di Giada Melia Spinella

Adolescenti si può rimanere per tutta la vita. Adulti si diventa. Peccato che non si sappia quando. Creazione artificiosa della borghese società industriale di fine ottocento nella quale i giovani cominciarono a studiare in maniera sempre più regolare, rimanendo pertanto improduttivi per il mondo del lavoro, l’etichetta di adolescente è rimasta attaccata ai giovani per indicare un momento della vita in cui si è in ricerca: di identità, in primo luogo, di socialità, di ideali. Va da sé che allungandosi il periodo di intervallo tra lo studio e la responsabilità lavorativa, tale appellativo viene dato sempre più frequentemente, sia al quattordicenne che al trentenne. Oggi parlare di adolescenza vuol dire quasi abusare di un termine per così dire inflazionato ma negli anni cinquanta ci si stupirà sapere che esso era quasi sconosciuto. Occhieggiava dai libri di psicologia che pochi leggevano. Al più al pronunciare quel vocabolo potevano venire in mente ragazzini acneici e timidi o ragazzine melanconiche e sognanti il principe azzurro. In genere però non ci si pensava quasi per niente. La vita era scandita da tappe. Il primo grande crinale di demarcazione fra la fanciullezza e un’epoca misteriosa della quale nulla si sapeva ma si immaginava tanto, erano le calze velate per le ragazze e i pantaloni lunghi per i ragazzi. Di solito questo avveniva fra i quattordici e i sedici anni e poteva coincidere con le prime feste da ballo e i primi filarini. In casi più seri, per una ragazza poteva avvenire un fidanzamento a casa. La fine degli studi era il secondo crinale da superare. Dopo, si sapeva che sarebbe finita la spensieratezza del non avere altro cui pensare di serio tranne Tacito. Si sarebbe entrati nel mondo del lavoro, se ci si fermava al diploma o si sarebbe affrontata l’Università, parola rispettosamente pronunziata, che stava ad indicare un luogo in cui saperi superiori si sarebbero impadroniti del nostro cervello, consentendo il raggiungimento della Laurea. Anche questo termine oscuro, il cui conseguimento ci avrebbe aperto lavori di qualità Una volta giunti al Diploma o alla Laurea, si aveva diritto a prendere la patente ed avere la macchina. Punto. Dopo si faceva parte a pieno titolo della società e del suo tessuto. Finiva l’epoca dell’egocentrismo irresponsabile e della tendenza a veleggiare in mondi fantastici nei quali ci si rifugiava o per reazione agli adulti o per tendenza naturale. Si entrava a far parte di schemi sociali dei quali si era parte attiva e consapevole. In genere ci si sposava e si pensava a fare carriera nel lavoro. Questo in sintesi. Per quanto oggi i costumi della gente sono cambiati, sembra che siano passati millenni. Le tappe sono finite. Ci si veste nella stessa maniera da quando si è nati; la macchina si può guidarla a diciotto anni e anche prima; non è poi detto che si lavori una volta conseguito il titolo di studio o addirittura che il lavoro dia indipendenza. Acculturati da una lingua di massa che mamma tivù ci insegna, si guarda per lo più alla scuola come a un luogo di incontri sociali che un giorno farà avere non più il Diploma o la Laurea ma il Pezzo di Carta. Accompagnati giornalmente da messaggi di insicurezza sul presente ed il futuro, sedotti da modelli di bellezza patinata di muscoli in evidenza , dopobarba, Rambi e Veline,gli adulti poco alla volta hanno cominciato ad avere paura della vita e i giovani timore di crescere e si sono aggrappati alle note del Piffero Magico dell’Eterna giovinezza. Quasi a dire che le responsabilità che fanno paura si possono evitare solo se si è belli e giovani. Se si riesce ad evitare la vecchiaia con il bisturi, le creme e la ginnastica, i problemi saranno sempre degli altri. In una demente omologazione dell’apparire a tutti i costi, uomini cinquantenni e oltre si fanno il piercing, si riempiono di tatuaggi nei posti più improbabili, occhieggiano alle ragazzine. Si lamentano in segreto di avere una compagna e dei figli che impongono loro degli orari ed impediscono la loro vera realizzazione. Se poi chiedi cosa farebbero se al posto di questa realtà si potessero esplicare tutti i loro desideri, non sanno cosa rispondere. Suonare, viaggiare, ballare, divertirsi. Come i loro figli. Meglio ancora di loro. Alcuni si prendono cura del loro fisico con cura maniacale, si tolgono le borse sotto i loro occhi che hanno superato gli anta e come Mandarini cinesi si mettono a corteggiare ragazze che hanno un quarto della loro età, a volte scambiandosele con il figlio. “Mio padre indossa il mio stesso tipo di pantaloni e si pettina come me. Mi fa l’amico. E dimentica di essere mio padre.” Così mi si confidava un quindicenne che si trovava ad essere un orfano senza esserlo veramente. I vecchi adolescenti non hanno autoironia e si prendono maledettamente sul serio. Si comportano da immortali e hanno una continua paura della morte. Non si accorgono di essere definitivamente vecchi e andati perché hanno perso la memoria di come loro erano da ragazzi, quali erano i loro sogni, le loro speranze, le loro delusioni. I vecchi adolescenti anzi, non sopportano vedere i loro figli timidi, insicuri e un po’ imbranati, cosa che farebbe loro ricordare di essere padri e stagionatelli. Li respingono, quei ragazzi a volte nevrotici, esitanti, disordinati e spesso ripetenti a scuola, a volte pieni di paura che sono il loro specchio. Ricordano i loro fallimenti, il tempo che è passato, le occasioni perdute. Per questo li fuggono e si nascondono nel lavoro. La scusa più alla portata per giustificare la loro assenza fisica e morale. Qualcuno è talmente abbagliato dalla sua immagine di uomo vincente e che è riuscito a raggiungere uno status agli occhi altrui invidiabile, da non sopportare letteralmente il quotidiano che rifiuta per il nulla. Frequentare locali notturni a sessant’anni e godere dell’invidia dei coetanei quando li vedono passeggiare per il corso della città in compagnia di donne alte il doppio di loro e che valgono assai meno di quanto il buon gusto permetta di immaginare. I vecchi adolescenti non hanno più la fantasia. L’hanno persa dietro al gusto di vivere. Detestano poi farsi vedere con le loro coetanee delle quali annotano tutti i difetti fisici, le rughe, la voce nervosa. Le vecchie adolescenti. Quelle che sono sempre le prime della classe, le più belle, le più intelligenti, le più, insomma. Che nascondono accuratamente i loro anni e guardano con ostilità le rivali potenziali: Anche loro a ricercare conferme dai giovani belloni, lasciano i figli al doposcuola, rimpiangono le occasioni perse, e dicono di voler trovare il tempo per se stesse, di volersi realizzare. Ricercano l’amore descritto nelle fiction e sono ossessionate dal confronto con tutto e con tutte. Alter ego al femminile della fiera delle vanità . Permettono tutto alle loro figlie perché nulla venga loro rinfacciato e sono tormentate da complessi di colpa e di rivalità quando qualcuna ai loro occhi sta meglio di loro: più serena, più ricca, più bella. Le vecchie adolescenti, come i loro colleghi uomini, masticano gomma americana, adorano andare da Mc Donald almeno una volta al mese, fanno pettegolezzi sulle loro colleghe al bar, sbavano se qualcuna porta lo stesso modello di vestito e riceve complimenti dallo stesso uomo. Vanno nei villaggi vacanza e cercano lì le gratificazioni che loro mancano con ragazzi addestrati a regalare loro risate fatte a voce troppo alta, ad offrire bibite troppo colorate. Come i loro vestitini estivi e le loro lenti a contatto usa e getta e che sono tanto pratiche. Ogni giorno puoi cambiare aspetto quando vuoi tu. Ogni giorno diversi e sempre uguali a se stessi, con le stesse manie irrisolte, le stesse paure, le stesse vacuità, questi adolescenti da copertina degli anni sessanta giustificano tutto sperando che nessuno si accorga della loro trasparenza e rimangono annichiliti di fronte alle tragedie della vita che li lascia inetti come marionette senza il loro Mangiafuoco. Inerti vedono passare la vita temendo in continuazione che la loro maschera di botulino e anabolizzanti possa loro essere strappata. Facendo vedere il vuoto. Ma, senza saperlo, proprio dalla loro mancanza di azione, stanno facendo in modo che da quel vuoto si possano plasmare nuove forme, possano emergere nuovi modi di essere e di pensare, di vivere senza che in loro ci possa essere la minima capacità di impedirlo. Loro che si credono immortali grazie al bisturi del chirurgo estetico stanno facendo riscoprire la voglia di essere diversi da quel modello, di essere veri. Di mangiare pesche maturate sotto il sole, di bere acqua limpida, di scoprire che si può essere belli a sorpresa senza modelli imposti. Di essere in un modo o nell’altro perché a quello ci porta la nostra energia vitale con le mille sorprese di ogni momento. Il loro eterno mostrarsi patinato e nevrotico sta facendo sorgere la voglia di essere dannatamente semplici. I loro eccessi di non essere se non per a se stessi stanno facendo nascere la nausea della plastica e del finto. Proprio dai loro limiti di comportamento emerge una grande voglia di nuovo e di vero che non riguarda più il gap generazionale. E’ trasversale. Essa raggiunge persone di qualunque età, stato sociale, religione, razza. Un esercito silenzioso che si riconosce per la volontà di costruzione al di là di ogni schema, per il gusto di fare. E chissà che questi vecchi adolescenti che sembrano riecheggiare la favola della Bella Addormentata non si riscuotano dalla loro recita senza spettatori e senza applausi e, come fanno i vecchi attori alla fine della rappresentazione, non tornino nei loro camerini, si strucchino lentamente, con il gusto di rivedere il loro viso che bene o male è l’unico che loro appartiene. Tolgano il cerone come un lungo gioco. E dopo si sorridano, come farebbero con un amico ritrovato.

Giada Melia Spinella
giada-melia@tiscali.it

Pubblicato su: “è Tempo di Cultura” mensile a carattere culturale edito da Terre Sommerse

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