Recensione
Nel 2009 Bompiani pubblicò il primo romanzo dello svedese Jonas Jonasson, non più giovanissimo ma con una lunga pratica di scrittura, essendo egli giornalista. Questo e i romanzi che lo hanno seguito sono opere corpose, tra le quattrocento e le cinquecento pagine, ma si capisce subito che la ponderosità dei volumi è tale solo in senso proprio: la scrittura di Jonasson è leggera e fluida, condita con sottili fette d’ironia scandinava disseminate tra le pagine in abbondanza e con grande abilità.
Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve è la storia di Allan Emmanuel Karlsson, nato il 2 maggio 1905 a Yxhult, Svezia. Il giorno del suo centesimo compleanno decide di sfuggire alle grinfie dell’infermiera Alice e di abbandonare la casa di riposo che lo ospita, dove fervevano i preparativi per una festa in suo onore. Scavalca la finestra in pantofole e sparisce.
Da lì una serie di equivoci genera avventure divertenti e peripezie incredibili, che l’autore racconta ingaggiando diversi altri personaggi, i quali man mano affiancano Allan in prima linea, senza mai scivolare nelle retrovie della narrazione. Tra questi, Benny risulta particolarmente intrigante: lui detiene l’inutile primato di aver frequentato almeno una decina di corsi universitari senza concluderli, non per indolenza, ma per poter continuare a godere dell’eredità di uno zio. E così è un quasi medico, un quasi architetto, un quasi veterinario, un quasi ingegnere, un quasi botanico, e molti altri quasi. È un irresistibile quasi tutto.
Il racconto è incalzante, il ritmo serrato, ma non induce mai stanchezza e affanno, forse anche nel rispetto dell’età del protagonista… Aderisce perfettamente al genere surreale, se ne riconoscono subito i tratti distintivi. L’ottimo stile di scrittura risulta ben caratterizzato dalla reiterazione di elementi tipici, alcuni atti linguistici diventano stuzzicanti refrain: in poche pagine ricorre ben sette volte la seguente descrizione: “Era un giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con la scritta Never again sulla schiena”. L’umorismo nordico solletica il lettore anche giocando con l’assurdo: “Poco dopo il padre finì inghiottito da una palude nel tentativo di salvare una mucca. Anche in questo caso Julius soffrì molto, essendo parecchio legato all’animale”… Insomma, quella di Jonasson è una scrittura d’indubbio carattere.
Il vegliardo e i suoi nuovi amici vengono attivamente ricercati dalla polizia, anche perché sembrano implicati in due o tre omicidi, mentre il racconto affonda con cadenza regolare nel passato di Allan, che definire rocambolesco è un blando eufemismo. Suo padre era socialista, ma poi viene investito dall’onda russa controrivoluzionaria e diventa zarista, arrivando a disprezzare i bolscevichi, descritti come sporchi analfabeti bevitori di vodka. Saranno proprio loro a ucciderlo, per banali questioni di confine di un terreno. A nove anni Allan lascia la scuola e va a lavorare come fattorino in una fabbrica di nitroglicerina; a quindici, dopo la morte della madre, fonda un’azienda di esplosivi. Dopo aver causato un grave incidente viene condannato a quattro anni di carcere, e finisce nelle mani di un medico dedito a pratiche eugenetiche, che lo sterilizza. Lavorando in una fabbrica di cannoni, stringe amicizia con un collega spagnolo, e parte con lui per la sua terra natale, da dove Allan continua un viaggio intorno al mondo che lo porta negli USA, in Cina, nel Tibet, sull’Himalaya, in Afghanistan, in Iran, in Inghilterra, ancora in Svezia, in URSS, in Corea del Nord, in Indonesia – di cui rimarca in modo esilarante la corruzione! –, in Francia, ancora in URSS, ancora in Svezia, ancora in Indonesia… Il protagonista di questo libro ha certamente un’indole poco stanziale.
Da centenario, il dolore alle ginocchia è l’unica patologia che lo affligge, il più tangibile segno di senilità, ma anche una convincente prova di esistenza in vita. Allan dimostra che per arrivare a compiere un secolo in buona salute bisogna disinteressarsi di politica, ma questo era già stato il consiglio di Epicuro nel IV secolo a.C. Tuttavia è sempre costretto a sorbirsi le sbobbe ideologiche delle eminenti personalità politiche e dei capi di Stato con cui pasteggia e si sbronza. Allan ha una spiccata passione per l’alcol e una rara propensione alla sincerità. Dice spesso la verità, così mettendosi nei guai; ma riesce a uscirne quasi sempre con la stessa pratica.
Durante la guerra civile spagnola lavora come artificiere per i repubblicani in cambio di tre pasti al giorno e, soprattutto, di vino; ma quando per caso salva la vita a Francisco Franco, passa dalla sua parte. Senza alcun titolo di studio, diventa collaboratore dei migliori fisici, matematici e chimici d’America, e aiuta Oppenheimer a tenere sotto controllo la fissione nucleare, a riprova che l’esperienza conta più dei libri; la competenza in fatto di esplosivi è la sua fortuna, e gli salva spesso la vita. A Los Alamos cena col vicepresidente Truman, di cui diventa compagno di bevute. In Cina, ingaggiato da Song Meiling, moglie di Chiang Kai-shek, fa saltare ponti a danno dei comunisti; ma poi libera Jiang Qing, moglie di Mao Tse-tung, dalla prigione del Kuomintang. Al Cremlino viene accolto dal maresciallo Berija, e cena con Stalin. In Corea del Nord si accomoda sul divano di Kim Il-sung, insieme a quel pacioccone di Mao. A Parigi pranza con De Gaulle e Lyndon Johnson, e diventa spia per la Cia in URSS. Nixon gli stringe la mano prima di precipitare nello Scandalo Watergate.
A ottantatrè anni, Allan lascia la bici e acquista un’auto, a novantanove si arrabbia per la prima volta – il segreto della sua longevità è forse la mancanza di collera, insieme al rifiuto della politica –, a cento anni, quasi centouno, finalmente s’innamora e… scopre i piaceri della carne. Alla faccia del criminale che, settantacinque anni prima, lo aveva castrato, evidentemente con una tecnica difettosa… Insomma, Allan c’insegna che non è mai troppo tardi.
Di solito, nelle storie, non apprezzo la mescolanza e l’interazione di personaggi realmente esistiti con quelli di fantasia, tanto di moda nella letteratura e nel cinema contemporanei; tuttavia devo ammettere che in questo romanzo la contaminazione della realtà con l’invenzione o, meglio, dell’invenzione con la realtà, risulta vincente e avvincente. La grande perizia architettonica di Jonasson è dimostrata dalla razionalità dell’impianto narrativo; in esso tutti i cerchi si chiudono. Buona lettura a tutti!
Cristiana Bullita
E’ un libro straordinario, divertente, fluido e distensivo. Contiene anche tante reminiscenze storiche del Novecento!
Grazie di avercelo riproposto con la recensione.
Una recensione che incuriosisce e invoglia, godibile essa stessa indipendente dal libro di cui parla!
Grazie!