di Letizia Lanza
Una donna può solo perdere in guerra, mai vincere.
E a lei la guerra non dà nessun brivido di emozione.
Danielle Steel, Messaggio dal Vietnam
Sono tempi assai ingrati, questi. Nei quali – e lo dice tra gli altri Eugenio Scalfari, quando ricorda che lo scorso dicembre, durante un’udienza collettiva di catechesi, Giovanni Paolo II ha lamentato il fatto che Dio non si rivela più, sembra anzi nascondersi nel Suo cielo, in silenzio, quasi disgustato dalle azioni dell’umanità. E affida al Profeta la coppa della Sua ira, affinché la faccia bere alle perfide genti che abitano la terra.
Così dunque Carol Wojtyla, nel parafrasare un passo del Libro di Geremia (cap. 14). Parole disperate e oltre modo sconcertanti, quelle del Pontefice, a dire di Scalfari, in quanto pongono tutti/e noi, credenti e non credenti, di fronte a «un evento di immensa portata religiosa e culturale, etica e perfino politica» («L’espresso», 26 dicembre, p. 42) – denunziando esse i mali del mondo e condannandone con inusitato vigore i responsabili. Certo, continua il giornalista-scrittore, la Voce che – irata e nascosta alla vista, circondata dai nembi del cielo tempestoso – parla per tramite dell’antico Profeta, somiglia solo alla lontana a quella del Dio cristiano, ovvero il Dio che ha inviato sulla terra il Figlio perché s’immoli sulla croce, intacchi alle radici il sistema basato sulla guerra e sulla violenza, stabilisca alfine una nuova, differente alleanza con il genere umano – fondata in primo luogo sull’amore e la misericordia. Qui e ora, però, ai nostri tristi giorni, il peccato degli uomini è più grave di sempre, mostruoso addirittura – al punto di indurre il Pontefice a richiamare le parole dell’antico Profeta, con il suo Dio minaccioso. Il peccato infatti, ora, è «l’esclusivo o almeno dominante amore di sé, espresso in tutte le forme, dalle più violente alle più morbide e apparentemente non conflittuali con i diritti degli altri» (p. 45). Il che, inevitabilmente, comporta la perdita (o per lo meno un forte, fortissimo ottundimento) del sentimento morale, inteso anzi tutto come senso di responsabilità e di solidarietà e di giustizia: «Mammona ha conquistato uno spazio crescente, Paal ha alterato l’equilibrio ontologico tra la forza del bene e quella del male» (p. 45). In giuoco allora, conclude Scalfari, c’è la «natura stessa dell’uomo, gli elementi fondanti della specie, la sua sopravvivenza e il suo destino. I non credenti sono chiamati in causa ancor più dei credenti, non hanno un Dio cui rivolgere lamentazioni o preghiere, né un diavolo da combattere o a cui vendere l’anima, né un Papa che parli per loro. I non credenti sono soli, ciascuno per sé, con il proprio corpo, la propria mente, i propri istinti, la propria individualità, la propria vita e la propria morte. Se saltano gli equilibri di questa multiforme miscela vitale, se l’istinto della sopravvivenza collettiva viene meno, è la vita stessa dell’uomo che entra nella regione dei rischi e del disgusto. La vita si ritira disgustata dal vivere» (p. 46).
Ecco allora perché, in questi giorni drammatici in cui gli USA vogliono imporre al mondo (per servirsene, oltre tutto, come gigantesca arma per la distrazione di massa) l’egoismo, la barbarie, il gelo della guerra – la “loro” guerra (e il pensiero subito corre al confliggere sempre difensivo dei Romani e alla raccapricciante massima si vis pacem para bellum – dove per pace non di rado s’intende il fare terra bruciata [1] – in questi così ardui frangenti, dunque, voglio proporre alcune considerazioni di Luigia Rizzo Pagnin in risposta al mio No war. Dalla parte di Virginia Woolf (http://www.loso.Poiein/autori/lanzaNoWar.htm): perché ogni e qualsivoglia parola, anche (sopra tutto?) laica, qui e ora si levi di contro a Mammona, di contro a Paal, può trasformarsi in una calda goccia di vita.
“Le raccolte di pensieri e giudizi contro la guerra che tu hai tratto dai testi di Virginia Woolf tornano di grande attualità in questo momento così pieno di oscuri presagi e di chiare, dichiarate voglie di guerra, in un paese come il nostro, in cui chi governa è dichiaratamente dalla parte di chi la vuol fare…”
Da Virginia Woolf ci viene l’idea di estraneità. Esiste una cultura femminile “estranea” tanto al potere patriarcale che alla cultura della violenza da esso generata. Le donne non sono neanche contrarie alla guerra. Ne sono estranee. Fuori da quella cultura, fuori dai suoi pensieri, dalle sue pratiche, dai suoi riti (e miti). E questa estraneità appartiene ad un’altra cultura che, anche se non ha avuto parola e scrittura, si è tramandata in saperi e conoscenze per il fatto solo di essere donne che generano altre donne, oltre che uomini. Come donne, per la nostra stessa costrizione storica, abbiamo maturato altri saperi, escogitato altre strategie, saggiato altre possibilità, usato altre risorse. Gesti obbligati, ma anche libere movenze, esperienze che sono state “madri” per capire cosa si doveva far nascere, crescere, proteggere e invece, al contrario, togliere e reprimere. E in tutto ciò l’affinamento di attitudini, percezioni, sensibilità, che, come il reticolo cerebrale, hanno la memoria incancellabile, trasmessa al presente …
Il terzo punto, su cui mi sono soffermata, riguarda il girotondo. È una parola che in questo momento evoca il presente. E non è, come nel pensiero critico di Virginia Woolf, la forma chiusa che racchiude il mondo nel giro del possesso. Oggi, i girotondi che si fanno attorno ai palazzi delle istituzioni, hanno un altro senso, contrario alla egoità e alla proprietà. Mettono insieme le persone. Che, appunto, si danno la mano e chiedono un’altra politica, un altro mondo. Non di uno, di pochi. Di tutti. I girotondi piacciono molto poco ai politici di professione. A destra come a sinistra. Li giudicano vacui. A me, invece, piacciono molto. Piace che la politica, nelle sue forme partecipative, prenda dalle creature piccole, dai bambini. Abbia la modalità stessa della non violenza …
Quel “segno di salute” (Rossana Rossanda, «il manifesto», 12 gennaio 2003) che ci viene da tante parti e nuovi soggetti della società civile – movimenti, girotondi e altro – rischia l’inanità per la contrarietà dei partiti. C’è un passaggio difficile da fare e che riguarda la democrazia negli istituti della rappresentanza. Forse, assistiamo al dischiudersi di una possibilità storica: al passaggio dalla democrazia liberale, sostanzialmente formale, ad una democrazia formalmente sostanziale. Ad un di più di forza e presenza sociale nella democrazia. E questo, come donne, dovrebbe essere anche il nostro rovello. Perché non esiste una politica delle donne che, come tale, non faccia le sue prove in un contesto più generale. Questo è al momento ciò che sento e penso».
Letizia Lanza
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