di Letizia Lanza

Esce a Firenze per i tipi di Le Lettere il recente volume (2008, pp. 288, Euro 25,00) a firma dell’anglista (e narratore e poeta) di Ca’ Foscari: Il bianco, il nero, il colore – Cinema dell’Impero Britannico e delle sue ex-colonie (1929-1972).
Un libro eccellente – pietra miliare nell’ambito degli studi filmico-letterari – che per la prima volta ricostruisce la storia del cinema imperiale e post-imperiale anglofono visto nei suoi rapporti con la letteratura coeva e con la storia, così da mettere a fuoco il contatto tra “Io” bianco (occidentale) e “Altro” di colore (indiano, africano, aborigeno).
Un libro importante, nel quale i gesti artistici vengono collocati nel loro contesto storico-culturale e analizzati nelle estetiche che li animano, non aliene da razzismo e propaganda o anche, in un momento successivo, da nazionalismi o da una dissacrante critica dell’egemonia occidentale, che giunge all’esplicita denuncia del neo-imperialismo Usa.
Un libro che adotta una prospettiva particolare fin dall’Introduzione, dove l’autore denuncia un fatto tristemente noto ma troppo spesso, e strumentalmente, obliterato, ossia a dire che «ogni cultura egemone perentoriamente impone i propri vincenti parametri … pretende omologazione da parte del subalterno e contemporaneamente lo svilisce … rifiutandosi di vedere all’interno della cultura Altra anche ciò che potrebbe rendere migliore, o più “felice”, la cultura egemone stessa: il dialogo non è possibile; l’unica opzione per il vincente è la negazione – il non-essere – dell’Altro. L’Impero mette in atto un meccanismo generalizzante che nega varianti e sfumature non solo nella cultura Altra ma anche nella cultura egemone. L’Impero non è somma di individui con rispettive differenze, bensì astrazione perentoria, discorso, concetto. Simulacro fondato su miti più che sulla Storia e le storie. L’unico modo per imporlo è la coercizione autoritaria anche al suo interno». Di qui, «terrorista non è solo il ribelle armato che resiste alle armi dell’Imperatore, ma anche chi pure appartenendo alla cultura egemone non vi si adegua: l’idealista, l’egualitario, il pacifista, la persona innamorata del divino o turbata dalla carne, quella innamorata di un individuo di altro colore, l’intellettuale scettico e chiunque si rifiuti di osannare il Simulacro. L’Impero ammette l’ipocrita – anzi: lo predilige – ma non può ammettere lo scettico. Pur di sopravvivere, il Simulacro accetta metamorfosi a patto di continuare a essere vincente. Quando un Impero tenta di definirsi concretamente (tramite ad esempio una lingua, un sistema giudiziario, una religione) assume solo un abito al fine di erigere appunto un Simulacro. Chi non si adegua alla mutazione è obsoleto. Poiché il suo territorio è concettuale, il Simulacro può anche spostare il suo centro egemone. Il suo territorio, ipotetico e concettuale, può espandersi o ridursi, non essendo mai comunque identificabile attraverso confini materiali … Se all’interno di una nazione il terrorista è chi mira a deterritorializzare un territorio mappato e fisicamente riconoscibile e a sconfiggere l’“apparato di Stato” attraverso le “linee di fuga” del suo desiderio individuale (per quanto delirante questo possa essere) e le sue “macchine da guerra”, all’interno di un Impero il terrorista è anche chi dubita o si mostra inadeguato o non adora il Simulacro. Chi non adora, disobbedisce a un concetto astratto eretto a Legge che si ramifica in poteri economici e controlli materiali ma non è quelli: il terrorista imperiale deterritorializza un territorio concettuale» (pp. 15-16).
Un libro certamente di spicco, tanto da indurre Goffredo Fofi – nome storico della critica cinematografica che da mezzo secolo crea sommovimento nella cultura italiana (e non solo), animatore di riviste autorevoli come Quaderni Piacentini e Ombre Rosse (oltre che, per lunghi anni, del settimanale FilmTV con la gloriosa direzione di Emanuela Martini), fondatore di altre testate quali Linea d’Ombra e Lo Straniero (che attualmente dirige) – tanto, dicevo, da interessare Fofi e indurlo a presentare l’autore e il suo saggio al Lumière di Bologna, in una delle dieci sezioni del Festival Il Cinema Ritrovato – che, forte del sostegno della XXXVII Mostra Internazione del Cinema Libero e della Cineteca del Comune, si è svolto dal 28 giugno al 5 luglio 2008 con la direzione artistica di Peter von Bagh, esplorando perle non di rado sconosciute o semisconosciute della filmografia mondiale, capolavori che sanno attraversare il tempo conservandosi pregni di quell’energia e quella bellezza che li hanno resi grandi.
Un libro insolito anche nelle convinte parole del critico. Un prodotto raro in Italia, ricchissimo di spunti, annotazioni, suggerimenti, suggestioni, affondi – che aiutano a capire l’evoluzione delle produzioni contemporanee sfociando altresì nelle tematiche salienti della storia del 900. Un volume denso – corredato di un corposo apparato di Note (per capitoli e conclusive) e di un Indice ragionato dei nomi e dei titoli – strutturato in due parti: Il cinema imperiale (1929-1959); Verso il cinema post-coloniale (1951-1972).
Sopra tutto nella prima sezione un ruolo speciale rivestono i personaggi femminili, e lo conferma lo stesso Pajalich ribadendo altresì che, se i film britannici risultano di più elevata qualità, a loro volta le produzioni d’oltreoceano si appropriano del motivo dell’Impero intascando strepitosi successi commerciali. Un esempio è The Lives of a Bengal Lancer di Henry Hathaway (titolo inglese Lancers of the Bengal, Usa 1935): «Una commedia in cui l’India fa solo da sfondo e viene mostrata con immagini da cartolina … Gli Indiani appaiono tutti cattivi (Mohammed), superstiziosi, bambineschi, o corrotti (il Principe) … Nonostante i titoli di testa (che annunciano come il film sia stato “suggerito” da un libro di Francis Yeats-Brown), in The Lives of a Bengal Lancer venivano americanizzati molti elementi narrativi kiplinghiani» (pp. 33; 35). Un’altra uscita fortunata è Gunga Din di George Stevens (Usa 1939, ridistribuito nel 1957): «Esemplare film imperialista … operava una totale soppressione del punto di vista dell’Altro, limitandosi a immaginarselo a proprio uso e consumo» (p. 50).
Sul differente versante esistono capolavori come Black Narcissus di Michael Powell e Emeric Pressburgher (GB 1947), o The River di un gigante quale Jean Renoir (Usa-Francia-India 1951) – ambedue tratti dai romanzi della scrittrice anglo-indiana Margaret Rumer Godden, vissuta lungamente a Calcutta, autrice prolifica (una sessantina di romanzi, raccolte di poesia e di racconti, pièce teatrali, autobiografie, saggi) benché non sempre adeguatamente riconosciuta.
La prima pellicola, interpretata tra gli altri da una splendida, intensa Deborah Kerr, «segnò una svolta per la storia del cinema ancor più che per quella del film imperiale. Girato interamente negli studi londinesi di Pinewood, con qualche esterno nella campagna inglese, Black Narcissus non ha alcuna ambizione di descrivere realisticamente l’India», limitandosi a parodizzare «un cliché sull’Oriente delle religiosità: anziché stimolare la spiritualità questo riporterebbe alla superficie emozioni e sessualità represse» (p. 87). Al contrario con The River – ambientato nei pressi di Calcutta lungo il Gange, poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, e girato sul posto in Technicolor con attori non professionisti – «il cinema d’arte occidentale scoprì finalmente un’India autentica» (p. 91).
Sempre nel corso dell’happening bolognese, assieme a Kerr Pajalich celebra un’altra interprete femminile, la mitica Lauren Bacall, vedova precoce dell’intramontabile Boogie, ricordando per tutti il ruolo (fondamentale) della governante Catherine Wyatt che essa recita in North West Frontier di J. Lee Thompson (GB 1959): un omaggio alla sua «intelligente bellezza newyorkese» che «non manca di infrangere notevolmente anche il messaggio imperialista-patriarcale». Poiché, «a differenza dello standard kiplinghiano – che non affidava ruolo importante alcuno alle donne – in North West Frontier spunta una grande novità: è una donna la prima a capire come la rivolta sia insolita e segno di unità fra Indiani, è lei a salvare il neonato dal massacro, è lei a insinuare come il mestiere di soldato sia poco umano, è lei a salvare l’intero manipolo di viaggiatori quando imbraccia il fucile ed elimina il giornalista. Con la sua modernità introduce nel 1905 la presenza di una donna emancipata, forse in modo astorico … ma certamente in sintonia con l’anno di realizzazione del film» (p. 61).
Un libro che merita, allora. E per l’appunto, oltre alla presentazione bolognese G. Fofi gli dedica una recensione in Lo straniero (n° 97, luglio 2008), esordendo con sorridente provocazione: «Ogni tanto anche dall’Accademia escono libri interessanti per chi dell’Accademia non fa parte, è raro ma accade. È il caso di questo saggio di Pajalich, che affronta un “genere” o sottogenere … rivelatore delle convinzioni di cineasti e di spettatori cinematografici complici o prigionieri nel loro tempo del senso comune nei centri dell’impero». Nelle parole di Fofi il lavoro dello studioso veneziano – «che ha tra l’altro il merito di un’attenta analisi del film che Zoltan Korda trasse da Piangi, terra amata del sudafricano bianco Alan Paton, migliore del romanzo, o di analizzare con acume» titoli «controversi ma significativi come l’australiano Walkabout di Roeg o il giamaicano The harder they come di Henzell – si muove agilmente tra letteratura e cinema, per scoprire la dimensione più profonda dell’immaginario collettivo e delle sue modificazioni» (p. 109).
Un libro di pregio in somma, oltre che di piacevole lettura. Un testo (al di là delle inevitabili lacune) da studiare o comunque consultare e, sicuramente, da serbare.

Letizia Lanza

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