La letteratura è diventata troppo prevedibile e autoreferenziale. Cari scrittori, fatevi venire delle idee
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di Mariarosa Mancuso
Un favore personale, romanzieri italiani. Non dovrebbe costare molto, e anche se costasse fa parte del mestiere che avete scelto (o da cui credete di essere stati scelti, con uno scarico di responsabilità che ricorda l’insegnamento di Homer Simpson al figlio Bart: “Devi dire sempre ‘Era già così quando sono arrivato’”). Inventate. Ripetiamo: “Inventate”. Gli anglosassoni dicono “fiction”, per sgombrare il campo dagli equivoci. Tutto il resto o è prosa d’arte o è poesia: in entrambi i casi, pratiche diverse dal romanzo. Inventate. Scrivete qualcosa che abbia qualche grado di separazione con le vostre giornate, i vostri amici, la sbronza dell’altra sera, la canzone del cuore. Qualcosa che esca dal binarietto delle vostre vite, barbose come la nostra. A volte rendete piena confessione sul risvolto di copertina, citando malanni, lutti, fidanzate fuggite, colpo di fulmine per l’autofiction dopo aver troppo letto Emmanuel Carrère (più gli scrittori -intendiamo, gli altri scrittori- sono bravi, più fanno danni).
Qualcuno è riuscito nell’impresa di avviare una bella carriera pubblicando le lettere di rifiuto editoriale a lui indirizzate. Questi sono i migliori. I peggiori sono quelli che non confessano, e neanche si nascondono dietro l’autofiction. Ma se abbiamo scambiato con loro qualche chiacchiera, o sbirciato nelle loro biografie, quando leggiamo il romanzo scopriamo che hanno per orizzonte l’ombelico (o giù di lì). Le loro fidanzate (regnanti o traditrici), le loro montagne, le loro ansie, i loro amici italiani a New York, divisi tra romani (tanti, nullafacenti) e milanesi (meno, studianti o lavoranti), la loro paura di essersi beccati il colera da piccoli, il loro primo contratto di lavoro.
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