nel romanzo di Iginio Ugo Tarchetti

di Francesca Santucci

Nella letteratura della prima metà dell’Ottocento le figure femminili nei romanzi sono convenzionali, stilizzate in stereotipi di angelicità (eccezion fatta per il diverso spessore di Lucia, nei “Promessi Sposi”), ma, nella seconda metà del secolo, si assiste ad una fioritura di eroine decisamente all’opposto, anticonvenzionali, volubili, irrazionali, incostanti, disinibite, appassionate, trascinanti, fatali, più demonio che angelo.
Ritroviamo donne bellissime, raffinate, seduttive, ammaliatrici, tragiche, donne che, non più passivamente inquadrate nel ruolo prestabilito, impongono i loro desideri, causando disgrazie agli uomini che hanno la sventura d’innamorarsene (l’amore-passione non incanalato nell’istituzione matrimoniale, non finalizzato alla procreazione lecita, che infiamma ma devasta perché isola, emargina, destabilizza dai valori convenzionali, attenta alla serenità del focolare domestico, e, perciò, è pericoloso, socialmente, ma anche per l’individuo che vive in prima persona la storia), molto rappresentate anche nell’arte, che offre innumerevoli variazioni sul tema, soprattutto attraverso le eroine bibliche, sensuali, aggressive, crudeli, forti, micidiali e temibili, che “fanno perdere la testa”, come Salomé, che fece invaghire di sé a tal punto Erode da riuscire a farlo accondiscendere al suo desiderio di possedere la testa del Battista, o come Giuditta che, infiltratasi nel campo nemico degli Assiri, affascinò il generale Oloferne, e, quando era sotto gli effetti dell’alcol, gli mozzò il capo.
Superbe restano le interpretazioni di Giuditta del pittore austriaco Gustav Klimt, soprattutto il quadro Giuditta I, in cui la donna è ritratta con un’espressione di freddo e crudele trionfo dipinta sul volto, in amalgama perfetta di estasi dei sensi e cupo fantasma di morte.
Nutrita anche la schiera delle donne-vampiro dall’oscura o orrida bellezza, irresistibili come le Gorgoni (le creature mitologiche, secondo alcuni mostri, secondo altri bellissime, ma che, comunque, causavano morte pietrificando con lo sguardo), molte, poi, ispirate proprio a Fosca; si pensi alle creature verghiane di “Una peccatrice”, “Tigre reale” e, soprattutto, alla “gnà Pina” della novella “La lupa”, rappresentata come un’allucinante immagine di incontenibile e distruttiva sensualità, femmina-fascinatrice, donna-strega che, spinta da un’avida passione, più simile ad una forza diabolica che ad un sentimento, esercita tutto il suo seduttivo potere sullo sventurato Nanni:
Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai-di nulla.
E non mancano le barbare assassine come Coletta Esposito, trovatella dell’Annunziata(1), che, tradita dal suo uomo, Cipriano Barca, arriva ad uccidere la loro figlioletta, finendo giustiziata, nel romanzo, ispirato alla Medea euripidea, “La Medea di Portamedina”, tragica storia d’amore e sangue ambientata nei bassifondi di Napoli, opera dello scrittore Francesco Mastriani, che esaltò l’aspetto più istintivo e irrazionale della donna, che si lascia guidare dal folle e cieco sentimento della gelosia.
E poi le donne psichicamente squilibrate, come “Malombra”, del Fogazzaro, dal fascino enigmatico e dal carattere patologico e distruttivo che tanto ricorda quello di Fosca, e quelle spietate e tremende, come la dirompente Elena Muti in “Il piacere”, e Ippolita Sanzio, votata solo all’esperienza erotica, nel “Trionfo della morte”, entrambe quest’ultime creature dannunziane.
Ed è proprio tra queste figure di femmes fatales, dominanti nella letteratura del secondo Ottocento europeo, che è possibile annoverare Fosca, l’eroina dell’omonimo romanzo dell’esponente più rappresentativo della scapigliatura milanese: Iginio Ugo Tarchetti.
Dalle descrizioni dei cronisti del tempo sappiamo che Tarchetti era bello e capace di provare e suscitare grandi passioni nei cuori delle donne, ma anche che poi era incapace di gestirle, quando assumevano risvolti inattesi.
Così lo descrisse l’amico fraterno Salvatore Farina:
Era alto, di complessione forte e gentile, aveva faccia di Nazareno, talvolta sdegnosa, per lo più mite; guardava superbamente gli uomini ignoti per paura che gli fossero avversari, ma con gli amici il suo sorriso buono si apriva alla confidenza, e sempre, sempre, io lo vidi ricercare il cielo mormorando versi di Heine, o di Shakespeare, o di Byron. …Le donne egli le amava soltanto; troppo le amava, e perciò non poteva trovarsi bene nella compagnia di molte insieme. Una gli bastava, e a quell’una imprestava per un’ora, per un giorno o per un anno, tutta la sua tenerezza, tutta la sua idealità d’artista.(2)
Così il cronista Raffaello Barbiera:
Un aspetto di re merovingio avea, invece, un chiomato romanziere, al quale Clara Maffei inviava, spesso, in segno di ammirazione, qual saluto mattutino, de’ fiori. Egli, al pari del Tommaseo, sorgeva a difensore della donna: qualche critico oggi lo chiamerebbe un ” féministe”. Era il romantico Iginio Ugo Tarchetti, d’Alessandria, nato nel 1841; il quale proclamava al pari d’un altro sconfidato ingegno, Carlo Bini: “La virtù del sacrificio e dell’amore non ha limiti nel cuore della donna” non pensando quante donne, specialmente le mal maritate, sono la rovina di giovani onesti e d’oneste famiglie: ma quante altre sventurate (è vero) sono spinte al male da noi!(3)
Tarchetti non aveva che ventiquattro anni e già scriveva in una lettera:
Molte donne ho amate, molte che mi hanno tutto sacrificato, avvenire, felicità, reputazione.
Nel 1863, in qualità di addetto al commissariato militare, fu trasferito a Varese; fu qui che conobbe Carlotta Ponti ed iniziò con lei una relazione sentimentale (che durò, come documentano le lettere, oltre un anno), molto tempestosa, malvista dal padre della ragazza, che arrivò ad inseguire lo scrittore sparandogli, dopo averlo sorpreso in dialogo notturno con la figlia, e che ebbe anche un episodio altamente drammatico: il tentativo di suicidio della giovane.
E’ una bella bruna [è Tarchetti che parla] che non oltrepassa i ventitré anni. La volevano, anni addietro, costringere a sposare un maggiore austriaco; ma venne il 1859, e il matrimonio andò in aria con grande soddisfazione di Carlotta, che non voleva per marito un soldato tedesco, e molto meno uno che in confronto a lei diciottenne era già vecchio… Egli fu quindi mandato a quel paese ed oggi Carlotta, malgrado i sospetti e le ire furibonde di suo padre, non vuol bene che a me, a me solo, ed io sono felice… Ti ho già detto che il padre di Carlotta non può tollerarmi… avuto sentore de’ miei affetti per sua figlia, questa perseguita con ogni maniera di vessazioni, fino a toglierle qualunque libertà, fino a sorvegliarla minuto per minuto… Eh! Ci vuol altro! Tutte le sere alle nove, io e Carlotta ci troviamo al di fuori del raggio della luna…
Di quell’amore resta traccia nel lungo epistolario, con lettere traboccanti di espressioni ultraromantiche e appassionate, da un giovane Tarchetti che amava atteggiarsi un po’ a Foscolo, del quale era fervente ammiratore (di qui il nome “Ugo”), ma che dimostrano un’ansia d’amore sincera ed autentica.
Mia carina,
Ho la mente così piena di te che a stento posso trovare parole per dirtelo. Io ti sono ancora vicino, ti sento, ti abbraccio, sono tutto assopito in questa illusione da cui non vorrei mai risvegliarmi. Ieri sera, appena addormentatomi, la mia mente e il mio cuore ritornarono a te anche nel sonno, fu una felicità continuata, e adesso pure posso a stento persuadermi di esserti lontano.
Ti amo sai, ti amo perdutamente. Oggi stesso vorrei fuggir teco da questo paese, vorrei farti mia per sempre, vorrei che nessuno ti vedesse, ti ascoltasse, ti amasse anche soltanto col pensiero. Che è mai questa egoistica sete di proprietà che gli uomini estesero anche al cuore e che chiamano gelosia? Io esperimentai tutte le passioni, ma nessuna può meglio infrangere un cuore sensibile di questa. Non ti dico di più, oggi sono pazzo, sono ridicolo, mi sento inquieto, ho qualche cosa che di tratto in tratto mi fa trasalire come la rimembranza d’una sventura e pure non rammento che uno dei più felici istanti della mia vita. Verrai meco un’altra sera, neh, verrai cara, quando non c’è luna, quando tutto è silenzio, quando non potremo essere visti da alcuno di questi rettili che male comprendono il fuoco della nostra passione. Il mondo è tutto per noi, è nelle nostre braccia. Fa che io ti possegga e sono abbastanza felice, nulla più invidio alla ricchezza, alla beltà, alla fortuna; possedendo te, possiedo tutto. E’ tempo triste, forse non uscirai, è meglio, non ti vedo io, ma nessuno ti vede, non vorrei che tu fossi malata, ma ti desidererei una causa che producesse il ritiro e le stesse conseguenze d’una malattia. Non farti amare così, è troppo, sento che mi fa male, che mi domina, che mi consuma. T’amerei già tanto anche amandoti meno, e ogni giorno aumenta la mia passione. Dove giungerà ella? Potrò arrestarla? Ciò mi sgomenta, perché io impazzirei se avessi a perderti.
Addio, ama sempre, sempre, sempre
tuo aff. Ugo
lunedì, ore 10
(Lettera V)
… Ho qui d’innanzi le tue viole che incominciano ad appassire e un enorme mazzo di altri fiori… ma sono fiori mesti, grandi margherite e vaniglie, tutti fiori di cimitero. Io incomincio a circondarmi di fiori perché so che morirò presto, e dopo morto nessuno verrà a coltivarne sulla mia tomba. Sono molto sentimentale stassera, è questo tempo che mi istupidisce e mi rende malinconico. Se tu fossi qui! Ah che dolorosa separazione! Come sarebbe bello questo medesimo tempo che ora ci sembra così triste! Io accendo qui un gran fuoco, fumo, mi sdraio sopra un miserabile sofà, scrivo, leggo, piango, canto, guardo il tuo ritratto, e quando suona la mezzanotte vado a letto, tale è la mia vita di tutte le sere dopo l’arrivo della posta… Dove saremo fra un anno? Mi amerai tu ancora? Sì, mi amerai, non è vero? Se mi stimi non cesserai mai di amarmi. Che mi dicesti stasera? Non ho potuto intendere. Dici che non vuoi più uscire né rimanere alla finestra, addio adunque, sarà un amore dei più romanzeschi, mi piace questo tuo pensiero e allora quando potremo parlarci proveremo una felicità doppiamente nuova. Ma come starai tanto tempo senza vedermi? E come potrò resistere io? E’ ciò che vedremo.
Io ti amo, io ti amo, io ti amo. Ama tu pure il tuo aff. amico.
Sabbato ore 10
Aggiungo poche righe a questa mia scrittati fino da ieri sera… Io ho bisogno di amarti, in verità, o Carlotta, sento di avere un cuore capace di amare un universo… Vieni, amami, riempi tu questo vuoto, questo gran vuoto che sento nel cuore…
Addio, mio angelo, ama e compassiona il tuo Ugo, lascialo nelle illusioni, lascialo amare, infioragli quanto puoi un’esistenza che gli è di peso…
(Lettera XXVII)
Appassionata fu anche la sua storia d’amore, che durò sette mesi, come riferisce Francesco Giarelli, con una donna sposata, casualmente conosciuta in via Fiori Chiari, a Milano, sbagliando porta, un giorno che si era recato a trovare l’amico Federico Aime:
Vedersi e sprigionarsi fra i due la estemporanea scintilla della simpatia, fu tutt’uno.{…} Tarchetti, fatto conscio dell’errore, geme una scusa. L’altra arrossisce come una pesca primaticcia, e confusa chiude rapidamente l’uscio alle spalle del visitatore. Maledizione’. Tarchetti fa per andarsene. Non può. Il lembo del suo abito rimane serrato nella fessura della porta. Suona daccapo. Ricompare la bella e Iginio è finalmente libero da quella strettoia. Il giorno dopo lavora la posta. Lui vuota il suo cuore. Essa risponde. Si amano. Se lo scrivono. Se lo ripetono a voce nei secreti e fidati colloqui. Escono insieme. Erravano nelle campagne suburbane fuori porta Magenta. Si fermavano ad un ponticello sul Seveso. Passavano ore deliziose dentro un baraccone disabitato laggiù in un’ortaglia solinga. Si immollavano – soltanto sensibili alla loro passione – nel’acqua che spesso rendeva difficile il loro passaggio attraverso i prati a marcita. Mangiavano per vezzo ed a gara gli steli dolcissimi d’una certa erba da loro scoperta e trovata una vera ambrosia. Si facevano rincorrere dai monelli del Borgo che loro gridavano dietro: I moros… La minee…! Portavano a casa delle nidiate d’uccellini. Tubavano come tortore. Eran divenuti inseparabili, come gli ocryzon dell’America meridionale. Tutta questa delizia durò sette mesi. Il 9 novembre del 1865, Iginio Ugo Tarchetti, che si godeva la sua aspettativa accarezzando Clara, e nell’assenza dì questa il candido gattino che essa gli recava nel manicotto, affinchè gli parlasse di lei quando era lontana, fu richiamato in servizio con destinazione a Parma. Lontano dagli occhi lontano dal cuore – è il vecchio proverbio che ha sempre ragione. Una lettera di le -poi riprodotta mirabilmente ed artisticissimamente in Fosca- spense la fiammella ancora vagante. Ma -vedi inconseguenze del cuore- Tarchetti restò come fulminato, come disfatto da quel brusco, incredibile abbandono. Ammalò. Subì una battaglia lunga, indescrivibile. Quando si levò non era più lui.(4)
Ma fu a Parma, nel novembre del 1865, quando ancora prestava servizio nel commissariato militare, prima di lasciarlo per vivere la sua esistenza da scapigliato, libera e dedita alla scrittura, che Tarchetti ebbe l’esperienza sentimentale probabilmente più intensa, con una certa Carolina, o Angiolina, parente d’un suo superiore.
Malata, epilettica, prossima alla morte, orribilmente brutta, le sue uniche attrattive erano gli occhi grandi e nerissimi e le trecce del colore dell’ebano; con lei lo scrittore intrattenne una relazione che causò un grande scandalo, causa non estranea alle dimissioni dall’esercito.
Dell’esistenza di questa donna abbiamo la testimonianza dello stesso Tarchetti, che scrive:
Appena giunto qui quella sera, trovai quella signora che mi attendeva al braccio del medico.
Quell’infelice mi ama perdutamente…il medico mi disse che morrà fra sei o sette mesi, ciò mi lacera l’anima, vorrei consolarla e non ho il coraggio, vorrei abbellire d’una misera e fuggevole felicità i suoi ultimi giorni e v’ha la natura che mi respinge da lei.
(5)
Per strano destino la ragazza, prossima alla fine, gli sopravvisse, ed ogni anno, agli inizi di novembre, non mancò mai di far arrivare fiori sulla tomba del poeta, prematuramente scomparso per un attacco di tisi e tifo, il 25 marzo del 1869.
La relazione idilliaca con la signora milanese e quella tormentosa con la ragazza di Parma confluirono direttamente nel capolavoro di Tarchetti, il romanzo “Fosca”, pubblicato a puntate sulla rivista “Il Pungolo” e lasciato incompiuto del capitolo XLVIII, fondamentale per l’autore, poi terminato da Salvatore Farina:
… quel capitolo era, nella mente di Ugo, il solo pretesto a scrivere la Fosca; doveva essere la scena dolorosa, selvaggia, d’una notte intera passata con la protagonista isterica e brutta, a fingere l’amore, a costringere la ripugnanza a non ribellarsi, ad accettare il delirio dei sensi e a corrispondervi, ubbriaco di pena, lui, essa solo pazza d’amore.(6)
La trama del romanzo è costituita dalla storia del folle sentimento di Fosca, una donna brutta e ammalata, per Giorgio, un giovane ufficiale che ama, riamato, un’altra donna, Clara, sposata, dalla quale è costretto a separarsi a causa del proprio trasferimento.
Giorgio, come Ugo, è un militare, Clara, come la signora milanese, è l’amante con cui l’uomo vive l’idillio, Fosca, come Carolina/Angiolina, è una donna epilettica ed isterica, simbolo non nascosto di malattia e morte, corrispettivo femminile dello scrittore (malato di tisi), come lei tormentato dal disperato bisogno d’amare e d’essere amato.
Giorgio non riesce a sottrarsi alla fascinazione ossessiva esercitata da Fosca e soccombe (Più che l’analisi d’un affetto, più che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi d’una malattia – Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito), soprattutto dopo che Clara lo ha lasciato per tornare dal marito, ma la relazione imposta al giovane viene scoperta dal cugino di lei, che lo sfida in un duello.
Infine Fosca muore e Giorgio si ammala dello stesso male oscuro della donna.
Clara e Fosca sono le due donne del romanzo, ma è la seconda a dominare la scena; creature in antitesi, com’è evidenziato già dai nomi, espressione del tema del dualismo ben presente nella letteratura scapigliata (basti pensare alla poesia di Arrigo Boito, “Dualismo”, che rappresenta appunto la scissione nell’animo umano, l’anelito all’ angelico e la spinta verso il satanico, il paradiso e l’inferno, la purezza e il torbido), hanno la stessa età, venticinque anni, ma sono del tutto diverse, sono il rosa e il nero, il sogno e la realtà, la vita e la morte.
Clara, bella e fiorente, simboleggia Eros, la luminosa stagione della primavera presaga di promesse, la rinascita dei sogni, delle illusioni, della speranza, la serenità, la salute; Fosca, brutta e malata, rappresenta Thanatos, il tempo cupo della malattia, la fine degli incanti, il tormento.
Clara è: una donna giovane e bella… sì serena, sì giovane, sì fiorita… Quando non agucchiava presso una piccola finestra che guardava sul cortile, leggeva romanzi sul suo balcone, seduta in mezzo ai suoi vasi di fuxie e di gerani; suonava anche un pianoforte e cantava (… aveva indole forte, giusta e severa; vi era nulla di fatuo, nulla di fiacco, nulla di puerile nel suo carattere; e pure nessuna donna fu mai più affettuosa, più dolce, più arrendevole, più accarezzevole, più eminentemente donna. Aveva venticinque anni; era alta, pura, robusta, serena. Scopersi più tardi il segreto di quel fascino… essa rassomigliava a mia madre.
Ben diversa è Fosca, che Giorgio comincia a conoscere dall’assenza (il suo posto a tavola è lasciato vuoto perché la donna patisce di convulsioni nervose), da segnali inquietanti (le grida… orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate), dalla descrizione della patologia di cui è affetta (è una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali possibili…).
Ma da quale patologia sia affetta la donna è lo stesso medico a rivelarlo a Giorgio: il fondamento dei suoi mali è l’isterismo, un male di moda nella donna, un’infermità viziosa… ha i nervi scoperti.
Sì, Fosca è isterica. L’isteria era il sintomo specifico della sofferenza femminile nell’Ottocento (bisognerà attendere la fine del secolo perché si cominci a parlare anche d’isteria maschile), era un male che disorientava i medici fin dai tempi d’Ippocrate, perché la sua manifestazione non lasciava tracce organiche. Le cause, secondo i medici dell’antichità, erano da ricercare in un utero che agiva in maniera autonoma all’interno dell’organismo femminile, nelle forze oscure del desiderio che travolgevano e annientavano la volontà della donna, e, fino al XIX secolo, nonostante i nuovi interrogativi emersi, i medici restarono della convinzione che la manifestazione di questo male fosse legato all’utero e al desiderio sessuale.
Oggi ne conosciamo la valenza sociologica, sappiamo che l’isterismo è mezzo di comunicazione e primitiva protesta del singolo isolato e represso che non riesce a ribellarsi attraverso canali socialmente accettati. E sappiamo anche che l’isterica non è un’insoddisfatta sessuale, ma una persona carente di gratificazioni erotiche, come l’ ammirazione ed il corteggiamento.
Fosca è pure anoressica:… è della voracità di una mosca.
Fosca è anche avida lettrice, ed è intelligente: divora i libri, è un tarlo da libri, legge come noi fumiamo, … un’intelligenza robusta, fina, perspicace.
Ma, soprattutto, Fosca è brutta. Così si esprime Giorgio quando, finalmente, la conosce:
Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna!… Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonie di fattezze… quanto per una magrezza eccessiva… per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione… La sua persona era alta e giusta… i suoi modi erano naturalmente dolci… Tutta la sua orribilità era nel suo viso.
Con quel volto orrendamente brutto che ricorda il teschio, Fosca è la rappresentazione della morte (ossessione dello scrittore, che la sentiva aleggiargli incontro, che apre e chiude il capitolo XVII con la visione dei teschi in cui Giorgio sembra rivedere riprodotta e moltiplicata l’immagine spaventosa di Fosca); non si può non pensare alla poesia di Tarchetti, Memento:

Quando bacio il tuo labbro profumato,
cara fanciulla, non posso obliare
che un bianco teschio v’è sotto celato.
Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
obliar non poss’io, cara fanciulla,
che vi è sotto uno scheletro nascosto.
E nell’orrenda visione assorto,
dovunque o tocchi, o baci, o la man posi…
sento sporger le fredde ossa di morto.

Fosca è orribile nel volto, perché imago animi vultus, il volto è l’immagine, lo specchio, la porta dell’anima, e se l’anima è travagliata e oppressa (un matrimonio sbagliato con un cacciatore di dote, giocatore e ricattatore, poi un aborto, infine la perdita dell’agiatezza: sono queste le cause che hanno determinato il suo male) le afflizioni non possono non riverberare sul volto, è per questo che tutta la bruttezza è nel viso, però è colta, intelligente, estremamente sensibile, ha grazia ed eleganza, è commovente nella sua fragilità, e quando s’innamora di Giorgio di queste qualità si serve per, vampirescamente, affascinarlo e attrarlo a sé in una spirale per entrambi distruttiva.
Nucleo centrale del romanzo è proprio il folle desiderio di Fosca (che non si rassegna all’orrida bruttezza che le nega l’amore, che si ribella all’idea che la donna possa essere amata solo a condizione di essere bella) e il giogo entro cui l’uomo è costretto, ed è di questa passione, morbosa, che Giorgio scrive, parlando, brevemente, anche di quella, idilliaca, vissuta con Clara solo pel contrasto spaventoso che ha formato col primo, di questa voluttà crudele, causa di sofferenza fisica e dolore morale, che condurrà entrambi alla distruzione: lei alla tomba, lui al collasso nervoso.
Così Fosca:
Voglio costringervi a ricordarvi di me, quando vi avrò oppresso con tutto il peso della mia tenerezza, quando vi avrò seguito sempre e dappertutto come la vostra ombra, quando sarò morta per voi, allora non potrete più dimenticarmi.
Fosca non è, dunque, solo un’eroina letteraria della seconda metà dell’Ottocento simbolo di malattia e morte (fantasmi sempre ben presenti nell’opera e nella vita dell’autore), ma anche una figura femminile moderna, volitiva, tenace, decisa ad affermare con ostinazione il diritto all’amore, vietatole dalla condizione d’inferiorità in cui è relegata dall’orrida bruttezza e dalle disastrose condizioni della sua salute, decisa ad affermare l’anima affascinante chiusa nell’involucro ripugnante, contro il mondo degli uomini che apprezza soltanto la lusinga della bellezza del corpo.
Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, l’esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture.
Non avendo, dunque, l’arma della bellezza, per realizzare compiutamente il folle desiderio si servirà di un altro elemento: l’ossessiva violenza persecutoria del sentimento amoroso.
Fosca sarà sempre ben lucida sui reali sentimenti di Giorgio, conscia che l’uomo, incalzato dai suoi suggerimenti, recita l’amore, ma, pur con la consapevolezza che l’inganno è tutto ciò che potrà
ottenere, e nient’altro, porterà avanti il gioco delle illusioni, esulando anche dai limiti imposti dalle convenzioni del tempo (si pensi agli incontri notturni), riuscendo infine a soddisfare l’irrefrenabile desiderio, e sarà la notte d’amore tra i due l’esasperazione dell’illusione.
Fosca gli ordinerà:
-Sii mio!-
Giorgio soccomberà e ammetterà:
-Non ebbi la forza di resistere-
Giorgio dapprima cercherà di resistere alla passione di Fosca, ma poi si troverà incatenato in un folle legame che lo farà soccombere, coinvolgendolo fino al tragico finale: il duello, dal quale uscirà miracolosamente incolume, e, come contagiato dalla “anormalità” di Fosca, il delirio, che lo farà precipiterà nella disperazione; Fosca si spegnerà, tre giorni dopo la notte d’amore, tuttavia “felice, illusa, soddisfatta” per aver appagato la sua ossessione amorosa.
Questo il finale nella finzione letteraria, nella realtà Tarchetti fu trasferito da Parma a Milano, dove consumò gli ultimi tre anni della sua vita, tra la frenetica attività letteraria, le precarie condizioni di salute e le difficoltà economiche, morendo, già ammalato di tisi, per un attacco di tifo, in casa dell’amico Salvatore Farina che lo aveva ospitato, senza aver scritto il capitolo finale del romanzo al quale tanto teneva.
Il 26 marzo del 1869, il giorno successivo alla sua morte, sulla rivista letteraria “Il Pungolo” cosi si leggeva:
… E’ morto dopo aver lungamente, coraggiosamente e dignitosamente lottato contro le brutali realtà della vita, nemiche accanite all’arte e alle sue manifestazioni; è morto quando la speranza di miglior avvenire, frutto di lavoro assiduo e di costanza indomabile, più caramente gli sorrideva; è morto quando gli sorridevano intorno attestati non dubbi della commozione profonda destata dai casi di questa povera Fosca, nella quale egli quasi morente versò tanta parte della vita che gli fuggiva -gioie, dolori, aspirazioni indefinite, proteste sdegnose, indignazioni sante- e quasi ad ogni linea, il presentimento della morte vicina.
Carolina/Angiolina ritornò nella nativa Sardegna, non lo rivide mai più, ma non lo dimenticò fino alla fine dei suoi giorni.
Ancora oggi suscita consensi il romanzo “Fosca” perché ciò che maggiormente colpisce, oltre alla forte componente autobiografica (le storie vissute con la signora di Milano e la donna di Parma, la malattia di quest’ultima, la sua reale malattia, la tisi), all’indagine sugli effetti della passione estrema sui due protagonisti, al tema degli opposti , bello/brutto, bene/male, nel confronto tra le due donne Clara/Fosca, sono gli elementi di sorprendente modernità, come la normalità/anormalità (Giorgio, inizialmente “normale”, nel finale della vicenda è irrimediabilmente contagiato dalla “anormalità” di Fosca) e, soprattutto, il diritto all’amore rivendicato dalla protagonista e la sua ardente volontà di affermarlo.

Francesca Santucci

Note
1) Antichissimo brefotrofio napoletano fondato per volere della regina Sancia d’Aragona nel 1318 e affidato alla cura delle monache. Accanto all’ingresso del monastero c’era una ruota girevole ove, col favore delle tenebre, venivano abbandonati i neonati.
2) Salvatore Farina, Care ombre, La mia giornata, S.T.E.N. Torino, 1913.
3) Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Milano, Treves, 1925, cap. XX,
4) F. Giarelli, Vent’anni di giornalismo, Cotogno, Tip. Cairo, 1896, pp. 210 sg; qui citato da una nota di E. Ghidetti a Fosca, in Tutte le opere, vol. II, Bologna, Cappelli, 1967, pp. 237 sg.
5) da una nota di E. Ghidetti a Fosca, in Tutte le opere, vol. II, cit., p. 239.
6) Salvatore Farina, Care ombre, La mia giornata, cit.

Bibliografia
E. Ghidetti, Tutte le opere di Igino Ugo Tarchetti, Bologna, Cappelli, 1967.
Salvatore Farina, Care ombre, La mia giornata, S.T.E.N. Torino, 1913.
Antonio Balestrieri, Manuale didattico della psichiatria, Il Pensiero Scientifico, Editore, 1980.
Iginio Ugo Tarchetti e la Scapigliatura, atti del convegno, S. Salvatore Monferrato 1/3 ottobre 1976
Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Milano, Treves, 1925, cap. XX.
p. Ariès- G- Duby, La vita privata, l’Ottocento, Edizione CDE spa- Milano, su licenza della Gius. Laterza e Figli Spa, 1988.

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