di Claudio Angelini Jero
spunti da “Un inquieto batter d’ali” di Anna Maria Carpi
Disperare della verità. Questo sembra essere stato il dramma di Heinrich von Kleist, come aveva intuito Nietzsche nella sua terza “Considerazione inattuale” del 1874. Kant, egli spiega, solo su pochi pensatori ha esercitato influenza positiva; quanto al popolo, è riuscito a spargere solo “scetticismo e relativismo corrosivo”. Per saperne di più sul poeta e la sua opera ora abbiamo a disposizione l’ottima monografia della germanista Anna Maria Carpi: “Un inquieto batter d’ali” – Vita di Heinrich von Kleist (Mondadori editore, pagg.356, € 22). Si tratta d’una prova a metà fra saggio e romanzo; la Carpi si basa molto sull’ampio epistolario di Kleist di cui ella rielabora le vicende con accattivante tecnica narrativa che alterna spesso la sequenza al “flashback”; il commento ai fatti non è mai sovrapposto, ma scorre quasi parte del contesto. L’emistichio “inquieto batter d’ali” la Carpi lo trae da una delle opere più rappresentative dell’arte drammaturgica kleistiana, la “Pentesilea”, che a Benedetto Croce pareva fosse orgia di sensi truculenti e inumani. Ma, riportato nel modo in cui fa l’autrice, l’emistichio pare condensi in sé il destino di quel genio irrequieto, anelante a levarsi al di sopra dei comuni mortali, abbagliato da questo sogno che doveva dissiparsi provocando la sua rovina. “I tedeschi non sanno essere originali se non sognando“, osservava il Leopardi nello Zibaldone. Rampollo d’una famiglia prussiana-brandeburghese, Heinrich von Kleist, nato nel 1777 a Francoforte sull’Oder, fu avviato alla carriera militare dal padre, che gli aveva insegnato, sin da fanciullo: “Essere è meglio che apparire“. Ma qual è il vero essere? Heinrich, si può dire, ne fu sempre alla ricerca. Non lo trovò di sicuro nella disciplina prussiana, e nel 1799 si congedò dall’esercito. Iscrittosi nel 1799 all’Università di Francoforte, egli poco dopo lasciò anche gli studi, scoprendo di ambire alla gloria letteraria. Gli era stata cara nell’adolescenza la sorellastra Ulrike, la quale pare gli somigliasse come carattere, piuttosto riservata e introversa. Uno dei motivi alla base del mondo poetico di Kleist fu quello dell’eterno femminino, che per il poeta, dopo il crollo di molti suoi ideali (del 1801 è la crisi causata in lui dalla lettura di Kant), era come intuizione di donazione e sacrificio. Egli avrebbe desiderato una compagna aperta ai problemi dello spirito, e madre di figli da educare a una vita eroica. Significativamente in quell’anno Kleist, giunto a Dresda, rimase come folgorato dinanzi al dipinto raffaelliano della Madonna di San Sisto, nella galleria della città. Egli ammirava Goethe, e avrebbe voluto oscurarne la fama. Ma mentre l’”Olimpico” assegna alla donna ideale la funzione precisa di completare l’uomo integrando con le qualità più belle del suo animo quelle di lui, predisponendolo così a un’accettazione piena della realtà, Kleist sente questa integrazione come una perenne ricerca e lotta. Spirito germanico autentico, egli arriva a immaginare, nella citata “Pentesilea”, che tale “fusione” avvenga solo in un modo, con un atto d’antropofagia da parte dell’elemento femminile (Pentesilea) nei riguardi dell’essere amato maschile (Achille). Paiono, in un impianto di tragedia classica, rivivere in Kleist le fosche eroine delle antiche saghe, Brunilde, Gudrun, Grimilde, nelle quali coesistono le due opposte nature del “sanctum aliquid et providum” di cui parla Tacito a proposito delle donne dei Germani. E’, questo, come un mistero che solo i morituri sono in grado di scorgere. Kleist ne ebbe percezione, e sostituì il “pietoso timore” della tragedia classica con l’”arcanus terror” del “numinoso”, del tragico come svelamento del sacro. Nel 1802, rompe il fidanzamento, annunciato un paio d’anni prima, con Wilhelmine, figlia del maggiore generale von Zenge; nessun motivo valido risulta accertato a giustificazione del gesto. In missive del 1800 da Wurzburg, dove fu operato di fimosi, non mancano oscuri accenni a problemi psicofisici più seri nelle relazioni del poeta con l’altro sesso. Nell’ottobre del 1806 Napoleone sconfigge i prussiani a Jena ed Auerstedt ed entra a Berlino. Kleist, che pure a suo tempo s’era entusiasmato per l’illuminismo francese, vive questi eventi come continue mortificazioni al suo amore di patria. Nel gennaio del 1807 a Berlino, sospettato d’essere una spia antifrancese, è fatto prigioniero e spedito in Francia. Verrà liberato solo sei mesi dopo, con la pace di Tilsit. Nel 1808 si verifica poi un fatto che accelera la sua fine. Con Goethe non aveva avuto fino ad allora che scambi epistolari. Lo conosce finalmente a Weimar, ed il grande Wolfgang s’assume il compito di mettere in scena un suo dramma, “La brocca rotta”, ma decide inopportunamente di dividere in due l’atto unico, carico di tensione, di cui consta il lavoro, causandone l’insuccesso. Nel 1810 Kleist darà alle stampe “Caterina d’Heilbronn”, il suo ultimo dramma, e il primo volume dei suoi racconti. Nel 1811, dopo un’ultima domanda per essere assunto al servizio dello stato, si lega d’amicizia con Henriette Vogel. Per il poeta fu determinante che costei, affetta da un male inguaribile, accettasse di suicidarsi con lui. Le ultime lettere di Kleist parlano d’uno stato d’”indescrivibile serenità”. Egli era prossimo al mistero che solo i morituri contemplano; la donna, nelle sue intenzioni, doveva essere un segno di pacificazione sublimata con l’intero genere femminile. Oppure esito visibile al culmine d’un lento processo d’inconscia rimozione. “La verità è che per me in terra non v’era soccorso”. E’ una frase rivelatrice tratta dall’ultima lettera di Kleist, scritta a Ulrike, sua confidente d’un tempo. In una locanda sul Wannsee, lago nei pressi di Berlino, nel nebbioso pomeriggio del 21 novembre, Heinrich prima punta una pistola al petto d’Henriette, e poi alla propria bocca. La buona società dell’epoca ebbe parole d’esecrazione per quell’episodio incredibile.
Quando Kleist ingenuamente si rese conto, dopo aver letto Kant, che non avrebbe più potuto ravvisare una finalità trascendente nelle cose del mondo, sentì che suo dovere di poeta tedesco era tornare all’originario spirito della stirpe. Sperava d’elaborare una sua poetica originale, mediante introspezione degli aspetti istintivi e oscuri della coscienza. La cultura tedesca ha in ogni tempo denunciato questa lacerazione marcata fra realtà e sovrarealtà, fra relativo e assoluto. Ora, come ammette Thomas Mann, che in parte lo stima e in parte lo rinnega, Kleist è il più tipico rappresentante in letteratura d’un germanesimo naturale che vuol disciplinarsi in conformità ai principi dell’ “humanitas” tedesca di tradizione luterana, ma dal cui seno affiora spesso il retaggio delle epoche antiche. Heinrich Heine, poeta rafinato, ironico, vissuto a lungo a Parigi, diceva che tutto il popolo tedesco si può dividere in una metà che rimpiange di non essere stata incorporata con la Germania nell’impero di Roma, e in un’altra metà fiera invece di discendere da Arminio, l’eroe nazionale che quell’evento impedì. Perché la studiosa Anna Maria Carpi ha ritenuto di riproporre la figura di Kleist? Nulla infatti, nel nostro tempo, può sembrare più inattuale del modello umano e sociale di quel poeta, così isolato, così “provinciale”, così avulso dal divenire. Nonostante le sue aspirazioni, infatti, e gli strumenti espressivi da lui prescelti per infondere slancio al suo “batter d’ali”, il suo mondo ideale e fantastico, da cui balzano peraltro squarci d’alta drammaticità e potenza, conserva stilisticamente parlando qualcosa d’indigesto, d’immaturo, d’eccessivamente individualistico. Inutile dire che la sua ambizione, vaga più che proclamata, a una redenzione pangermanistica dell’umanità, e la teatralità del gesto estremo volto a una riconciliazione col femminile e con un ordine universale delle cose, in un’epoca di valori “globalizzati” come la nostra, appaiono soltanto tratti compatibili d’una psiche turbata e repressa. Nell’ambiente di Weimar Goethe non faceva mistero, dopo averlo incontrato, di certa sua repulsione per quell’intemperante prussiano. Solo nell’opera dell’autore di “Faust” si era fuso infatti in maniera originale sentimento tedesco e amore sovranazionale per l’arte, antica e rinascimentale in particolare, da cui venne a quel grande la percezione d’una “Weltliteratur” densa di prospettive. L’esperienza umana e artistica di Kleist può fornire a noi uomini del XXI secolo più d’un motivo di riflessione, divenendo attuale proprio per la sua “inattualità”. E’ nostra opinione che nella sua opera e mentalità si possano cogliere le prime avvisaglie d’una sensibilità mirante all’esaltazione della razza e della civiltà tedesche. Vero è che il Rinascimento, fenomeno tutto italiano il quale improntò di sé l’Europa, in Germania non trovò terreno propizio ad espandersi, e Goethe ben sapeva che esso era all’origine d’ogni autentica libertà di pensiero e d’espressione. Sull’orgoglio nazionalistico kleistiano invece (valga come esempio il dramma “La battaglia d’Arminio”), e successivamente germanico in senso lato, potentemente influì la Riforma luterana. Kleist è colui che rivivendo in sé confusamente lo spirito della Riforma, finisce col trasformarne l’essenza cristiana in una sorta di paganesimo agnostico. Lutero infatti, col suo intransigente antiromanesimo, arrestò in Germania il processo di diffusione della cultura umanistica. Non fu con Kant, come disse Nietzsche, che si sviluppò per la prima volta in Germania il relativismo, ma con l’individualismo indotto dalla Riforma protestante. Da allora, accettato il principio che Dio è presente in ciascuna libera interpretazione delle Scritture, si verificò un proliferare di concezioni relative, della storia, della cultura, della politica, di cui ognuna paradossalmente tendente a costruirsi un proprio “assoluto”. Nel racconto di Kleist “Il brigante galantuomo”, c’è, pregevolissima, la definizione del tema centrale, cioè la bramosia di sopraffazione, nel Cinquecento, da parte delle classi nobiliari, tema che con tanto superiori esiti artistici doveva esser ripreso dal nostro Manzoni. Ma in Kleist è significativo che la vittima del sopruso, il mercante Kohlhaas, cerchi invano di veder riconosciute le proprie ragioni dall’autorità costituita. Fra i numerosi potenti cui egli si rivolge fiducioso d’aver giustizia c’è non a caso Martin Lutero, il campione dei diritti del singolo e della libertà d’opinione; ebbene, sarà proprio lui che nella maniera più spietata esigerà l’applicazione della legge vigente, facendolo condannare.
Fra le conseguenze più singolari della storica dicotomia tedesca fra ragione e sentimento, ci piace ricordare, agli inizi del Novecento, il caso dell’austriaco Otto Weininger, filosofo e psicologo, legato quasi da un filo sotterraneo all’amara sorte di Kleist. Intuendo prossima la fine dell’impero asburgico, Weininger ripropose, come estremo tentativo, in un libro famoso del 1903, “Sesso e carattere”, la ragione kantiana come sublimazione del soggetto e “volontà di valore”, contrapponendola alla “filosofia del corpo” di Nietzsche. Ma lo sforzo di Weininger comportava il rigetto totale di due figure, costituenti, all’interno del suo sistema, una contraddizione insanabile: la donna, e l’ebreo. Weininger si sparò un colpo di pistola nel 1903 a Vienna, a ventitre anni, in una nebbiosa giornata d’ottobre.
Fra altri importanti nomi del Novecento variamente influenzati da Kleist, oltre che l’espressionismo in generale, faremo quelli di Heym, Kafka, Rilke, Thomas Mann.
Se è vero che per secoli il pensiero tedesco s’è mostrato incline ad astrarre dalla realtà delle cose, oggi, in epoca di cultura globalizzata e sovranazionale, un modo articolato e profondo di pensare, di osservare gli sviluppi della realtà, può riuscire “super partes” meglio di altri. Vale a dire, può conciliare meglio gli altri vari atteggiamenti speculativi riconoscendo al fondo di ciascuno d’essi le esigenze umane e spirituali di carattere universale.
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