di Rosanna Sciacca

Secondo una dinamica mai risolta nella storia della nostra Penisola, gli scontri politici e i momenti di crisi non si ricompongono, come spesso accade nelle moderne democrazie, facendo appello a valori condivisi e ispiratori di una civile convivenza, ma propugnano ulteriori divisioni e alternative radicali ai sistemi vigenti.
I presupposti e i tratti determinanti di questa propensione italiana alla divisività si possono individuare in quel periodo del Novecento, gli anni ‘19/’20, definito in sede storiografica “biennio rosso”. Mentre in molti Stati europei il primo dopoguerra –pur caratterizzato da una lotta politica violenta, frutto anche dell’esperienza bellica- segna il passaggio tra liberalismo e democrazia, in Italia faciliterà di lì a breve la svolta fascista. Come ebbe a dire Luigi Einaudi, cinquant’anni non potevano bastare, dopo secoli di dominazioni straniere e di particolarismi comunali e regionali, a creare un vero Stato. L’Italia “aveva potuto vincere la guerra, ma non aveva la forza di superare il dopoguerra” (1)
Dopo i lunghi e dolorosi anni, in cui tutti, particolarmente le masse proletarie e piccolo-borghesi, avevano fatto nelle trincee “il loro duro tirocinio di sangue e di morte” (2), si respirava un clima di attesa per radicali cambiamenti sociali e politici. Dal punto di vista economico, l’Italia era ancora un paese povero che produceva soprattutto i beni che consumava, alle prese con un dopoguerra carico di incertezze, con una grave disoccupazione e con poche speranze di crescita; il vertiginoso crollo della lira in breve tempo aumentava di quattro volte il costo della vita rispetto al 1913, mentre il deficit di bilancio raggiungeva livelli senza precedenti. La gran parte della popolazione attiva era occupata nella lavorazione agricola con un uso limitato di macchinari. Durante la guerra il governo aveva invitato i giovani italiani ad andare a combattere proprio con la promessa della divisione della terra e di uno speranzoso futuro. Tutto ciò aveva creato delle aspettative di riscatto sociale che predisponevano le masse ad atti insurrezionali che ben si inserivano nel più ampio quadro europeo.
Per tutto l’anno 1919 si registravano 1.663 scioperi e, di questi, 610 si concludevano con esiti positivi (3). Ciò dimostrava che il proletariato riusciva a difendere i propri interessi meglio dei ceti medi che non avevano ancora una organizzazione sindacale e politica di riferimento che li proteggesse. Alcuni moti in Romagna, pur essendo nati come reazione spontanea, erano stati gestiti e coordinati dagli anarchici (4) in un primo tempo, poi dai socialisti e dalle Camere del lavoro. Intanto si formavano gruppi di Arditi e di nazionalisti organizzati in squadre di combattimento con le quali, proprio in occasione di questi scioperi e, in particolare, dello sciopero generale del giugno 1919, le forze di polizia e le autorità governative intensificavano i rapporti per arginare la carica eversiva degli insorti.
I tumulti presto si diffondevano anche nelle campagne dove masse di braccianti occupavano le terre non coltivate dei grandi proprietari e, in certi casi, anche quelle coltivate. Il moto agrario che nel 1919-20 scuote l’Italia era organizzato anche dalla Confederazione generale del Lavoro; molti contadini appartenevano alle “leghe rosse”, altri alle “leghe bianche”, di ispirazione cattolica. Nel clima infuocato delle campagne si assisteva a gravi episodi di violenza “rossa” contrapposta alla violenza “nera”. A tal proposito Giorgio Amendola, per definire questi anni cruciali della storia italiana, userà l’espressione biennio “rosso-nero”, in quanto contrassegnato da violenze socialiste e fasciste (5). La borghesia tutta, infatti, sentendosi abbandonata dalla Stato e dai partiti, si era chiusa in se stessa, preparandosi a sfruttare le possibili occasioni di rivincita offerte ben presto dal Movimento dei fasci, fondato proprio nel 1919 da Mussolini.
L’occupazione delle fabbriche nell’agosto-settembre 1920 rappresenta l’apice del “biennio rosso”. Essa, se non era il preludio di un’organizzazione armata contro lo Stato borghese, come taluni credevano, riguardava, comunque, la mobilitazione di migliaia di centri di lavoro e coinvolgeva larghe masse di operai, parte delle quali erano organizzate nei Consigli di fabbrica, sul modello dei Soviet. Ad agosto, nel 1920, solamente a Milano erano occupate ben 160 fabbriche sui cui tetti sventolavano, minacciose, le bandiere rosse della rivoluzione. Nel giro di due giorni, fra il 31 agosto e l’1 settembre questo fenomeno coinvolgeva 400.000 operai mentre altre occupazioni si estendevano a macchia d’olio in Italia: industrie siderurgiche, soprattutto, ma anche metallurgiche, come la FIAT a Torino. In quest’occasione il Partito socialista, legato alle istanze massimaliste, non era né disponibile ad alleanze con le forze democratiche o di governo, né incideva con determinazione sul movimento operaio che, pertanto, rimaneva isolato nelle varie parti del Paese. Gli industriali, da un altro punto di vista, non nascondevano la loro irritazione nei confronti della politica attendista del governo, vista come rinunciataria della difesa della legalità.
Sebbene le lotte finivano pacificamente nel settembre del ‘20 per l’opera di mediazione compiuta dal governo Giolitti e dal sindacato, favoriti anche dal lento esaurirsi delle forze in campo, alla fine del biennio i sentimenti risultavano mutati: la stanchezza e la delusione fra i ceti popolati e la “grande paura” di una rivoluzione socialista tra la borghesia, dall’altra, favoriranno l’ascesa del fascismo e, al contempo, nel 1921, la nascita del Partito comunista, fenomeni che radicalizzeranno ancora una volta la società e la politica italiana negli anni successivi, dal Fascismo alla Resistenza e, per molti aspetti, persino nell’età repubblicana.

(1) Cfr. il seguente sito internet: www.luigieinaudi.it
(2) TASCA A., Nascita e avvento del fascismo, , vol.1, L’Italia dal 1918 al 1922, Laterza, Bari, 1965, p.35.
(3) Cfr. VIVARELLI R., “Storia delle Origini del Fascismo, L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Società Editrice il Mulino, Bologna, 1991 vol.1, nota 61, p. 446.
(4) VIVARELLI R., ibidem, nota n°67.
(5) Cfr.: AMENDOLA G., Intervista sull’antifascismo, a cura di P.Melograni, Laterza, Bari, 1976

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