Reduce dal successo della mostra al Museo del Giocattolo di Zagarolo
Tango In occasione di una precedente intervista, avevo parlato delle emozioni suscitate dal percorrere la strada che conduce allo studio del pittore Enrico Benaglia in via Sebino a Roma. Attraversare il cortile e il giardino che portano al vecchio studio, ma non proprio vecchio perché ancora in vigore, mi suscitava sensazioni di pace, sentimenti di intima presenza della natura nel pieno centro caotico della città. E’ quello che avviene inoltrandosi nei giardini del Grand Palais in cui pur essendo nel cuore di Parigi, in mezzo a vie frequentatissime e trafficate, si gode di una piccola oasi verde incontaminata. Il nuovo studio in via Benaco è meno classico, più d’avanguar-dia, un po’ secondo lo stile del quartiere di Nothing Hill a Londra. Scesi alcuni gradini, una grande vetrata introduce negli ampi spazi del nuovo atelier di Enrico. Ma la suggestione è la medesima: Enrico mi accoglie in pullover, scarpe da ginnastica e jeans. Ammaliata dal sorriso-bambino seguo il pifferaio magico e, dimentico la realtà e di essere a Roma.
Prima di tutto, Enrico, perché questo cambio… di studio?
E’ stata un’occasione poiché si è liberato questo spazio nello stesso palazzo dove abito. Vedendo questi ambienti è nato il desiderio di creare un museo a vita e di rimettere in ordine la mia creatività poiché, allargandomi, ho riscoperto cose che non vedevo da anni. Anzi, mi è venuta una certa malinconia perché mi sono reso conto di quanto ho lavorato e di quanto ho prodotto. Finalmente ho uno spazio dove poter far vedere le mie opere. Dopo l’ambiente dedicato alla grafica, c’è il salone principale, non per organizzare mostre, ma eventi che mirino a far conoscere a critici ed amici alcune novità, per esempio sette o otto quadri nuovi. In fondo, c’è la zona di lavoro vero e proprio. Forse il vecchio studio diverrà un gabinetto di disegni o un archivio.
Mi guardo intorno: non ci sono biciclette come nel vecchio studio (biciclette che Enrico ama molto) ma, sotto la mensola in travertino che corre lungo le pareti, sugli scaffali ci sono in perfetto ordine cataloghi, articoli, saggi e fotografie.
Mi pare che la mostra di Zagarolo, a Palazzo Rospigliosi, dal titolo ”Giocare col mondo”, abbia avuto molto successo?
Sì, il posto è bello, il Museo è molto piaciuto ed è sembrato che i miei quadri fossero sempre stati presenti nell’ambiente. E’ il più bel complimento che potessi ricevere perché la mia preoccupazione era di non essere invadente o arrogante. Da quando ho preso contatti per vedere il Museo che non conoscevo, che mi è piaciuto e che mi ha fatto fare un viaggio nel passato, mi ha appassionato ancora di più il tema del gioco ed ora continuo ad occuparmi di ludico. Nel Museo, c’è una bacheca dedicata interamente al circo, presente in miniatura. Da lì ho preso spunto per lavorare a questo soggetto che ho fotografato e ricostruito.
Critici illustri (Alida Maria Sessa in particolare nell’introduzione al catalogo della mostra) hanno parlato dei contenuti della mostra. Ma cos’è per te il gioco?
E’ il modo migliore per affrontare la vita. Senza gioco non c’è creatività. Dice Carl Gustav Jung: “Il principio dinamico è il gioco, che è proprio anche nel bambino e come tale sembra incompatibile con il principio del lavoro serio. Ma senza questo giocare con la fantasia non è mai nata opera d’arte. Il debito che abbiamo con il gioco dell’arte è incalcolabile”.
A proposito del gioco e al tema della fantasia ad esso collegato, tra i quadri esposti a Zagarolo, tre meritano un’attenzione particolare: Mangiatori di giocattoli, Barbablù e Alice. Le due tele, Barbablù e Alice, oltre ad avere come protagoniste due donne, testimoniano l’interesse di Benaglia per il mondo delle favole. Due donne, due sentimenti, vanità e delusione. In Barbablù, la donna che fugge ha disegnate nel fondo delle pieghe del vestito alcune piume di pavone, simbolo della vanità femminile e in Alice la bambina guarda sconsolata il castello di carta, grande quanto lei, in equilibrio precario. In Mangiatori di giocattoli, l’atto di mangiare è assimilabile a quello simbolico di nutrirsi e appropriarsi del destinatario o delle sue qualità.
Sei anche presidente di giuria del premio.
Sì, il dieci gennaio abbiamo attribuito il primo posto ed abbiamo premiato altri dieci artisti che presenteranno una collettiva organizzata intorno all’artista vincitore.
Progetti per il futuro?
A fine febbraio alla galleria Edarcom di Via Macedonia inauguro una mostra di opere inedite dal titolo “A passo di danza”.
La storia dell’arte offre molti esempi di pittori che hanno trattato il tema della danza di volta in volta colta nei suoi aspetti sociali e ambientali: Degas, Toulouse-Lautrec, Poussin, Renoir, Matisse. Per Benaglia, la danza è celebrazione e linguaggio e, con il suo continuo fluido movimento, suggerisce l’idea di leggerezza (Ballando nella stanza, Il ballo nella stanza ecc).
Sto poi preparando il disegno dello stendardo della gara, della corsa con il cerchietto che si svolge a Carpineto, un evento culturale che si sposta per tutta la provincia.
Parliamo di scultura?
Anche in scultura sto lavorando al tema della danza, in particolare al tango, per ora in cera. La scultura, come tutte le tecniche tradizionali – tempera, olio, pastello, bronzo ecc – ha i suoi ritmi. Sono un artista che vuole esprimere il moderno, la vita di oggi unica e irripetibile, ma adoperando tecniche molto collaudate nel tempo. Mi fido del legno ma non della plastica perché è deperibile. Col tempo, molte opere anche bellissime ed importanti, come quelle di Burri per esempio, andranno perse e dovranno essere rifatte. Molte tecniche sono invitanti come impatto di scoperta poetica, come ricerca anche se come risultato sono destinate a non durare.
Ti definiresti un pittore minimalista?
Pochi sanno che ho cominciato osservando il mondo di Paul Klee, un grande intellettuale ante litteram, di moda negli anni settanta e ottanta, che si ispira al segno istintivo dei bambini. E ho riscoperto questa dimensione guardando i marciapiedi di Roma, soprattutto nei quartieri popolari, esposizione dell’arte in strada, ai quali si è ispirato anche Basquiat.
L’impegno politico?
Non ho seguito nessun impegno politico particolare. Sono un artista libero ma capisco i problemi sociali, partecipo, mi appassiono di volta in volta agli avvenimenti sui quali rifletto e prendo posizioni personali. L’artista deve essere coscienza più dell’anima che degli eventi sociali. Nelle mie opere c’è tutto, ecco il mio sociale: teatro, cultura, mondo del lavoro, moda.
Enrico mi mostra alcuni manifesti bellissimi che illustra con orgoglio: Giornata del mutilato e invalido del lavoro (1974), 2° giro d’Italia donne (1989), IX festival della cinematografia sociale (2005), Ministero per i beni e le attività culturali, Premio Diego Fabbri di scrittura teatrale ecc.
Via Sebino, Via Benaco: rimani fedele al quartiere Coppedé?
E’ presente nelle mie tele con giardini, piazze e fontane, ma non tratto sempre questa tematica. Resta il fatto che questo è il quartiere in cui abito, vivo e che attraverso tutti i giorni.
Quale è il ritmo della tua giornata di lavoro?
In un certo senso, ho sempre firmato il cartellino, sono sempre stato un metodico. La mattina, quando posso ed è bel tempo, esco, me ne vado in tuta a Villa Ada o a Villa Borghese a correre, camminare, pensare. Poi, ora ho l’imbarazzo della scelta tra il vecchio e il nuovo studio. Lavoro la mattina e il pomeriggio, mai di notte. L’Artista è come un artigiano comincia come lui ma poi finisce in un altro modo, l’artigiano inizia e finisce ciò che fa, una sedia per esempio, l’artista non è mai soddisfatto, torna e ritorna sul proprio lavoro, per fermare alcuni effetti, o emozioni o pensieri. Amo molto la manualità e come i bambini sono affascinato dai negozi di colori, li comprerei tutti.
Quali sono i tuoi rapporti con i critici?
Inizialmente molto timidi, non mi sono mai fatto influenzare, però ho faticato. Ho avuto la fortuna di conoscere grossi intellettuali, personaggi ufficialmente riconosciuti che mi hanno incoraggiato indicandomi anche significative letture. Ma soprattutto mi è servito molto visitare i Musei, l’artista deve conoscere la Storia dell’arte attraverso le realizzazione reale nelle opere degli altri.
Ti piace la poesia?
Mi piace leggere in treno e porto con me sempre qualche libro o qualche poesia, amo molto Baudelaire, per esempio. Leggo quando ho tempo a studio inframmezzando la lettura con il lavoro. Perciò, impiego molto tempo a finire un libro. Poi mi piace Simenon, grande scrittore, nei cui libri più che la trama poliziesca è importante l’indagine psicologica. Emblematico è ad esempio “L’uomo che guardava passare i treni” che ho letto con gusto. Leggo volentieri Jean-Louis Barrault, grande mimo morto, che ho conosciuto a Roma e della cui recitazione mi sono innamorato vedendo il film del 1945 intitolato “Les enfants du Paradis” e Jacques Tati, un genio, un bambinone, che apprezzo molto nel film del 1947 “Giorno di festa” di cui ha colorato personalmente la pellicola.
Fausta Genziana Le Piane
Il romanzo “L’Uomo che guardava passare i treni” è, non a caso, la storia di un cambiamento…: “Per quarant’anni mi sono annoiato. Per quarant’anni ho guardato la vita come quel poverello che col naso appiccicato alla vetrina di una pasticceria guarda gli altri mangiare dolci. Adesso so che i dolci sono di coloro che si danno da fare per prenderli”.
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