Quello che vorrei dipingere è la luce del sole sulla parete di una casa
Se questo era l’intendimento di Edward Hopper (1882-1967), direi che vi è pienamente riuscito. Ce lo dicono le oltre 160 opere che presentano al Museo Fondazione di Roma, via del Corso, fino al 13 giugno una grande rassegna antologica senza precedenti del più popolare e noto artista americano del XX secolo.
Hopper è il pittore della vita quotidiana, delle solitudini umane e dei paesaggi e certamente il riconosciuto caposcuola del realismo Americano.
La mostra, suddivisa in sette sezioni, seguendo un ordine tematico e cronologico, ripercorre tutta la produzione del pittore, dalla formazione accademica agli anni in cui studiava a Parigi fino al periodo “Classico” e più noto degli anni ’30, ’40 e ’50 per concludere con le grandi e intense immagini degli ultimi anni.
La mostra offre al visitatore anche un modo nuovo di avvicinarsi all’arte, al mondo di Hopper e di diventare protagonisti del dipinto stesso Due gli esercizi creativi inventati. Il primo consiste nell’entrare in una suggestiva ambientazione notturna che ricrea scenograficamente il bar raffigurato nel dipinto Nighhawks; il secondo, nel ricalcare un disegno dell’artista proiettato da un faro su un foglio bianco, in modo che il visitatore sperimenta le proprie abilità.
Ripercorrendo le varie sezioni si passa dalle prime opere di Hopper, gli autoritratti, le illustrazioni, i noti dipinti Soir Bleu (1914) e Evening Wind (1921) del periodo parigino dove si evidenzia la tecnica elegante e quel “senso di incredibile potenzialità dell’esperienza quotidiana”.
E’ in mostra eccezionalmente uno dei suoi Artist’s ledger Book, i celebri taccuini che riempiva con la moglie, dove si vedono gli schizzi di molti suoi dipinti. Si passa ancora dall’”erotismo” del Nostro Artista, con le immagini di rigide donne nude in stati contemplativi (New York Interior, 1921 circa) alle immagini di edifici urbani e alle persone che li abitano: troviamo scorci di vita quotidiana, nei tranquilli appartamenti della middle class, spesso intravisti dietro le finestre da un treno in corsa, immagini di tavole calde, sale di cinema, bar, ristoranti.
Vorrei esaminare in particolare Mattino in South Caroline (1955), Mattina in città:
Dunque, la luce e che luce! Una luce che (si considerino i titoli dei quadri stessi, la parola mattinata indica sole), che trascina via dai gesti quotidiani che si stanno compiendo (la donna del primo quadro dichiaratamente aspetta le braccia conserte, quella del secondo si arresta in ciò che sta facendo e sembra aspettare seduta sul letto), che inchioda, pietrifica (la donna del terzo quadro è rimasta con il gesto sospeso dell’asciugamano in mano). Quadri giocati sul binomio dentro-fuori che lasciano poco alla decorazioni, al superfluo: le camere sono spoglie, un letto, niente alle pareti oppure l’esterno è anonimo senza fiori o alberi. Nella nitidezza che caratterizza le sue tele, Hopper mira all’essenziale, alla luce. Perché quella luce è tutto, è la vita che trionfa e benché i colori siano freddi (celesti, azzurri), la macchia del colore rosso del vestito della donna del primo e del secondo quadro indica la passione per la vita da parte di questo grande artista perché la malinconia e la tristezza non sono mai spinte fino all’estremo o alla tragedia.
Fausta Genziana Le Piane
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