sar 1 - DONNE CHE OSTACOLANO LE DONNE. LA SINDROME DELL'APE REGINA

L’80% delle prepotenze perpetrate dalle donne sono rivolte ad altre donne. Perché c’è così poca solidarietà femminile?
L’ape regina vista dall’Italia è una «capa» spietata e inflessibile. Tratta le collaboratrici come cameriere («ai cocktail mi rifilava sempre il bicchiere vuoto») o pony express («mi mandava a scuola a portare i libri alla figlia quando se li dimenticava o la cotoletta con patate presa in rosticceria»). E ha qualche resistenza a dare loro dignità: «Chiamarci per nome non era contemplato, era un continuo “Ehi tu”». Più di una volta ruba le idee: «Si prese i meriti per un mio progetto». E, se single, costringe le poverette a stare in ufficio fino a tardi: «Il suo metabolismo la rendeva operativa dalle cinque del pomeriggio e bisognava assecondarla».
Le donne che con preghiera di anonimato ricordano adesso manager con le quali hanno lavorato, al di là dei singoli aneddoti, denunciano tutte la stessa cosa: una gran competizione, spesso per nulla leale. Le loro storie non sono diverse da quelle raccolte sul Wall Street Journal da Peggy Drexler, psicologa e studiosa delle differenze di genere già a Stanford e ora alla Cornell University. Lei cita, tra gli altri, il caso di quella consulente che veniva continuamente zittita o sminuita, fino a essere estromessa dal team, proprio dall’unico capo donna. «Dove ho sbagliato?», ha chiesto all’autrice dell’inchiesta. «In niente. Hai solo incontrato un’ape regina».
La sindrome della donna che una volta raggiunto il potere ostacola le altre è studiata dagli anni ’70. Ma mentre allora poteva essere giustificata se non altro con una tale penuria di opportunità femminili che le poche che riuscivano si chiudevano nel loro fortino per difendere la postazione, oggi questo atteggiamento appare insensato. Colpisce il dato del Workplace Bullying Institute: l’80% delle prepotenze delle donne sono rivolte ad altre donne, mentre i maschi nei loro soprusi sono democratici.
Sembrerebbe, poi, che le manager ai posti di comando usino la loro intelligenza per colpire le subordinate nei punti dove sanno di trovarle più vulnerabili. Dei geni, del male.
Naturalmente non sono tutte così. Un recente studio pubblicato sull’Atlantic dimostra che negli ultimi dieci anni le leader hanno acquistato punti in simpatia e gradimento (oltreché competenza), superando gli uomini. Esistono poi tante imprese guidate da donne che, forti della loro esperienza personale, si sono date un’organizzazione flessibile: è il caso della cooperativa Sanithad di Mantova, fatturato da nove milioni l’anno e tasso di fecondità più alto d’Italia (il 4% contro la media nazionale di 1,39). O la Gerard’s in Franciacorta, che produce ed esporta cosmetici: solo donne e orari elastici.
Però ha senso chiedersi perché resistono quelle che Lella Golfo, fondatrice e presidente della Fondazione Bellisario e, soprattutto, promotrice con Alessia Mosca della legge sulle quote di genere in Italia, chiama «donne che si mettono i baffi». Racconta: «Anche durante la gestazione della legge, tutta questa solidarietà femminile non la vidi. Temo fosse in alcuni casi per invidia, in altri per antagonismo. Insomma, la sorellanza non c’è, c’è invece la fratellanza».
E questo ha sicuramente a che fare con l’iniqua distribuzione dei posti di comando. Non a caso il docente norvegese Morten Huse, che studia gli effetti della legge sulle quote nel suo Paese, il primo ad aver posto una soglia del 40% nei board, dice che non c’è ancora una rete di «Golden Skirts» in un ambiente dominato dai «Golden Sacks».
Il momento è cruciale. Lella Golfo fa notare che nel giro di un mese 150 donne entreranno nei consigli di amministrazione delle società quotate o nei collegi sindacali, per effetto dei rinnovi di primavera. «Comincia ora la rivoluzione di genere e bisogna che chi prende l’ascensore sappia già a chi rimandarlo giù. Non ho avuto remore in passato a non accogliere nel network della Fondazione Bellisario quelle imprenditrici che non condividevano la nostra filosofia: qui le scarpe non si fanno a nessuna».
Se guardiamo le cose da un’altra prospettiva, c’è un eccesso di aspettative positive nei confronti delle leader cui non corrisponde altrettanta indulgenza. «Abbiamo ancora lo stereotipo culturale della donna altruista, buona e generosa, servile, sottomessa, passiva. Se però è assertiva, diventa subito aggressiva e dominante. Di un uomo non si direbbe mai», osserva Beatrice Bauer, che insegna comportamento organizzativo alla Bocconi. Significa che se un capo è brusco o freddo o arrogante si dà quasi per scontato che sia così, si è disposte a tollerarlo. Di un’omologa, mai. Anche se magari è soltanto molto concentrata. Bisogna riconciliarsi con la parola potere, intenderla come la possibilità di fare qualcosa, senza averne paura. Essere lucide nella valutazione delle superiori e attente all’inconscio. «Le donne al vertice sono oggetto di transfert, diventano una madre idealizzata, che può diventare penoso non riuscire mai a raggiungere», spiega la psicoanalista femminista Manuela Fraire.
«Quando ti identifichi con la leader, non guardi più al rapporto che hai con lei, ma a quello con la tua pari grado e ti chiedi se lei piacerà più di te. In queste condizioni, non può esserci nessuna solidarietà».
Allora bisogna evitare la sindrome dell’ape operaia. (Elvira Serra)

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