di Chiara Saraceno
da SOCIALPRESS
Negli Anni 70 il movimento delle donne lanciò l’iniziativa “riprendiamoci la notte”. Contro l’idea che qualsiasi donna si trovasse fuori casa di notte, specie se non accompagnata da un uomo, era potenzialmente una puttana o comunque una preda disponibile, si rivendicava orgogliosamente la legittimità della presenza delle donne nello spazio pubblico, anche di notte.
Era un’affermazione del diritto alla libertà di movimento e di azione, il rifiuto della necessità di dover sempre ricorrere alla protezione, quindi alla dipendenza, di un uomo.
Era accompagnata da un altro slogan ironico – “tremate, tremate, le streghe son tornate” – che giocava sull’ambivalenze con cui venivano, e vengono, guardate le donne libere e padrone di sé.
Non è infatti un caso che l’espressione “donna libera” evochi immagini di trasgressioni e bassa moralità, non di autonomia.
Trent’anni dopo, la richiesta di “riprendere la notte” è sostituita nel discorso pubblico dalla richiesta delle ronde, dei “protettori”. Le donne sono tornate nel ruolo di vittime da proteggere, ma anche potenzialmente chiudere in spazi, appunto, protetti. Ma quali? E chi può garantire protezione? Oltre alla notte dovremmo riprenderci anche il giorno, e oltre alle strade e ai parchi anche le case, ove continua ad avvenire il maggior numero di violenze, anche sessuali, contro le donne di ogni età e contro i bambini di entrambi i sessi.
E nessuno garantisce che chi si candida a proteggere in pubblico non sia un aggressore in privato. Al contrario, l’affidamento di un ruolo pubblico di protettore può rafforzare in alcuni l’idea che le donne siano una proprietà privata da difendere dagli altri uomini, anche contro loro stesse. Non sono rare violenze tra uomini motivate da uno sguardo o una parola sbagliata rivolta alla “donna di un altro”. E troppo spesso la reazione contro gli autori di violenze in luoghi pubblici è stata l’invocazione di poter fare giustizia da sé, della consegna dello stupratore agli uomini di famiglia della vittima.
Attribuire alle donne lo status di vittime potenziali non giova né alla loro sicurezza né alla loro libertà. Il fatto che si autocandidino anche ronde femminili sposta di poco la questione, anche se toglie il monopolio maschile ai “protettori”.
Ciò non significa che non si debba fare nulla di fronte alla mattanza che miete vittime di ogni età con ritmo pressoché quotidiano, da parte di italiani come di stranieri, rimandando al, pur necessario, lavoro culturale ed educativo per modificare comportamenti. Non si tratta solo d’inasprire, e rendere certe, le pene. Occorre anche rendere ragionevolmente sicuri, per tutti, almeno gli spazi pubblici tramite un controllo diffuso e costante del territorio con mezzi normali: illuminazione; esercizi pubblici diffusi e aperti; il vigile o il poliziotto di quartiere di cui periodicamente si parla, ma che raramente decolla (e che ora sembrerebbe sostituito dalle ronde di quartiere), con una particolare attenzione per le aree e le ore più a rischio; mezzi pubblici che non abbiano fermate perse nel nulla e che di notte siano non solo più frequenti, ma autorizzati anche a fermate supplementari e che possano collegarsi, come avviene già in alcune città, ad un servizio taxi.
Ma fa parte della sicurezza degli spazi pubblici anche una diffusa coscienza e comportamento civico, per cui ciascuno si sente responsabile di ciò che succede nel proprio spazio, non facendo il poliziotto, ma il cittadino vigile e solidale. Fa impressione che dilaghi la domanda e l’offerta di ronde in un contesto comportamentale in cui si può essere aggrediti a scuola o per strada senza che nessuno muova un dito, perché è meglio farsi i fatti propri; in cui chi assiste a un borseggio in autobus tace, fin che il fatto è avvenuto e il borseggiatore se n’è andato. È l’omertà unita a indifferenza e paura diffuse che rende pericoloso lo spazio pubblico, per le donne, ma anche per tutti coloro che per età o altro appaiono vulnerabili.
Chiara Saraceno
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