di Maddalena Rispoli
Il gran giorno era giunto, finalmente. Tanino Scramocchio si alzò con un senso di allegrezza nel cuore che lo avvolgeva fin nel più profondo delle viscere; si sentiva leggero, quasi aereo, come un sottile fuscello di paglia trainato dal vento e ogni passo per la stanza lo faceva librare come un granello di polvere sollevato da un colpetto leggero di scopa. Aveva voglia di cantare, anche una cosa qualunque, e di raggiungere la cima più alta dell’albero di carrubo che svettava da sempre davanti al casalino in cui abitava. Sprimacciò il pagliericcio che fungeva da letto e si avviò verso le imposte di legno che chiudevano la finestrella munita di solide grate di ferro posta in alto sulla parete. Subito entrò un sottile velo di luce lattiginosa foriera di giornata umida ma ben calda. Si configurava nella mente l’acciottolato che lo divideva da Naro dove Dichinedda lo attendeva per il grande giorno.
L’ora era giunta dopo tanto pazientare e tanto ucchiari. La fanciulla gli era piaciuta subito. Era bella e di buon carattere ma soprattutto non era cu li naschi tisi e lo dimostrava le rare volte che usciva per le strade del paese: passo dritto, occhi bassi, fazzoletto ben teso sulla testa anche se le due cocche sventolavano con un certo capriccio sotto la gola, gonne lunghe e ben rigonfie di pieghe,camicetta stretta con i bottoncini serrati fino in alto. Anche la minzana riferiva di comportamenti seri e molto morigerati: nessuno aveva mai rumputu lu scaluni per domandare la ragazza in moglie e ciò dichiarava che nessuna coffa era preparata per lui.
Si guardò nello specchietto che penzolava appeso con un chiodo nel muro sulla bacinella piena di acqua ed ebbe un moto quasi di alterigia nel rimirarsi il viso: occhi dritti e fieri di un bel colore verde sottobosco, incarnato olivastro, capelli ricci e neri. ”Gagliardo!” si disse da solo. Solo la camicia sorcigna gli conferiva una nota stonata ma non aveva altro di dignitoso, il suo mestiere di conzapiatti gli dava il necessario per vivere ma non per scialare. Forse, un giorno sarebbe pure potuto divenire fingulu, aspirare persino a costruire con le sue mani magnifiche quartare e bummuli.Quando le massaie gli portavano i fangotti da rabberciare, si metteva all’opera tra un nugolo di ragazzini che gli svolazzavano intorno come mosche su di un piatto di conserva al sole e gli occorreva del bello e del buono per preparare li pinzi e u ferru filatu ripescandoli dalle bisacce adagiate sul mezzo di trasporto che fedelmente lo seguiva da sempre: u sceccu Totò.
Tanino e Totò erano cresciuti quasi insieme e tra di essi si era instaurato un rapporto di fedeltà affettiva molto vicina all’amore, si comprendevano, sapevano dove andare, conoscevano la via di casa, pranzavano insieme e si abbeveravano insieme, dormivano con un solo tramezzo di legno che divideva il casalino dalla stalla e così i loro respiri quasi si confondevano nella notte. Anche la fisionomia di Tanino si era trasformata nel tempo ed il suo viso aveva assunto, giorno dopo giorno, quasi quella del suo amato Totò. In paese era stato soprannominato Taninu u sceccu ma ciò non gli cagionava disappunto anzi lo inorgogliva poiché poteva dimostrare a tutti che era proprietario della vettura vivente e dunque benestante. Inoltre non avrebbe mai cambiato la sua ricchezza ambulante con quella nuova diavoleria che correva veloce veloce, tanto veloce che all’inaugurazione le signore sedute sulle carrozze erano svenute per la velocità folle.(E qui si faceva la croce con la mano manca).Era una sorta di carrozze unite insieme, tirate da un grosso pentolone che gettava fumo nell’aria con le ruote di ferro che correvano su di una strada anch’essa di ferro e il tutto riusciva a percorrere un fottìo di territorio partendo da Girgenti per giungere …chissà dove. Si diceva ancora che la Ditta appaltatrice era franzosa di Francia e addirittura aveva pagato con panari pieni danaro sonante.
Le massaie intanto si affollavano intorno al giovane, ciascuna portando l’oggetto in terracotta da rabberciare.
“Taninu, vidi ‘ssa burnia”Lo apostrofavano “… E travagghia bbonu!” Concludevano.
Il conzapiatti non rispondeva mai alle sollecitazioni, le riteneva quasi un’offesa alla sua arte sopraffina. Chi meglio di lui sapeva usare il piccolo trapano adatto a fare i buchetti piccoli piccoli attraverso cui infilare il fil di ferro per rabberciare le due parti del coccio? E chi meglio di lui sapeva levigare le due parti tanto da rendere invisibile all’occhio la riparazione effettuata? Nessuno nel circondario ne era certo. E questo poteva essere testimoniato dal fedele Totò sempre attento e pronto a fornire gli attrezzi da lavoro depositati nelle gerle in cui Tanino li coricava con passione prima di partire per la piazza.
La voce sulla sua serietà di lavoratore gli aveva procurato parecchi clienti ed una manciata di tarì raggranellati uno ad uno e ben nascosti nel buco che aveva scavato sotto le travi del soffitto di casa.
Doveva comprare qualcosa che aveva adocchiato da qualche tempo da un venditore ambulante di Girgenti: una scialla di seta nera con le rose rosse e tanto di frangia che pendeva maliziosamente. Sulle spalle di Dichinedda, la domenica avrebbe fatto un figurone e suscitato l’invidia delle comari che abbacchiando le mandorle si sarebbero dette con invidia spingendosi con il gomito: “Cummari, vidissi a scialla ‘i Dichinedda …”
Avrebbero ammiccato, si sarebbero complimentate con la madre della promessa per il buon partito che la figlia stava per sposare, avrebbero detto cose vere e non vere… insomma per Tano ogni punto nel coccio era orgoglio.
Andare a Girgenti con il suo Totò, recarsi in città e fare spese… Quasi un sogno che il mucchietto di tarì gli avrebbe concesso di concretizzare presto!
Il giorno, infatti, arrivò. Tano si levò all’alba, strigliò per bene la sua vettura, si rasò, indossò l’abito della festa, tolse i denari dal buco ed iniziò l’avventura cittadina.
S’incamminò lungo il poggio che saliva verso mezzacosta e si ricongiungeva con lo stradone di terra battuta che, dritto dritto, arrivava a Girgenti. Alla sua sinistra un burrone profondo che precipitava nel mare turchino, alla destra fichi d’India con le pale irte di spine e di frutti già colorati di verde, di rosso e di giallo. Sembrava che tutti quel mattino lo amassero profondamente:gli uccelli che giravano in allegro sciamare, il mare che mescolava spuma bianca tra il turchino e, in lontananza il verde intenso, la polvere della strada che turbinava allegra sotto lo zoccolare quasi festoso di Totò, gioioso e sculettante, pronto a dire “Girgenti, staiu vinennu!”
Superarono la bettola di Gerlando Ancatisa, ancora chiuso perché gli ubriaconi del paese, si sa, si alzavano tardi. Ma ciò poco importava Tano salutò lo stesso la porta chiusa e così fu passando davanti al Cimitero dove, per riverenza, si tolse la coppola dal capo.
Giunsero lui e l’asino, furono guardati di sottecchi dai cittadini, furono scherniti persino dai famigli e dalle fantesche dai grembiuli inamidati, furono accomunati,uomo e animale, nella goffaggine dai carusi di strada ma nemmeno la celia riuscì a sviare l’acquisto tanto sognato. E così fu.
Tornavano felici e si configurava nella mente l’ingresso nella casa della ragazza, i convenevoli, la passata di biscotta che certamente la mamma avrebbe preparato con molta cura per il ricevimento, le presentazioni, le sedie in circolo con tutti i parenti e Dichinedda seduta dalla parte opposta alla sua.
Il viottolo di mezzacosta sembrava ora più lungo e più stretto, quasi che per magia avesse voluto ritardare i tempi di Tano e Totò i quali non guardavano nello strapiombo sul mare, i loro pensieri erano rivolti altrove volavano verso immagini più liete.
Non si accorse, Tano, del conigliolo che improvvisamente sbucò chissà da dove inseguito da un secondo che quasi ruzzolò tra le zampe di Totò il quale, spaventato a morte, s’inarcò con un grande scossone e la terra gli mancò sotto le zampe.
Caddero entrambi senza alcun rumore, si librarono nell’aria come due fagotti di cenci,danzarono quasi annaspando inutilmente finché non raggiunsero gli scogli a pelo dell’acqua dove si depositarono immobili.
Un fazzoletto di seta con grandi rose rosse svolazzò solitario e andò ad affogarsi nel mare, dapprima galleggiò mollemente con una certa sensualità. Poi si posò e le onde lo calarono a fondo.
Maddalena Rispoli
NOTE
Ucchiari = guardare
Cu li naschi tisi = con il naso in aria per civetteria
Minzana = mezzana
Rumpiri lu scaluni = presentarsi come pretendente
Coffa = fregatura
Fingulo = rabberciatore di terracotte
Fagotto = grande piatto cavo in ceramica
Bummulu = piccolo contenitore di terracotta per l’acqua
Quartara = grosso contenitore di terracotta per liquidi
Sceccu = asino
Taninu vidi ‘ssa burnia… e travagghia bbonu = Tanino guarda questo contenitore… e lavora bene
Cummari, vidissi ‘a scialla ‘i Dichinedda = Comare, guardi lo scialle di…
Girgenti staiu vinennu = Agrigento, sto arrivando.
Ancatisa = Ancatesa,sciancato
Caruso = ragazzo
Biscotta = Biscotti da forno.
Conzapiatti = rabberciatore di ceramiche rotte Vettura = l’asino
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