Avevano già soggiornato a Roma, i giovani fratelli Heinrich e Thomas Mann, agiati borghesi tedeschi della lontana Lubecca quando, nel 1895, giunsero per la prima volta a Palestrina, piccola città montana a sud est della capitale. Trascorsero in essa l’estate di quell’anno, e vi faranno ritorno due anni dopo, nel 1897, per una nuova vacanza estiva. Fra i molti libri che avevano, com’è ovvio, con sé, c’erano quelli di Nietzsche, e un interessante studio economico-sociale del 1890, “La campagna romana”, d’un loro compatriota, Werner Sombart. Perché avevano scelto proprio Palestrina come loro soggiorno? A distanza di quasi centodieci anni l’interrogativo, per quanta luce sia stata fatta sull’argomento, mantiene cospicui motivi d’attualità. Leggendo in quegli anni Nietzsche, Heinrich, che già conosceva la letteratura italiana e D’Annunzio, si lasciò sedurre dall’aspetto estetico-decadente del pensatore tedesco; ma già fra le mura di Palestrina osservava con uno spirito nuovo, lucidamente obiettivo, la minuta realtà, sociale e naturale, che lo circondava. Se infatti uno dei primi romanzi di Heinrich, “Le dee” (1902), risente ancora del frivolo clima “fin de siècle”, il narratore, che già s’era cimentato con argomenti sociali, trae dalle due estati di Palestrina abbondante messe di spunti, riflessioni, annotazioni. Del resto, in quegli anni gli ideali borghesi-romantici s’erano dissolti da un pezzo, e gli artisti si dividevano incerti fra atteggiamenti asociali, decadenti e nuove proposte della scienza e della filosofia positiva. Anche Thomas s’era imbevuto di Schopenhauer e di Nietzsche, e anche lui s’era in qualche misura aperto alle teorie del naturalismo. Ma la traccia che Nietzsche doveva lasciare in lui era più profonda; del filosofo, Thomas doveva assorbire più la parte irrazionale-superomista, sia pure rielaborandola in maniera personalissima e spesso ambigua. E questo variegato impasto, o miscuglio di sensi e d’idee, anche per Thomas doveva esplodere, e cominciare a manifestarsi a Palestrina, nel 1897; fra quei vicoli scoscesi, quel panorama sterminato, quella gente umile e a un tempo orgogliosa, egli sentì schiudersi in sé le prime gemme d’un capolavoro, “I Buddenbrook”, che vide la luce nel 1901, mentre per Heinrich l’ambiente della cittadina fu l’humus ispiratore di “La piccola città” (1909). Palestrina venne a essere così per i due fratelli letterati un autentico laboratorio di ricerca e pensiero, luogo elettivo d’ iniziazione all’arte, e alla vita. Dai presupposti del saggio di Sombart i Mann ricavavano l’idea d’un entroterra romano con piccoli centri ov’erano ancora forti le caratteristiche feudali, miste però a una realtà sociale emergente e a situazioni di tensione e scontro politico. Tale invero doveva essere Palestrina: il clero vi era ancora potente, ma le “élites” risorgimentali si andavano lentamente trasformando nei cosiddetti ceti medi. Heinrich e Thomas alloggiarono, non lontano dal famoso tempio della Fortuna, in un palazzo adibito a “Pensione per Stranieri”, vicino anche al Convento dei Cappuccini. Da lì scendevano in piazza, allora Savoia, oggi Regina Margherita, e sedevano al “Caffè del Progresso”, come lo chiama Heinrich nella “Piccola città”, corrispondente, com’è stato accertato, al Caffè della Fortuna, o Bonanni, dove si radunavano tutti coloro che ideologicamente si contrapponevano agli avventori del Caffè di Sant’Agapito, ritrovo dei ceti più conservatori. Lì avevano sotto gli occhi una galleria varia e vivace di soggetti umani, d’ogni ordine e grado: l’avvocato, il farmacista, il tenente dei carabinieri, il segretario comunale. Camminando per i vicoli dovevano spesso schivare basti d’asini carichi e mandrie d’invadenti maialini neri. Amavano, i due fratelli, andare alla ricerca di luoghi discosti e ombrosi, per poter lavorare tranquilli. Una delle loro mete predilette era Villa Fiorentini, detta Villascura perché costantemente ombreggiata da lecci e da lauri, dalle cui scalinate protese in semicerchio si potevano ammirare gli splendidi tramonti d’oro della campagna romana. Ma Thomas era attratto particolarmente, cominciando dalla casa natale, da ogni luogo che ricordasse la presenza del genio, del Principe della musica, Giovanni Pierluigi detto proprio il Palestrina. Molti anni dopo, nel “Doctor Faustus” (1947), cercando una risposta al perché della barbarie nazista, Thomas farà dire al protagonista, il compositore Leverkuhn, che solo nel Convento dei Cappuccini di Palestrina egli si sentiva particolarmente ispirato, là dove il contrappunto di Giovanni Pierluigi aveva raggiunto la più alta espressione della religiosità. Certo, erano lontani i tempi in cui Goethe, sceso in Italia, riteneva che l’arte fosse il prodotto “d’arcane forze della natura”. Heinrich era più aperto alla lezione di Stendhal, Taine, Zola. L’arte, aveva detto Stendhal, è opera soprattutto di passione individuale, di cui sono ricchi gli italiani perché non hanno ancora un vero stato e una società, aggiungendo però che la politica è il necessario freno della passione. Atteggiamento dunque ambivalente, che però toccava il cuore dei Mann, figli di madre brasiliana creola, e quindi con molti caratteri latini nel loro patrimonio genetico. Heinrich vedeva nei tramonti d’oro massiccio di Palestrina affinità con le pitture bizantine, Thomas la considerava solo una coincidenza esteriore, non ammettendo equiparazione fra esperienza vissuta e esperienza artistica. E’ noto del resto che fra i due Mann vi fu sempre una sorta d’antagonismo estetico, ma Heinrich riuscì con gli anni ad appianare il contrasto fra ragione e sentimento, Thomas mai. Per quanto, nei “Buddenbrook”, l’analisi che egli fa della rovina d’una potente dinastia borghese risenta nell’impostazione dei canoni naturalisti, vi s’affaccia già l’idea che la passione e l’arte, specialmente la musica, sono una sorta di morbo fatale, che annulla ogni ordine sociale, e la vita stessa. Dalla permanenza in Italia si può dire che venne a Thomas un più acuto vagheggiamento dell’artista come individuo eccezionale e isolato, destinato al disfacimento. Heinrich invece scruta da una parte miserie e grandezze dell’animo umano, da un’altra denuncia ingiustizie e assurdità del sistema entro cui agiscono i personaggi. Così è per “Il professor Unrat”, più noto forse come “L’angelo azzurro”, critica spietata della società d’epoca guglielmina, o per “Il suddito”, il miglior romanzo di Heinrich, nel quale sono ancora vivi i ricordi di episodi e personaggi di Palestrina. All’avvento del nazismo, entrambi i fratelli esularono, giungendo infine negli Stati Uniti. Thomas però s’era già dissociato dalle posizioni di Heinrich nel saggio “Considerazioni d’un impolitico” (1918), pur non tralasciando di ribadire in esso che la politica costituisce l’alienazione dell’individuo e dell’artista. Nella “Montagna incantata” (1924), s’intravede invece una fuga dal pensiero di Nietzsche e sgomento per l’imminente sfacelo della democrazia tedesca. Queste contraddizioni saranno presenti in Thomas fin negli ultimi romanzi dall’America, in cui traspare nostalgia d’uno stato borghese efficiente. Certo egli, che subì sempre il fascino di Goethe, Wagner e Nietzsche, appare oggi quasi l’estremo esponente d’una temperie culturale, quella romantico-decadente, i cui effetti sono ormai esauriti nel tempo, pur rimanendo il creatore di personaggi e ambienti indimenticabili. Quanto ad Heinrich, sempre posto dalla critica un gradino al di sotto del fratello, molta della sua produzione attende ancora d’essere più obiettivamente considerata. Oggi molti ammettono che egli, influenzato dalle reminiscenze dei suoi anni giovanili in ambiente romano, fosse sempre più in grado nei suoi scritti d’anticipare nuove sensibilità, fino a far balenare nella tecnica narrativa naturalista il preannuncio di certe acquisizioni espressioniste e psicologiche proprie di un’epoca che probabilmente il Novecento non ha ancora chiusa del tutto.
Claudio Angelini
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