Recensione
In tempi di viaggi e vacanze propongo una riflessione su “Bieguni”, romanzo di Olga Tokarczuk, la più nota scrittrice polacca contemporanea, uscito in Polonia nel 2007 e pubblicato in Italia da Bompiani nel 2019 col titolo “I vagabondi”. La motivazione con cui nel 2018 l’autrice ottenne il Premio Nobel per la Letteratura esprime efficacemente la fisionomia e il significato di questo libro in particolare: in esso infatti l’«immaginazione narrativa […] rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita». Se «la cosa peggiore è l’immobilità» e se ciò che è in movimento è sempre meglio di ciò che sta fermo, si comprende subito che per il vero viaggiatore i confini politici sono solo convenzioni stucchevoli, come la trama e l’ordito dei paralleli e dei meridiani terrestri sorvolati con felice compulsione dalla scrittrice e dai suoi molti personaggi. Il libro è scritto in prima e in terza persona, comprende 116 storie, alcune di un certo respiro – venti o trenta pagine –, interpuntate da racconti e considerazioni più brevi, addirittura di qualche rigo, e da veri e propri flash visivi, anche ridotti a schizzi impressionistici di poche parole. Il tema portante è sempre il viaggio, il movimento, la fluidità della pedalata ininterrotta della bicicletta della vita; perché chi non si muove, cade. Si danno spesso, in questo insolito romanzo, e quasi sempre in quei nonluoghi che sono gli aeroporti e le stazioni, scambi casuali di battute, teorie o credenze, rimbalzi di sguardi e possibilità embrionali. Perché «la meta dei miei pellegrinaggi è un altro pellegrino». In effetti nessun viaggiatore raggiungerà mai davvero la sua meta, se questa s’identifica con un luogo. Quello che conta è “andare verso”, lo sforzo, la tensione di quell’anelito; quello che conta somiglia allo Streben dei romantici tedeschi: non possedere la verità ma raggiungerla, non essere liberi ma diventarlo. Possibilmente attraverso l’incontro con un Altro. Tuttavia questo libro non può essere ridotto a un trattato creativo sulla psicologia di viaggio – o psicoanalisi topografica –, di cui pure vengono illustrati e indagati alcuni capisaldi, anche grazie alle competenze psicologiche dell’autrice. C’è un altro filone scabro e originale che percorre la narrazione da cima a fondo, quasi costituendone una seconda spina dorsale: l’interesse per i corpi. Morti, però, e lo studio della loro conservazione, interi o in parti, spesso anomale e deformi. Il pellegrino che l’autrice cerca e incontra, dunque, è talvolta fatto a pezzi, scomposto. Tokarczuk si riferisce, in modo implicito ed esplicito, a una mostra itinerante che ha raggiunto Roma nel 2014 e che anch’io ho avuto modo di vedere: Body Worlds, i cadaveri plastinati di Gunther von Hagens. Chi ha donato il proprio corpo a una scienza che ha pretese artistiche – discutibili, però – è stato esposto scuoiato in pose estetiche o in gesti sportivi, con i muscoli contratti e lucenti, nell’atto di tirare a canestro, andare in bicicletta o giocare a carte. Altri corpi – senza pelle, ossa e muscoli –mostrano tutto il reticolo rubicondo di vene, venule, arterie, arteriole, capillari dalla sezione di un capello; altri ancora l’intrico spento dei nervi periferici, che una volta conducevano l’impulso elettrico alle estremità e da lì, per le vie afferenti, informavano il cervello di sensazioni e posture.
Tra i racconti più lunghi, tutti bellissimi, spicca quello il cui protagonista, Kunicki, in vacanza sull’isola di Lissa con la moglie e il figlioletto di tre anni, viene sconvolto dalla loro improvvisa e misteriosa scomparsa. La storia si articola in tre parti inframmezzate ad altri racconti, ed è bello tornare a quella dopo aver seguito vicende diverse: si gusta di più. La pregevole narrazione gonfia e stende le pieghe psicologiche dei personaggi, come fa il vento con le vele delle barche sull’Adriatico.
La storia del marinaio Eryk ci pervade di una suggestione esotica e salvifica: durante un periodo di detenzione in un Paese lontano, ha avuto la ventura d’imbattersi nel più famoso romanzo di Melville, senza il quale «non sarebbe sopravvissuto alla prigione». La letteratura ci tiene in vita tra le sbarre della nostra condizione esistenziale, e per l’autrice la sincronicità di certi incontri – un libro e un lettore – sta a provare che il mondo ha un senso.
Tesori inattesi si scovano sotto i titoli meno promettenti. In Assorbenti igienici scopriamo che «se ti trovi sul fondo di un pozzo riuscirai a vedere le stelle anche di giorno».
Molte e impossibili a richiamarsi tutte qui, le suggestioni degli altri racconti. I viaggi del dottor Blau e il suo interesse per i corpi morti – plastinati – e vivi – di giovani studentesse di medicina. Le tre Lettere di Josephine Soliman a Francesco I, imperatore d’Austria, allo scopo di avere indietro il corpo del padre Angelo, impagliato ed esposto alla morbosa curiosità dei visitatori di una mostra esotica. Il tendine di Achille e la prima dissezione operata da Philip Verheyen sulla sua stessa gamba – amputata – , e la sconcertante scoperta della sindrome dell’arto fantasma. Lo zar Pietro I e il suo vivo interesse per la morte – che paradosso! –, tanto da acquistare nei Paesi Bassi una preziosa collezione di preparati anatomici conservati nell’acqua stigia – in realtà un forte brandy, bevuto fino all’ultima goccia dai marinai che avrebbero dovuto garantire l’arrivo del carico integro a San Pietroburgo. La breve fuga di Annuška da una quotidianità ingiusta e deprimente e la caduta nel ventre caldo della terra, tra i disperati senza nome della metropolitana moscovita. La donna che lascia un’isola felice dell’emisfero australe per onorare una vecchia promessa con un estremo atto di coraggio e di altruismo. Il cuore di Chopin, che la sorella Ludwika trasporta segretamente e fortunosamente da Parigi a Varsavia. Le lezioni di cultura ellenica tenute su un traghetto nel Mar Egeo da un vecchio professore amorevolmente accudito dalla moglie molto più giovane. Egli, tra l’altro, esprime un pensiero abbagliante e del tutto condivisibile: «Penso che l’uomo per vivere abbia bisogno più o meno delle stesse condizioni climatiche degli agrumi».
Attraversa i racconti un refolo di raggelante disillusione, il desiderio frustrato e mortificato di donne che hanno perso o non hanno mai avuto appetibilità sessuale. Anna resta ammaliata da un marinaio, «un grande uomo tarchiato e dalle braccia nude». Lui la guarda di sfuggita e vede solo «una domestica anziana vestita di nero». Taina, vedova di un famoso scienziato esperto nella conservazione dei corpi, «era di media altezza, sulla sessantina, e le rughe crudeli le segnavano il viso abbronzato»; per di più «aveva i piedi deturpati dagli alluci valghi»: capiamo subito che l’audace approccio al più giovane collega del defunto marito è destinato a un penoso fallimento. Karen, la moglie dell’anziano professore che illustra i paradossi di Zenone su un traghetto in primavera, è attratta da un uomo con «la barba bionda di qualche giorno […] Un bel tedesco». Arrivano a scambiarsi «involontariamente uno sguardo». Ma anche a questa sessantenne qualunque occasione erotica è preclusa, si farà bastare «un orgasmo, da sola, nel sonno». Anch’esso involontario, come quell’inutile sguardo.
Nel testo ricorrono alcune parole come simboli o strumenti privilegiati di riflessione. Una di queste è “panottico”, impiegata solo nel suo significato architettonico elevato a metafora e curiosamente non anche, dati gli interessi dell’autrice, in quello ematologico di colorazione del sangue. Altro termine è il greco “kairos”, attimo propizio, intersezione tra tempo e luogo su cui si colloca «quell’unica vera e irripetibile possibilità»; che è anche la chiave di certi enigmi in questo romanzo e nella vita.
Le pagine del libro sono punteggiate di mappe e disegni antichi di luoghi disposti dall’autrice in modo apparentemente casuale. Forse sotto quella finta accidentalità esiste una trama razionale che ci sfugge, oppure non si tratta né di caso né di ragione, ma di una via intermedia. Così è per la nostra vita, che non somiglia a un’ordinata concatenazione di cause ed effetti ma neppure a un caos inintelligibile; sembra invece una costellazione, o un frattale naturale; è come il tipo di conoscenza dell’anziano professore del traghetto: «aveva piuttosto la forma di una spugna, di un corallo marino che cresceva con gli anni, fino a quando cominciava a creare le forme più fantasiose». Le direttrici e le sagome rintracciabili nella nostra vita sono la forma nascosta del caos oppure una forma nascosta nel caos? Le sollecitazioni speculative che ammiccano dalle belle pagine di questo libro sono come more tra i rovi ai margini del sentiero che stiamo percorrendo: possiamo coglierle e gustarle o lasciarle lì. La passeggiata sarà ugualmente piacevole.
Cristiana Bullita
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