di Matteo Lo Presti

Quella hacker è una filosofia che spinge alla creatività e alla condivisione opponendosi ai modelli di competizione e proprietà privata. Lo dice il direttore di “Civiltà cattolica”, Antonio Spadaro.
«Hacker è chi si impegna ad affrontare sfide intellettuali per aggirare e superare creativamente le limitazioni che gli vengono imposte nei propri ambiti di interesse. Per lo più il termine si riferisce a esperti di informatica, ma di per sé può essere esteso a persone che vivono in maniera creativa molti altri aspetti della loro vita. Quella hacker è insomma una sorta di “filosofia” di vita, un atteggiamento esistenziale, giocoso e impegnato, che spinge alla creatività e alla condivisione, opponendosi ai modelli di controllo, competizione e proprietà privata».
Questa definizione semplice e pacata non trova posto in una enciclopedia di informatica, ma nelle pagine della Civiltà Cattolica, la rivista quindicinale dei padri gesuiti, fondata nel 1850. A scrivere l’articolo è il giovane direttore della rivista, Antonio Spadaro, autore di numerosi testi di critica letteraria e attento studioso delle problematiche della contemporaneità.
Tra bisogno e attese l’uomo, sostiene Spadaro, deve fare i conti con una situazione di finitezza che chiede di essere interpretata con autenticità e pienezza. «Sono stato colpito-spiega nel suo ordinatissimo studio, nel convento dove abita – da molte riflessioni nate nel mondo anglosassone sul significato dell’agire umano, sul tema del lavoro non come maledizione biblica, ma come partecipazione gioiosa alla vita del mondo: una nuova sfida intellettuale, per inquadrare la presenza dell’uomo sulla terra e la sua vicinanza sempre maggiore e più importante con la macchina-computer».
Ovviamente padre Spadaro non parte dalla definizione di hacker che si trova correntemente sui vocabolari, e cioè «pirata del computer, pirata informatico» o dal verbo dai multiformi significati to hack, cioè tagliare, mutilare, fare a pezzi, ma anche farcela, aprirsi un varco nella giungla. Attinge piuttosto da una più preziosa tradizione filologica che risale agli anni Settanta, quando il termine aveva connotazioni di élite: «computer hacker» era chiunque scrivesse il codice software con abilità programmatoria e veniva perciò a fare parte di una corporazione che Stefen Levy tenne a battesimo in un volume dal titolo: Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica. Correva l’anno 1984: l’anno fatidico nel quale i computer incominciarono a spuntare un po’ ovunque e iniziarono anche le strategie, le sperimentazioni di finalità dannose. Levy, affascinato da quella realtà, codificò principi generali su cui basare regole e comportamenti hacker: accesso ai computer illimitato, informazioni sempre libere, sfiducia nell’autorità, creazione di arte e bellezza con il computer.
Padre Spadaro muove da qui: «La tecnologia mette in ballo la vita dell’uomo e cioè l’eterno dibattito tra il bene e il male. La rivoluzione di internet segue le regole delle altre rivoluzioni: comunicare un messaggio e creare relazione. Occorre capire come l’uomo sta cambiando il suo modo di pensare nel momento del suo viaggiare in rete. La fede vissuta con questi cambiamenti che influsso ha sugli uomini? Come cambia l’idea di Dio con i motori di ricerca? Qualunque persona che va su google vive di ricerca: questo cambia la ricerca su Dio? Come articoliamo oggi la domanda nei milioni di siti nei quali il problema religioso viene posto? Una volta la bussola indicava il cammino e conosceva la direzione: il Nord per esempio. Oggi abbiamo milioni di messaggi che ci bombardano e l’uomo come il radar deve riuscire ad intercettate il messaggio giusto. Troppi sono i messaggi di pseudo salvezza, che danno risposte facili a domande complesse». Ma chiarire che ruolo svolgano gli hacker nel rapporto antropologico tra la macchina e Dio non è semplice, anche se, come ha scritto il filosofo Emanuele Severino, «la tecnica è un gigante capace di toccare il cielo con un dito».
Padre Spadaro ha buona opinione di chi “smanetta” sul computer. «Sia la cultura religiosa sia la cultura hacker condividono l’ obiettivo ambizioso di migliorare la qualità della vita. Gli hackers hanno un atteggiamento attivo impegnato, condividono i risultati del loro lavoro e delle loro ricerche, sono sempre in cammino verso la conoscenza, collaborano a progetti comuni e, nel momento in cui c’è lo scambio alla pari, l’autorità è distribuita tra i membri della comunità. Il riferimento è Pekka Himanen che nel suo importante testo L’etica hacker e lo spirito dell’informazione (Feltrinelli, 2001) spiega che l’uomo è chiamato ad «un’altra vita»: non più l’uomo del fordismo, legato all’orologio dell’efficienza, ma l’uomo attivo che persegue le proprie passioni e vive in uno sforzo creativo che non ha mai fine e sa che la sua umanità non si realizza in un tempo organizzato rigidamente, ma nel ritmo di un impegno che è la misura di un lavoro veramente umano e che meglio corrisponde alla natura dell’uomo. Cioè ci si allontana dalla logica del profitto per avvicinare la comunità degli hacker a valori condivisi, ad un linguaggio comune». E la comunità dei cristiani ha vicinanze stringenti con il mondo dell’impegno informatico se è vero che Larry Wall nel 1987 creò un linguaggio informatico Perl (Practical Extraction and Report Language ) che deve il suo nome alla perla di gran valore trovata dal mercante che tutto vende per possederla, di cui parla Gesù nella parabola riportata dal Vangelo di Matteo (13,44-46). E la suggestione della nuova tecnologia è così attraente che Himanen ricorre a Sant’Agostino per chiarire l’interrogativo: «Perché Dio ha creato il mondo?» Ecco la risposta hacker «Dio in quanto essere perfetto non aveva bisogno di fare assolutamente nulla, ma voleva creare». Insomma, il più grande hacker della storia .
E Padre Sapadaro commenta. «Certo l’hacker ha una sua specificità che non si può assolutizzare, ma quello che si può dire è che l’uomo, con il suo lavoro, partecipa all’ azione creativa di Dio: partecipa ad un progetto per navigare, per scrivere, per visualizzare e lasciare il codice aperto al libero contributo di tutti. La logica hacker è quella della genialità che genera progetti di lavoro e sfide. Si scambiano abilità, codici, si collabora ad un progetto spesso in modo anonimo, così come insegna la teologia e la logica della Rivelazione cristiana: un dono che viene dall’alto, un dono indeducibile, un dono inaspettato, che crea sorpresa, che esalta il rapporto personale, che va salvaguardato. Il dono hacker significa anche offrire qualcosa, perché chi vuole possa prendere, il dono cristiano è innanzitutto donare qualcosa a qualcuno. E tuttavia la donazione del sangue è dono simile al dono hacker. Anche la manifestazione di Dio viene percepita come atto gratuito di Dio. Anche qui si collabora ad un progetto come nella confraternita degli hacker».
E poiché su queste tesi non sono mancate polemiche, anche con un editorialista dell’Osservatore Romano, padre Spadaro precisa: «Questa visione dell’autorità distribuita implica una interessante sfida sul modo di percepire la presenza della Chiesa: nessuno vuole eliminare autorità e autorevolezza, ma autorità e autorevolezza vanni sempre più coniugati con il dovere della testimonianza».
Il cardinale Gianfranco Ravasi ha detto recentemente «è il momento di essere su Internet, dobbiamo guardare a tutto il complesso dell’informazione, i mezzi di comunicazione sono diventati le nostre protesi». E padre Spadaro commenta: «Siamo nel solco della grande intuizione di Paolo VI, quando affermava che il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale. Annunciare la fede al tempo della cultura digitale è riconoscerne il valore e la dimensione spiritual
http://www.ilriformista.it

Categorizzato in: