di Giorgio Nebbia: ”Sono orgoglioso di essere un agricoltore..”

Nelle campagne americane, di quella grande America lontana dalle New York e Los Angeles, c’è chi porta delle magliette con la scritta: “Sono orgoglioso di essere un agricoltore”, Proud to be a Farmer. E con ragione perché l’agricoltura, come dicono i libri, è il settore “primario” dell’economia, anche se nella nostra scombinata società è stato degradato a settore “ultimo”.
L’agricoltura è la grande “macchina” che utilizza l’energia solare e la mette al lavoro nei grandi cicli naturali del carbonio, dell’acqua e degli elementi della terra e “fabbrica” silenziosamente, ogni anno, in maniera sempre uguale, una massa di materia che, in Italia, ammonta a circa 100 milioni di tonnellate, più o meno il peso del petrolio importato e trasformato nel nostro paese. Questa biomassa vegetale in parte è costituita da prodotti idonei come alimenti umani che entrano nei processi dell’industria della conservazione e trasformazione e diventano gli innumerevoli prodotti che acquistiamo nei negozi e che in parte esportiamo. In parte la biomassa vegetale fornisce alimenti per la zootecnia che a sua volta fornisce alimenti umani ricchi di proteine pregiate, previa trasformazione industriale.
Ma che cosa sarebbero le scatole colorate e le vetrine illuminate dei supermercati, se non esistesse il silenzioso e lento e faticoso lavoro degli addetti all’agricoltura, quei soggetti economici che svolgono le più importanti azioni “ecologiche”: la produzione di biomassa, la difesa del terreno agricolo, la regolazione del moto delle acque sul suolo, la depurazione degli effluenti inquinanti, e il cui lavoro non è riconosciuto, anzi è avvilito da politiche di prezzi inique, dominate dai grandi interessi delle multinazionali straniere, dagli intrighi geopolitici internazionali: così viene sfruttato il lavoro di agricoltori di paesi lontani per immettere nel mercato alimenti e prodotti che esercitano rendono poveri altri agricoltori: violenza contro agricoltori stranieri per esercitare violenza contro gli agricoltori italiani e europei.
Un grande movimento di riscossa per l’agricoltura e gli agricoltori, di liberazione contro la violenza di regole commerciali inique, richiede leggi e prezzi e rapporti fiscali più giusti, investimenti statali e di ricerca, una efficace presenza italiana nelle grandi organizzazioni del commercio internazionale, ma, a mio parere, richiede anche un rigurgito di orgoglio del ruolo che l’agricoltura e gli agricoltori hanno nell’economia del nostro e di qualsiasi paese.
Un orgoglio basato sulla consapevolezza che gli agricoltori sono anche i primi grandi operatori nel campo delle fonti di energia e di merci rinnovabili, quelle che possono liberarci dalla schiavitù del petrolio; lo stato giustamente incentiva chi costruisce pannelli solari o impianti eolici, o anche chi rottama, per motivi “ecologici” le vecchie automobili. A maggior ragione dovrebbe sostenere e incentivare le attività agricole che svolgono un ruolo essenzialmente ecologico e che sono in grado di produrre, oltre agli alimenti, energia utilizzando sottoprodotti agricoli e zootecnici, attraverso attività forestali opportunamente progettate; una agricoltura che è capace di produrre materie prime industriali, dalle colture per fibre tessili naturali, alla trasformazione di prodotti agricoli e forestali in materie plastiche, in materie prime industriali e materiali da costruzione.
Una analisi, che sarà pur il caso di fare in questo gran chiacchiericcio sui cambiamenti climatici per rivendicare che l’agricoltura e le foreste sono i grandi sistemi che producono beni materiali e merci senza immettere anidride carbonica nell’atmosfera, assicurando anzi condizioni delle superfici del suolo adatte ad assorbire anidride carbonica e aumentare il riflesso della radiazione solare nello spazio.
Una parte rilevante delle diecine di miliardi di euro che ogni anno vanno perduti per frane e alluvioni, per la distruzione di strade e case e per morti, può essere risparmiata con una lungimirante politica di coinvolgimento dell’agricoltura nella difesa del suolo, nel rimboschimento, nella regolazione del corso dei fiumi, le operazioni che solo gli agricoltori sanno fare. La dissennata politica di abbandono dei campi coltivati, di prezzi irrisori che scoraggiano le attività agricole, porta da decenni allo svuotamento delle campagne, delle parti interne e collinari del paese, all’aumento della pressione umana nelle zone e nelle città costiere, con conseguente congestione del traffico e speculazione edilizia urbana.
Eppure mai come oggi gli strumenti telematici possono offrire informazioni e sostegno e incoraggiamento anche nelle più sperdute zone agricole, possono offrire agli agricoltori gli stessi servizi che sono disponibili ai “cittadini”.
Negli anni della grande crisi degli anni trenta del secolo scorso, drammaticamente così simile a quella che stiamo vivendo, con un popolo di agricoltori, negli Stati Uniti, che avevano i raccolti invenduti ed erano espulsi dai campi dalle speculazioni finanziarie delle banche — ricordate il libro “Furore” di Steinbeck, da cui fu tratto un famoso film ? — il presidente Roosevelt, appena eletto nel 1933, prese iniziative per la difesa dell’agricoltura affidando il relativo ministero a Rexford Tugwell, un professore di economia agraria competente e motivato che sollevò l’agricoltura dalla crisi.
Con uguale volontà e orgoglio bisogna, a mio parere, chiedere al governo, alla comunità europea e a quella internazionale non temporanei favori ma una politica a lungo termine che riconosca il ruolo dell’agricoltura nell’alimentazione, nell’energia e nell’ecologia, per il quale essa è davvero il settore primario dell’economia.

Giorgio Nebbia – nebbia@quipo.it

da Altra Calcata

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