“Non leggo libri scritti da una donna”. “Quell’autrice mi piace, dato che scrive come un uomo”. Frasi che spesso si ascoltano. Pregiudizi che fanno discutere. Ma perché dovremmo porci domande riguardo alla scrittura femminile (cos’è, di che si tratta e che valore ha) se non sentiamo il bisogno di porcele sulla scrittura maschile? Se lo chiede su ilLibraio.it scrittrice Elena Varvello. La sua riflessione
Dopo l’intervento iniziale dell’editore Luigi Spagnol, dal titolo “Maschilismo e letteratura, cosa ci perdiamo noi uomini?”, quello della scrittrice Michela Murgia sul tema “Cultura maschilista? Dai festival ai giornali, la sottorappresentazione delle donne”, e quello di Renata Gorgani, direttore editoriale de Il Castoro, dedicato al tema “Nei ‘piani alti’ dell’editoria le donne restano una minoranza”, ospitiamo il contributo di Elena Varvello, il cui ultimo libro, il romanzo La vita felice, è stato pubblicato da Einaudi.
Il fiume
di Elena Varvello
Esiste una “scrittura femminile” (in quanto questione su cui dibattere, su cui interrogarsi) solo nel caso in cui esista, dall’altra parte e con la stessa valenza problematica, una “scrittura maschile”. Le due sponde di un fiume, insomma, qualcosa e il suo contrario.
Però, se la vediamo in questo modo, se dividiamo la scrittura in due categorie – maschile e femminile – su entrambe dovremmo interrogarci. Voglio dire: perché dovremmo porci domande riguardo alla scrittura femminile (cos’è, di che si tratta e che valore ha) se non sentiamo il bisogno di porcele sulla scrittura maschile?
Se l’una rappresenta un punto di domanda, lo rappresenta anche l’altra. Nel caso in cui la scrittura maschile non rappresenti un problema, un oggetto di discussione (mi pare che vada così), neppure quella femminile lo rappresenta.
Esiste solo la scrittura, per quanto mi riguarda.
Tra le due sponde c’è un fiume che continua a scorrere. Alcuni libri vengono scritti dalle donne e altri dagli uomini, e sono l’acqua in cui nuotiamo o in cui dovremmo farlo. Ogni libro è diverso da tutti gli altri libri, e la partita può chiudersi qui.
Il punto è che pare non chiudersi, anche se io non m’interrogo al riguardo: non rappresenta un problema, per me. Passo la vita a scrivere ma soprattutto a leggere: m’importa poco (nulla, direi) se sia un uomo o una donna ad aver scritto ciò che leggo. M’importa solo che sia buono.
Eppure mi sento dire molto spesso: “Non leggo libri scritti da una donna”, oppure: “Ne leggo pochi”, oppure: “Quell’autrice mi piace, dato che scrive come un uomo”, ed ecco che il problema sembra ripresentarsi. Ritornano le due sponde del fiume, qualcosa e il suo contrario.
Quando, magari ingenuamente, domando perché, vengono fuori le stesse risposte: “Le donne sono ridondanti, retoriche, scrivono di pancia, scrivono solo per le donne, non sono ambiziose, a loro interessano soltanto i sentimenti, i rapporti, cose di cuore e roba del genere”.
Queste risposte arrivano sempre da un uomo o da un ragazzo. Io non ribatto più: scrollo le spalle. Nei giorni migliori provo persino un po’ di tenerezza, perché mi sembrano risposte così deboli e stereotipate o proprio fuori fuoco (in fondo non scriviamo tutti di rapporti umani e sentimenti? È brutta la parola sentimento? Ci spaventa? Di che sarebbe fatta la nostra esistenza?). Mi sembrano il frutto di un pregiudizio e non invece di un giudizio, il quale dovrebbe applicarsi a ciascun autore o autrice, a ciascun libro nella sua unicità e non a quella che pare essere una categoria. Come se a qualcuno venisse in mente di dire che non legge i libri scritti da chi ha i capelli lisci o da chi vive in Italia o da chi si chiama Carlo, perché ha un cugino che si chiama Carlo e quel cugino proprio non gli piace. Come se qualcuno dicesse: “Vado ogni giorno al fiume, certamente, ma resto sempre sulla sponda destra”.
Quello che faccio, quando insegno, è portare in aula le storie, leggerle ad alta voce e poi parlarne, guardarci dentro. Soltanto questo: le storie. Perché ci sono storie bellissime scritte da donne e da uomini, e storie inutili e sciatte e ridondanti scritte da donne e da uomini. Quando le leggo e ne parlo, in quel momento il problema svanisce. Nessuno di quei ragazzi, quelli da “non mi piace la scrittura femminile”, quelli da “ci sono due categorie”, esce dall’aula o si tappa le orecchie, scuote la testa o aggrotta la fronte. Nessuno ribatte: “Sarebbe una bella storia, in effetti, se solo a scriverla non fosse stata una donna. Che peccato”.
Restano tutti in ascolto, perché non fa più differenza, non è importante chi ne sia l’autore. È questa la mia risposta a quelle risposte.
Chiunque si avvicini alla letteratura, dovrebbe farlo senza pregiudizi. Se nutre dei pregiudizi (se per esempio risponde in quel modo), è meglio che ne stia lontano, soprattutto nel caso in cui voglia scrivere. La letteratura è il luogo in cui non hanno casa i pregiudizi. Non è nessuna delle sponde: è il fiume.
“Chiunque si avvicini alla letteratura, dovrebbe farlo senza pregiudizi”
Allo stesso modo, le donne che scrivono o che vorrebbero farlo, non dovrebbero occupare il loro tempo a cercare di dimostrare qualche cosa (cosa?). Temo che sia tempo sprecato, come quello che gli uomini impiegano a chiudere le storie scritte dalle donne in un recinto di frasi fatte e stereotipate. Perché il recinto non resiste neppure a un alito di vento, tutto qui.
C’è differenza tra il mio sguardo e lo sguardo di un uomo? Sì, certamente, mi pare ovvio. Devo difendermi o argomentare al riguardo o chiedere scusa o cercare di riguadagnare un po’ di stima e di rispetto? No. Nel momento in cui mi sento spinta a farlo, è come se cadessi in una trappola, perpetuando l’esistenza di un problema che proprio non ha senso.
Quindi mi chiedo e vi domando: c’è differenza tra il mio sguardo e lo sguardo di un’altra donna? C’è differenza tra lo sguardo di un uomo e quello di un altro uomo? Sì, certamente. Allora, di che stiamo parlando?
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