiunge l’impedimento all’accesso alle cure: lunghe liste d’attesa e insufficienti reparti di terapia intensiva. Le liste di attesa sono da anni in preoccupante aumento e sono diventate ormai un muro fra i cittadini e l’accesso alle cure per la salute. A fronte di questa situazione si rende necessario (se non obbligatorio) dover ricorrere al privato e all’intramoenia, dove i tempi si fanno notevolmente più brevi per l’erogazione della prestazione rispetto al canale istituzionale. Questo fenomeno, che sa tanto di estorsione, viene alimentato dalle prestazioni degli stessi medici, che da privati le erogano, ma che da dipendenti pubblici, le impediscono.
Per sopravvivere nell’Italia che sta sotto Roma bisogna sempre sperare che qualcun altro muoia. E prendere rapidamente il suo posto, prima che sia troppo tardi. Altrimenti in ospedale non vi fanno entrare più: c’è il “tutto esaurito” nei reparti di terapia intensiva sparsi per il nostro Sud.
È la Sanità pubblica corrotta ed inefficiente che ha “chiuso” anche per le
emergenze, pazienti trasportati come pacchi da città in città o posteggiati da qualche parte in attesa di migliore sistemazione, ore e giorni di calvario inseguendo la sorte tra riforme e tagli e quelli che gli esperti della materia chiamano misteriosamente “riordini”. Sempre molto incerta è la linea tra la vita e la morte nella casba ospedaliera che è oggi l’altra Italia, specie nel Meridione.
Liste di attesa dolorosissime, risse e denunce per accaparrarsi un respiratore artificiale, i soliti carabinieri che accompagnano i malati più gravi per piazzarli “in nome della legge” in qualche ospedale. Ma non c’è più possibilità di finire “normalmente” in rianimazione.
A tutto ciò si aggiunge una ricerca truccata. La ricerca non la si fa, spesso la si impedisce.
E’ opinione diffusa che dal cancro, qualunque terapia si adotti, difficilmente si guarisce; gli scarsi risultati ottenuti dalla terapia ufficiale sulle neoplasie, specialmente quelle diagnosticate già in fase avanzata, confortano questa opinione e, purtroppo, la maggior parte delle diagnosi risulta tardiva. Molti pazienti non se la sentono di affrontare gli effetti devastanti sulla “qualità della vita” indotti dei trattamenti chemio e radioterapici più praticati, i cui risultati finali spesso non sono entusiasmanti ed anche questa è una realtà difficile da negare. Come pure sono innegabili i traumi psicologici e le scomodità che derivano dall’essere costretti a praticare gli ambulatori e gli ospedali. Oggetto di contestazioni violentissime da parte della lobby dei medici, “La Cura Di Bella” fu sperimentata sotto il ministro Rosi Bindi in modo approssimativo e scorretto, fino a decretarne ingiustamente l’inefficacia. “Ingiustamente” perchè laddove la terapia fu praticata con particolare attenzione alle prescrizioni del suo proponente – il fisiologo Antonio Di Bella – spesso portò a risultati positivi, che vennero volutamente e sistematicamente sottovalutati o peggio taciuti. In moltissimi casi, invece, la cura Di Bella venne sperimentata scorrettamente, senza alcuna attenzione al protocollo e alle più elementari garanzie farmacologiche. Certo è che la terapia è stata osteggiata dalla lobby medica e farmaceutica per motivi facilmente individuabili, mentre sarebbe opportuno che venisse sperimentata e analizzata con rigore e senza pregiudizi.
Se ciò non bastasse ci si mette il racket dei decessi e delle ambulanze, oltre alle solite truffe.
Truffe al Sistema sanitario nazionale sono state scoperte da nord a sud dell’Italia.
Si sono accertati migliaia di casi di pazienti morti che erano ancora iscritti al Servizio Sanitario che quindi continuava a erogare compensi mensili ai medici. Si trattava di persone morte da circa vent’anni in giù. Cinque euro al mese. Questa la tariffa mensile che i medici di base ricevono per ogni iscritto al Servizio sanitario nazionale.
I carabinieri del Nas di Cosenza hanno arrestato 70 falsi infermieri, impiegati presso strutture pubbliche e private della Regione Calabria. Secondo quanto accertato dagli investigatori, avrebbero acquistato da un’organizzazione criminale falsi diplomi di “infermiere professionale” riuscendo così ad inserirsi nel mondo del lavoro ospedaliero nonostante fossero del tutto privi di conoscenze mediche. I finti infermieri erano spesso coinvolti anche in sala operatoria e in altre delicate mansioni. Altri ancora avevano anche fatto carriera diventando caposala.
Quarantanove infermieri in servizio nelle strutture ospedaliere della Asl 5 della Spezia sono stati denunciati dai carabinieri del Nas di Genova per mancanza di iscrizione all’albo.
Non da meno sono gravi i casi scoperti in cui si i cittadini, fruitori di visite ed esami clinici specialistici, hanno dichiarato il falso sulle autocertificazioni, per essere esonerati al pagamento del ticket.
Anche quando non era Natale c’erano dei bei regali, viaggi, libri, computer, impianti stereo, per quei medici che prescrivevano ai loro pazienti i farmaci di quella nota casa farmaceutica invece di quelli delle aziende concorrenti. Troppi regali, troppe ricette con quel marchio, hanno insospettito gli inquirenti, che hanno incominciato ad indagare per “corruzione e comparaggio” quasi tremila persone in molte regioni: oltre a medici ed informatori, farmacisti, operatori sanitari, dirigenti di aziende, istituti ed enti ospedalieri.
La domanda che il cittadino si fa è questa: quanto ci costa tutta questa inefficienza?
Cento miliardi l’anno. È il costo della salute in Italia. Una torta da spartire per la politica. Tra nomine, appalti e rimborsi a privati. Un business che sempre più spesso finisce nel mirino della magistratura.
La cronaca ci parla di Puglia, Abruzzo, Lombardia, Piemonte, Lazio, Calabria, Campania, ecc.: da almeno 15 anni, decine di indagini giudiziarie documentano migliaia di truffe, sprechi, clientelismi, favoritismi, disservizi, frodi criminali, corruzioni e infiltrazioni mafiose.
La salute degli italiani muove un giro d’affari di oltre 100 miliardi di euro. Che molti vedono come una torta da spartire. E i pm di Milano che indagano sulla Santa Rita e le altre “cliniche degli orrori”, in un’audizione segreta al Senato, finiscono col descrivere la sanità come «un sistema che fa diventare i reati una prassi». In un vortice di mazzette e appalti, quello che sembra importare meno a molti dirigenti è il fatto che stanno amministrando la salute pubblica. E che ogni euro in mazzette e servizi scadenti è un euro tolto ai malati. Ma la questione morale in sanità non esiste, se i presunti corrotti finiscono in Parlamento e nessuno sembra pagare mai il conto.
E che dire della donazione di organi e sangue ?!?!
Dopo ben 41 anni di trapianti effettuati attraverso organi prelevati da ammalati a cuore battente, la comunità scientifica internazionale scopre oggi che la dichiarazione di “morte cerebrale” non era poi così infallibile e occorre un profondo ripensamento dei criteri. L’annuncio arriva da uno dei padri della trapiantistica, Ignazio Marino.
Contrordine: dopo decenni di espianti a cuore battente, spacciati per “prelievo da cadavere” fin dalle ingannevoli parole della legge, la comunità scientifica italiana, costretta ad allinearsi a buona parte di quella internazionale, oggi fa marcia indietro: la morte cerebrale è una finzione, una convenzione buona per far prosperare carriere e primariati, holding statali dei trapianti ma, soprattutto, le multinazionali del farmaco, che proprio sui trattamenti antirigetto accumulano ogni anno fatturati da milioni e milioni di euro.
Vaglielo a raccontare alle centinaia di migliaia di pazienti espiantati negli ultimi 41 anni in mezzo mondo perchè certificati in stato di “morte cerebrale”.
E per finire la ciliegina sulla torta. Fa notizia la nascita a Udine della prima ed unica associazione italiana di camici bianchi che si sono finalmente decisi a donare almeno il sangue. «Molti donatori – spiegano alcuni studenti di medicina, promotori dell’iniziativa – si chiedono se i medici, che conoscono l’utilità del sangue, siano anche donatori a loro volta… Ora ci auguriamo che la realtà di Udine possa essere presa d’esempio da altri Ordini». Pare insomma che il motto, per i camici bianchi, sia sempre stato: “fate che a donare siano gli altri”. Ed effettivamente, scorrendo statistiche e cronache, i casi di medici diventati donatori di organi sono gocce in un oceano.
Da ultimo non dimentichiamoci delle associazioni di volontariato para sanitarie. Fanno il bene, ma non sempre fanno bene. Bussano alle nostre tasche, proponendo mille cause nobili: la lotta senza quartiere ad una malattia inguaribile, l’aiuto ai bambini malati, una crociata contro le infinite piaghe della nostra società. Non sempre, però, i soldi che finiscono nelle mani di enti e organizzazioni vengono spesi con i migliori criteri. Sprechi, inefficienze, il peso soffocante della burocrazia che uccide anche i migliori sentimenti, quando non ammanchi, ruberie, truffe delle più odiose. Il mondo della carità, o della solidarietà, è una foresta dove si trova di tutto. Straordinari esempi di altruismo e storie di furbizia e di cinismo che fanno a pugni con la nostra coscienza.

Grazie dell’attenzione.

Presidente Dr Antonio Giangrande
presidente@controtuttelemafie.it

da Altra Calcata

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